‘L’avamposto’, il sogno dell’uomo che voleva portare i Pink Floyd in Amazzonia | Rolling Stone Italia
Breathe

‘L’avamposto’, il sogno dell’uomo che voleva portare i Pink Floyd in Amazzonia

Tra Fitzcarraldo e Mister No, la storia di Christopher Clark, attivista che ha cercato di costruire un’utopia nel polmone verde della Terra

‘L’avamposto’, il sogno dell’uomo che voleva portare i Pink Floyd in Amazzonia

Christopher Clark mentre fuma in spiaggia

Avrebbe fatto impallidire anche il mitico concerto in Laguna davanti a Piazza San Marco. Pensate, i Pink Floyd che suonano nel cuore della Foresta amazzonica per sensibilizzare il mondo intero e salvare il polmone verde della Terra. Questa idea, folle e magnifica, era venuta a Christopher Clark, uno scozzese diventato leggenda per il suo attivismo ambientalista, tutto teso a salvare un territorio immenso che ogni anno si assottiglia sempre più, alla mercè di multinazionali che durante gli anni della presidenza Bolsonaro in Brasile hanno fatto più o meno quello che volevano.

Una storia incredibile, degna di Werner Herzog, e a suo modo Christopher era un Fitzcarraldo contemporaneo che andava raccontato. Lo ha fatto Edoardo Morabito, regista italiano che ha preso la sua cinepresa ed è volato in Brasile per conoscerlo e documentare questo sogno, mai realizzato ma raccontato in L’avamposto, un gran bel documentario, che dal 26 febbraio inizierà un lungo tour per tutta la penisola, con una distribuzione diffusa fatta di eventi a scansione quasi quotidiana. Morabito, catanese, vincitore del Torino Film Festival nel 2013 per il miglior documentario italiano con I fantasmi di San Berillo, ma anche montatore di altri doc importanti come Belluscone – Una storia siciliana di Franco Maresco e Liberami di Federica Di Giacomo, si è imbattuto casualmente in questa vicenda, diventata poi, anche per lui, un’ossessione.

«Come ho conosciuto Christopher alla fine è poco divertente», mi ha raccontato Edoardo. «Dopo San Berillo cercavo una storia, e a un certo punto è uscito un bando di co-produzione Italia-Brasile, l’ultimo perché poi da Bolsonaro in poi è stato tutto fermo. Ho chiamato il mio produttore e lui aveva un amico che aveva lavorato con Christopher e gli aveva parlato di lui. Ho letto un paio di articoli e sono impazzito. Ho scritto un soggetto e l’ho raggiunto dall’altra parte del mondo, senza che lo conoscessi, ma già si capiva che era un personaggio alla Joseph Conrad, un uomo coltissimo a cui univa un’aura da super colto e insieme da figlio dei fiori che aveva questo sogno, che era anche una grandissima contraddizione, di poter salvare la Foresta amazzonica con un simbolo dello stesso mondo capitalista che la sta distruggendo».

Edoardo Morabito

Clark, come racconta in L’avamposto, aveva cercato di rendere indipendente una tribù che abitava in una particolare regione dell’Amazzonia creando una sorta di villaggio turistico ambientalista, un’utopia nell’utopia crollata di fronte all’impossibilità di questa comunità d’integrarsi in un mondo esterno che probabilmente non avrebbero mai neanche voluto conoscere. Eppure l’idea di Christopher era potenzialmente vincente, perché avrebbe permesso di rendere indipendente la regione dal punto di vista economico e avrebbe anche permesso di sensibilizzare il governo locale, e poi quello centrale, sulla richiesta di far rientrare il territorio nella riserva protetta dell’Amazzonia. «Era una doppia contraddizione in termini, perché salvare la foresta rendendola merce andava contro il concetto stesso di foresta, ma la sua visione era comunque affascinante. E infatti appena l’ho conosciuto mi sono subito innamorato del personaggio».

Il viaggio Morabito lo racconta in prima persona, attraverso una voce narrante che accompagna tutto il film, una necessità dettata anche dalla sua lunga gestazione e da quello che è successo nel frattempo. «Ho iniziato a lavorare a L’avamposto nel 2016, girando prima in Brasile e poi in Inghilterra, dove Christopher era tornato perché era morto il padre. Quando ho iniziato a mettere su il progetto produttivo Christopher si è ammalato ed è morto, e da quel momento mi sono bloccato, non riuscivo più a lavorarci. Dopo un anno mi sono ritrovato una notte che non riuscivo a dormirci al pensiero, non riuscivo ad abbandonare il film e Chris. Allora mi sono messo alla scrivania, ho aperto l’hard disk e da lì ho cominciato a riscrivere tutto mettendo al centro il mio incontro con lui, era l’unica maniera per arrivare a un montaggio. La storia originaria che avevo in mente era completamente diversa, si sarebbe dovuta ambientare di più in Occidente e con un respiro alla Monicelli. Scrivere il testo che adesso accompagna il film è stato per me faticoso, ma il risultato finale restituisce un’umanità molto superiore rispetto all’idea iniziale».

Christopher si immaginava come sarebbe stato il concerto, lo racconta nella scena iniziale del film, ma il dubbio è che il sogno fosse anche un po’ una scusa per riuscire a raccogliere fondi per mandare avanti quello che era il suo progetto iniziale. «Era un uomo estremamente intelligente e lucido che seguiva quasi istintivamente il dettame gramsciano del pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà: era così, non poteva vivere altrimenti. Poi era diventata anche un’ossessione e un gioco tra noi due che alimentavamo a vicenda, lui si appoggiava a me per continuare a coltivare quest’utopia, e io a lui per fare il film. Chris aveva capito che poteva sfondare la parete dell’immaginario per alimentare la realtà. Ma ciò non toglie che parliamo di un uomo che ha fatto veramente cose eccezionali nella vita, e il mio è un elogio alla visionarietà e alla fantasia al potere. Chris in quel posto sperduto ha aperto scuole grazie ai soldi raccolti con l’associazione da lui creata con gli abitanti di Xixuau, ci ha portato i pannelli fotovoltaici, ha coinvolto scienziati per studiare gli effetti curativi delle centinaia di piante che crescono nella zona e stava progettando proprio l’apertura di un centro di ricerche in loco».

Un’immagine di ‘L’avamposto’

La curiosità sorge spontanea: ma Roger Waters e David Gilmour lo hanno visto il film? «No. Posso dirti che ero arrivato molto vicino a uno dei due, ma non ho fatto l’ultimo passo, per una ragione narrativa e un motivo etico. Alla fine, da una parte, era meglio che tutto questo restasse un sogno. E poi la presenza di un personaggio di tale portata avrebbe trasformato questa storia in showbusiness, una paraculata pubblicitaria, tradendo tutto l’aspetto politico che c’è nel film e nella vita di Christopher».

Forse ci avrebbe messo meno di otto anni per realizzare e far uscire L’avamposto, ma certamente non sarebbe stata la stessa cosa. D’altronde fare documentario in Italia è uno sport estremo. «E considera che non era nemmeno quello che volevo fare, al Centro Sperimentale mi sono diplomato in montaggio e poi mi ci sono avvicinato dopo, per teoria, pratica e destino. La verità è che il documentario in Italia è trattato a calci in culo, è vero. È davvero l’avamposto dove si battaglia per la sopravvivenza del cinema, l’unico margine rimasto per sperimentare il linguaggio raccontando veramente qualsiasi cosa in qualsiasi modo, ma anche questo aspetto ormai è appiattito sugli standard richiesti dalle piattaforme streaming che hanno uniformato tutto. Il documentario resiste, ma si fa sempre più fatica a comunicare un’idea».

Voglio chiudere la nostra conversazione tornando a Joseph Conrad. Ma alla fine sei entrato anche tu nella linea d’ombra di Christopher? «Guarda, in realtà sono stato poco, ma dopo dieci giorni, con il caldo, le condizioni di vita estreme, pratiche ma anche morali e culturali completamente diverse rispetto a quello a cui siamo abituati, ho sentito un mezzo impazzimento. E anche per questo va reso merito a Christopher, che passava più tempo in mezzo agli indigeni della sua riserva che nel resto del mondo per avere mantenuto un equilibrio notevole. Chris era uno che conosceva il mondo, prima di arrivare in Brasile aveva fatto fortuna in Toscana, fu uno dei primi a ristrutturare casali che poi vendeva ai ricchi inglesi, già negli anni Ottanta. Con quei soldi ha iniziato e portato avanti il suo progetto in Amazzonia, era un genio e un sognatore al tempo stesso».

Christopher fa venire in mente Jerry Drake, il Mister No di Guido Nolitta, al secolo Sergio Bonelli, il pilota che dopo la Seconda guerra mondiale si ritira in Brasile, lontano dall’ordine costituito per crearsi una nuova realtà. E anche un nuovo sogno da inseguire. Senza realizzarlo, perché in fondo i sogni che diventano realtà sono sempre delle mezze delusioni.