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L’amore e la violenza degli ‘Ultras’ secondo Lettieri (feat. Liberato)

Una chiacchierata col regista di videoclip cult al suo esordio nel lungometraggio (da oggi su Netflix): una battaglia epica nella curva partenopea, tra l'estetica dell'autore e le musiche del golden boy di 'Nove maggio'

Foto: Netflix

Oggi esce su Netflix il primo film di Francesco Lettieri. Ultras è la storia di un capo tifoseria diffidato dalla Questura e dall’esistenza, che conosce solo amori impossibili: con le donne, con il Napoli, con le nuove generazioni di tifosi, con le vecchie generazioni di tifosi, con il futuro. Ai tempi del coronavirus, sarà particolarmente suggestivo immedesimarsi nel personaggio interpretato magistralmente da Aniello Arena, anche per chi non segue il calcio da vicino. Un bel giorno il Moicano (da non scrivere mai con l’acca), dacché aveva tutto a disposizione – striscioni, murali, lungomari –, all’improvviso non ha più niente. Il Moicano siamo noi, diffidati dal jogging. L’11 marzo 2020 abbiamo tutti avuto un Daspo dalla vita quotidiana, e siamo costretti, proprio come lui, a vivere un amore a distanza dalle nostre passioni e dai nostri desideri più normali che, nel nostro caso, non sono malmenare romanisti, ma uscire di casa.

Francesco, il tuo primo lavoro per il cinema esce nel pieno di un lockdown nazionale causato da una pandemia.
È stata un po’ una sfiga (ride). Il decreto che ha chiuso, tra le altre cose, i cinema di tutta Italia è stato reso esecutivo il giorno prima dell’uscita in sala. Certo, il film ci sarebbe rimasto solo per tre giorni, ma è stato comunque un dispiacere. Avrebbe dovuto essere non solo la mia première, ma — soprattutto — una festa da fare con la troupe e col cast. Per fortuna è mancata solo la festa, perché il film esce su Netflix. Una fortuna nella disgrazia, rispetto a tanti altri registi che hanno visto i loro film, semplicemente, bloccati.

Francesco Lettieri sul set con Aniello Arena. Foto: Netflix



Durante la conferenza stampa (rigorosamente una videoconferenza) ti avevamo chiesto se parlare oggi degli ultras potesse simbolo della polarizzazione manichea dei nostri rapporti umani, sociali, politici. Un manifesto della mancanza di sfumature. Ci avevi risposto che tenevi più al significato letterale.
Sì.

Oggi ti chiediamo invece se il 20 marzo, in piena quarantena, Ultras non possa essere visto come un inno alla fisicità, al contatto, nel bene o nel male, tra persone. Un film sulla violenza che una tribù urbana, gli Apache, cerca di mettere tra sé e un mondo che non la ascolta, che non la vede, con cui non riesce a interagire. È più vicino a quello che avevi in mente?
L’idea era proprio questa. Raccontare l’amore e la violenza, pulsioni umane istintive e antiche che, nella società contemporanea, vengono spesso represse, per riaffiorare in un numero sempre più ristretto di occasioni, come nel tifo organizzato. Mi interessava rappresentare lo scontro e la rivalità, l’individuazione certa di un nemico, in una chiave epica. Ho cercato di dare al racconto una struttura classica. Scrivendo, ho immaginato certe mischie come battaglie tra ateniesi e spartani.


Le serie o i film contestualizzati nell’illegalità finiscono spesso per rischiare di essere o un elogio involontario — che si dice possa portare all’emulazione, o una condanna senza appello — che qualche volta è causa di travisamento. Tu da che parte ti sei posto?
Secondo me il cinema non deve avere una funzione pedagogica o educativa. Deve fare spettacolo provando a produrre cultura. I problemi nascono quando una serie come Gomorra diventa più influente sui ragazzi della scuola e dei professori. Di questo però non darei la colpa a chi scrive una storia ambientata nel mondo della criminalità, ma a chi finisce per trarre da un personaggio negativo una lezione, un modello da seguire. Altrimenti il cinema e la letteratura non potrebbero più mettere al centro del loro interesse personaggi negativi e storie malaugurate, cosa che hanno sempre fatto. Ci sarebbero solo storie in cui stanno tutti bene. E non resterebbe molto da raccontare.

Tu non sembri avere un punto di vista né dal basso verso l’alto né dall’alto verso il basso, ma orizzontale, senza estetizzazioni né giudizi, quasi da mockumentary.
Col mio film, che è molto lontano dal modello campano-criminale, ho cercato di non avere mai uno sguardo giudicante o moralista su cosa significhi essere ultras o su chi ha fatto della violenza la propria vita. Anche se la violenza mi sembra un’assurdità, ho cercato di calarmi nel mondo di chi investe la maggior parte del suo tempo libero per organizzare coltellate in autogrill, chiedendomi sempre le ragioni di tutto questo.

Come fai a conoscere così bene gli ultras, il loro linguaggio, modi di fare, rituali? Come sei riuscito a fare tua una società non accessibile a tutti?
Quella degli ultras è una delle società più chiuse in assoluto. Non hanno social, non rilasciano interviste. Ogni gruppo ultras, inoltre, è diverso dagli altri e ci sono differenze insormontabili tra Nord e Sud e tra città e città. La mia prima preoccupazione è stata quella di raccontare una storia credibile e dunque rispettosa del movimento. Negli anni ho frequentato la curva e ho conosciuto davvero personaggi come quelli del film, anche se da lontano. Non è che partecipassi alle loro riunioni, ma a Napoli – tra cori, murali e stencil – la presenza della tifoseria si fa sentire e vedere. Dopo aver delineato la storia del film, ho sentito la necessità di studiare davvero. Attraverso le mie conoscenze di un tempo, ho ottenuto delle vere e proprie “consulenze”, su cui ho basato un lavoro di ricerca. Così ho potuto capire se un certo atteggiamento, una certa dinamica, un certo tipo di arma fossero verosimili. Anche l’abbigliamento ultras risponde a un codice preciso: ci sono dei marchi che sono ultras e altri che non lo sono.

Guardando il film alla luce della tua videografia, e in particolare quella napoletana con Liberato, abbiamo avuto l’impressione che videoclip e cinema presentino un’unità stilistica tale da pensare che i primi siano la forma-novella e il secondo la forma-romanzo di un solo sistema narrativo, una sola commedia umana napoletana contemporanea. Continuerai a scrivere questo Oro di Napoli estremo, che va a cercare l’oro sempre più in basso?
All’inizio non volevo ambientare il film a Napoli, soprattutto dopo il successo dei video di Liberato. Per sorprendere il pubblico avrei voluto localizzarlo a Latina. Poi mi sono reso conto che, per gli obiettivi che mi ero posto, la cosa più naturale sarebbe stata tornare proprio a Napoli. Detto questo, però, credo che questo sarà il primo e anche l’ultimo mio film che parlerà di questa città. Ho sempre pensato che il cinema possa essere un modo di esplorare, di conoscere realtà e persone diverse.

Lettieri sul set. Foto: Netflix

A quali modelli ti rifai in questo?
Il regista che ammiro di più è Werner Herzog. Non solo per i suoi film, che sono bellissimi, ma anche per il suo approccio al lavoro come continua, nuova esperienza di una vita di ricerca. Nel mio piccolo, anche se non potrei mai paragonarmi a Herzog, vorrei fare cinema per conoscere il mondo.

In Ultras hai ulteriormente consacrato la tua inquadratura-firma: quella, di spalle, che ritrae il Moicano prima ancora che vediamo il suo volto. La stessa che ha contribuito a rendere iconica la felpa di Liberato. È il tuo manifesto poetico?
Col gruppo dei videoclip, che è ormai una famiglia e che, per fortuna, è rimasto con me anche per il film, abbiamo creato vari nomignoli per quella inquadratura. È vero che la usiamo spesso, un po’ come una firma. Alcuni la chiamano “nuchismo”, per via della centralità della nuca. Io la chiamo il “Refn”, perché mi ha ispirato il regista danese nella trilogia di Pusher. Ma l’ha usata anche Gus Van Sant in Elephant. Nello specifico del Moicano, l’idea era quella di svelarne la personalità gradualmente. Io sono uno che si fa poche pippe mentali, però potrei dire che è una metafora della rivelazione del suo dark side, insieme alle sue sconfitte e ai suoi fallimenti: le cose che, del resto, mi interessano di più di lui.

Nei videoclip tutti parlano con la voce di Liberato. In Nove maggio il cantante senza volto doppia la giovanissima protagonista, mentre lei compie la sua discesa agli inferi al contrario, dalla periferia al centro. Nel film hai fatto l’operazione inversa: gli attori hanno ciascuno la propria voce e Liberato mette solo musica, perlopiù senza parole (tranne che in un caso). Perché?
Anche se ho cominciato coi videoclip, ho sempre cercato di essere un narratore. Avevo un desiderio fortissimo di farmi notare come regista per riuscire a fare dei film. Far innamorare il pubblico di una storia lunga tre minuti è molto difficile. Impianto visivo ed estetica pop a parte, nei miei videoclip ci sono dei piccoli, grandi personaggi che hanno una loro tenerezza, un sentimento, qualcosa che buca lo schermo. Nel film ho cercato di mettere comunque al centro i personaggi. Tutti i personaggi. Una cosa che mi capita spesso di vedere al cinema è che si lavori tanto sui protagonisti, per poi trattare come semplici comparse tutti quelli che gli ruotano attorno. A me invece interessano tantissimo i comprimari, come ad esempio tutto il gruppo dei diffidati. E ho cercato di rendere veri anche gli occupanti delle seconde e delle terze linee. Lo stesso discorso riguarda le donne, che vedo ancora troppo spesso rappresentate perennemente sul divano di casa. E spero che Terry (Antonia Truppo, ndr) ne sia la prova.

Com’è andata con Liberato in questa sua nuova veste?
Quando ho scritto questo film, sapevo che non avrebbe potuto esserci che lui per la musica. Lo avrei cercato anche se non avessi fatto i suoi video, perché era il film perfetto per Liberato. C’è stata una collaborazione intensissima, che spesso ha valicato i ruoli rispettivi di regista e autore e curatore della colonna sonora. Abbiamo pensato tutto insieme: io immaginavo delle musiche con pochissime note, con poca melodia, molto fredde. E lui ha lavorato sui suoni dei personaggi: un suono per il Moicano, un suono per i ragazzi, un suono per Terry.

Qual è il ricordo più speciale che ti resterà di questo lavoro?
È stato quando abbiamo girato il piano sequenza più lungo e complicato del film. È quello col monologo del Moicano, su una terrazza del Rione Terra, mentre viene srotolato un grande striscione. Dura circa cinque minuti e avevamo circa mezza giornata per girarlo. Ogni cinque minuti una campana lì vicino suonava per almeno un minuto, un minuto e mezzo. In pratica, era la campana di quella chiesa che dava i tempi al Moicano.

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