Lady Danbury è un vera punk rocker. All’Italian Global Series Festival ci aspettavamo di prendere un tè con i pasticcini insieme ad Adjoa Andoh – per l’appunto, la mitica Lady Danbury della serie tv Bridgerton – e invece a momenti urlavamo insieme “Punk is not dead” dalla terrazza del PalaRiccione, dove dal 21 al 28 giugno si è tenuta la kermesse organizzata da Apa, il Ministero della Cultura, AGIS e Cinecittà. Il che, con il senno del poi, non era poi nemmeno così improbabile. A Riccione Andoh sì è presentata al red carpet del festival sfoggiando un vestito in puro stile regency, da vera nobildonna, ma di un colore viola acceso da far svenire tutti gli scaramantici presenti. Una scelta che trasudava ribellione, un po’ come quella testa rasata che riscrive le regole della femminilità. Mentre riceveva il premio, la guardavi e in lei ci vedevi rigore e sfida, gentilezza e carattere: tutto così, centrifugato insieme. «Sono sempre stata una punk rocker, e mica solo da adolescente», ci racconta il giorno dopo la premiazione, quando la incontriamo per chiacchierare teoricamente di Bridgerton, di fatto di musica. «Lo sono ancora adesso: si è punk nell’anima».
Ora però mi devi spiegare tutto per bene…
Sono cresciuta nella campagna inglese, in un villaggio davvero piccolo e bucolico: per capirci, da casa mia passavano solo due autobus a settimana e noi vivevamo tra mucche, pecore, caprette. Era un posto meraviglioso, anche perché io amo la natura, ma ovviamente dovevi, diciamo così, trovare i tuoi interessi. Il paese non offriva granché. Mio padre, che tra l’altro era l’unico africano del luogo, lavorava come giornalista e amava la musica folk, sia inglese che irlandese. Suonava in un gruppo ed era un musicista meraviglioso, anche se amatoriale: suonava per la pura gioia di farlo. La sua passione mi ha contagiato. Passavo ore ad ascoltare un programma radiofonico che trasmetteva musica folk, che poi, a un certo punto (erano gli anni ’70), ha anche iniziato a trasmettere questa nuova musica chiamata “punk”. Un giorno sono andata al concerto di una band chiamata The Clash e… wow! Avevano come supporto un gruppo punk francese, tutto al femminile. Ne sono rimasta stregata. Da allora – avevo 13 anni – non ho mai smesso di essere punk.
Cosa ti affascinava di quel mondo?
Fin da subito ho capito che il punk era incredibilmente inclusivo. C’erano gli skinhead, certo. C’erano i rasta, assolutamente. Ma c’erano anche le donne che indossavano quello che volevano, gli uomini che vestivano abiti eleganti: era un inno alla libertà. La libertà di essere creativi e di essere se stessi con autenticità. È questo quello che voglio ancora. E poi mi piace l’etica del punk, che invita a dare vita ai tuoi sogni: ti dice di non aspettare che qualcuno ti dia il permesso, o un aiuto. Vai, lotta, crea! Che è quello che sto cercando di fare anche con la mia casa di produzione Swinging the Lens. Da ragazza la mia massima aspirazione sarebbe stata diventare una bassista punk.
Sapevi suonare?
Tutti in famiglia avevamo a che fare con la musica. Mio papà era un musicista, come prima lo era stato mio nonno e poi mio fratello. Io suonavo il pianoforte e il violino, per poi aggiungere il violoncello durante gli anni dell’università. Adoravo pure la musica classica.
Quindi com’è che sei finita a fare l’attrice?
Suonavo tutto, ma male. Anche sul canto, i miei figli avrebbero da raccontarti parecchio. E poi comunque è arrivata Pippi Calzelunghe.
Prego?
Amavo le storie tanto quanto la musica. Scrivevo tantissimo, ero addirittura a capo di alcuni club di lettura per bambini. Quando lessi Pippi Calzelunghe fu una rivelazione: mi piaceva la sua fame di vita, la sua capacità di andare a prendersi ciò che voleva. Era forte, volitiva, straordinaria. L’adoravo così tanto da colorarmi le trecce di rosso e disegnarmi, con la matita di mia mamma per il trucco, le lentiggini in faccia.

Adjoa Andoh all’Italian Global Series Festival. Foto: Daniele Venturelli/Getty Images for Italian Global Series Festival
È stato difficile farsi largo nel mondo del teatro e del cinema?
Sì, ma non per i motivi che si potrebbero immaginare. Il vero problema non era il fatto di essere donna, o un’attrice di colore, ma la mia ignoranza: nessuno in casa mia recitava, come ti dicevo sono cresciuta in un paesino e quindi non conoscevo le possibilità che la vita poteva offrirmi. La vera sfida è stata capire chi ero, cosa desideravo, e che questi desideri potevano diventare realtà. Per farti capire quanto fossi fuori strada, ti dico solo che mi ero iscritta a Legge. Però fu proprio in università che entrai a far parte di un gruppo di donne nere, che mi aprì un mondo. All’epoca infatti “black” non voleva dire di origine africana: significava solo “di colore”. Quindi in questo gruppo c’erano donne turche, asiatiche, cinesi. Una di loro era un’attrice afroamericana, che si era trasferita nel Regno Unito. Stare con loro mi ha fatto capire che odiavo Legge: non volevo farlo, non era il mio. Quando lo dissi a mio padre, pianse. Sono però andata per la mia strada: ho lasciato la facoltà e ho iniziato a prendere lezioni di teatro. La mia insegnante era un’attrice afroamericana: aveva scritto un’opera teatrale e mi incoraggiò a fare il provino. Mi presero e mi trasferii a Londra, dove abito tuttora. Da lì iniziò tutto.
Oggi Hollywood deve fare i conti con diverse sfide: l’IA, la cancel culture, i tagli ai budget. Qual è a tuo avviso l’ostacolo maggiore?
Il problema è molto più grosso e va oltre la singola minaccia. Il punto è a cosa si sta dando valore. Non so come sia la situazione in Italia, ma sia in Inghilterra che in America stanno tagliando i budget per la musica, il teatro, la pittura. Solo chi va in una scuola privata li approfondisce, ma bisogna permettersi i soldi di una retta. È pazzesco, sembra che oggi siano importanti solo matematica e scienze che, per carità, lo sono ma al 50%. L’altro 50% sono le arti. Il pericolo maggiore è proprio la svalutazione delle materie umanistiche che invece sono fondamentali per leggere il mondo, la politica, e fare le scelte corrette. Senza contare che l’arte è ciò che la gente cerca quando ha bisogno di aiuto. A un funerale cosa non manca mai? La musica. Dopo una giornata di lavoro, cosa facciamo? Accendiamo la tv, o la radio. Se guardiamo un dipinto, ci sentiamo bene e il nostro cuore canta quando vediamo un’alba o un tramonto.

Adjoa Andoh alias Lady Danbury. Foto: Netflix
Veniamo a Bridgerton: possiamo dire che la tua Lady Danbury e la regina sono le vere colonne della serie?
In realtà siamo in quattro: includerei anche la mamma delle figlie Bridgerton e Lady Featherington. Noi quattro diamo voce a una società matriarcale, che affronta la vita senza il sostegno degli uomini. Sì, per certi versi siamo delle colonne portanti.
Nella serie la regina è nera, così come in parte la nobiltà. In nome dell’inclusione, non si sarà un tantino forzata la mano?
No: non abbiamo riscritto la Storia, ma enfatizzato elementi che già esistevano. La società era meticcia, era un grande crogiolo. Non a caso, se si leggono le cronache dell’epoca, ci si imbatte in critiche per il naso troppo largo, o la bocca grande dei sovrani. La vera riscrittura della storia è sostenere che i sovrani e i nobili fossero stati tutti e solo bianchi.