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La ribellione silenziosa di Mahershala Ali

Dopo quasi 20 anni di lotte a Hollywood, il premio Oscar, in tv con 'True Detective 3' e presto al cinema con 'Green Book', ha scommesso tutto per diventare 'attore protagonista'.

«Sto solo cercando il mio equilibrio» dice Mahershala Ali nel parcheggio del Griffith Observatory di Los Angeles. «Sto imparando a gestire le proposte in modo da fare solo cose che abbiano un significato. E poi c’è la famiglia, le esigenze di mia moglie e di mia figlia. E devo trovare un po’ di tempo per me. Sono sempre stato un tipo solitario. La mia teoria è: se fai le cose una alla volta le farai tutte bene. Credo che esista una specie di spazio magico in cui ogni singolo elemento della tua vita si sostiene e si alimenta a vicenda, fino a migliorarla nel suo insieme. Ogni tanto penso: ok, ci sto arrivando»

Ha parlato per cinque minuti solo per rispondere alla mia prima domanda: «Come va?». Mahershala Ali, 44 anni, è un uomo profondo, riflessivo e molto comunicativo. Lo ha dimostrato nel 2016 in Moonlight nel ruolo di uno spacciatore sensibile che gli è valso un Oscar e anche nel suo discorso ai SAG Awards, a 48 ore di distanza dal “travel ban” con cui Trump ha bloccato l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini provenienti da sei paesi considerati nemici. È salito sul palco indossando uno smoking bianco immacolato che faceva risaltare ancora di più la sua pelle nera e ha dichiarato fieramente di essere musulmano.

«È un illuminato» dice Peter Farrelly, regista del suo ultimo film Green Book, «Ha un grande cuore e uno spirito positivo, è una di quelle persone che sei felice di avere accanto». Ali è in cerca del suo equilibrio forse perché ha lavorato per un anno intero senza mai fermarsi. Dopo Green Book, probabile candidato all’Oscar, ha avuto solo sette giorni di pausa prima di iniziare i sette mesi di riprese della terza stagione di True Detective. Nel frattempo vive con la moglie Amatus Karim-Ali in una casa che è «pronta al 75 per cento» con una figlia di 20 mesi: «Diciamo che sono piuttosto impegnato».

Il suo nome completo, che ha cambiato dopo la conversione all’Islam nel 2000 è Mahershalalhashbaz. È tratto da una profezia biblica e vuole dire una cosa tipo: “Affrettatevi a spartirvi il bottino”. Eppure Ali ha dovuto aspettare 40 anni per trovare un bottino. È nato a Oakland (il suo vero nome è Mahershala Gilmore) da due genitori giovanissimi: sua madre aveva 16 anni, suo padre 17. Si sono separati presto. «Mia madre è una sacerdotessa, mio padre era un ballerino. Credimi, due persone così non possono stare insieme».

Mahershala Ali in ‘True Detective 3’, su Sky Atlantic in contemporanea con gli USA lunedì 14 gennaio (alle 3 di mattina) e doppiato in italiano lunedì 21 gennaio. Credit: Warrick Page/HBO.

Quando Ali ha tre anni suo padre Philip Gilmore vince 2.500 dollari ad un concorso di ballo di Soul Train e va a New York per studiare al Dance Theater di Harlem e lavorare nei musical. Appare in una produzione di Broadway di Dreamgirls e anche in una scena di Malcolm X. Ali va a trovarlo una volta all’anno, ma non è mai abbastanza. Sua madre si è risposata e si guadagna da vivere facendo la parrucchiera. I rapporti non sono ottimi: a 16 anni Ali va a vivere con i nonni, e non la vede per 15 anni (oggi si sono riavvicinati).

Negli anni del liceo Ali è una promessa del basket. Guida la sua squadra fino al campionato statale e gioca anche con la futura star dell’NBA Jason Kidd, eppure non si sente a posto con sé stesso. Passa l’adolescenza triste e solo, senza trovare la sua vera identità. Nel 1994 suo padre muore dopo una lunga malattia. Non è mai riuscito a vederlo recitare, ma sapeva che aveva iniziato: «Credo fosse contento» dice Ali, «Per la prima volta avevamo un terreno comune. Lui non era interessato agli sport, ma capiva la recitazione».

Qualche anno fa ha ritrovato una vecchia cartolina di suo padre. Una foto per le agenzie di casting, con lui a torso nudo in palestra: «Indossava dei bellissimi pantaloni di velluto o scamosciati, e aveva il viso rivolto verso l’alto, era grandioso» racconta Ali, «Dietro c’era scritto: “Hey Ma. Ci sto ancora provando”». Erano passati 20 anni dalla sua morte, «Ma quella foto mi ha colpito. Per la maggior parte dei genitori la vita ruota intorno ai figli, io invece per lui ero in secondo piano. Ripensandoci però credo di aver avuto da lui tutto quello che potevo avere. Non ho nessun risentimento. Ha fatto di più lasciandomi per provare a diventare qualcuno che restando con me. In un certo senso è come se io avessi raccolto il suo testimone».

Viggo Mortensen e Mahershala Ali in ‘Green Book’, in uscita il 31 gennaio.

Lo incontro ancora al Saint Mary’s College, la scuola cattolica alla periferia di Oakland in cui si è diplomato nel 1996. È qui per una proiezione di Green Book e una raccolta fondi per borse di studio. Molti dei vincitori, come lui, sono i primi della loro famiglia ad andare al college. Ali racconta la sua storia: «Credeteci o no ho fatto il mio primo corso di recitazione solo perché non volevo fare il secondo semestre di spagnolo». Ali è arrivato al Saint Mary’s grazie a una borsa di studio per il basket: «La sensazione è sgradevole, ti senti un prodotto usa e getta. Tutti noi ragazzi neri ci sentivamo traditi». Una professoressa di teatro, Rebecca Engle, lo vede parlare ad un incontro sulla diversità e lo incoraggia a iscriversi al suo corso. Ali accetta perché pensa di ottenere voti migliori con il teatro che con lo spagnolo: «Mi ha dato “B”» dice ridendo, «Mi dà fastidio ancora oggi». Scopre la passione per la recitazione, si iscrive alla New York University e tre anni dopo ha la sua prima occasione in una produzione di The Great White Hope nel ruolo che originariamente era di James Earl Jones. Una recensione del New York Times lo definisce “emozionante”, Variety scrive: «Un talento enorme». Pensa di aver trovato la sua strada, ma quello rimane il suo unico ruolo da protagonista per i successivi 18 anni. All’inizio fa delle buone audizioni: per Antwone Fisher (come protagonista) e per Ali nel ruolo di Budini Brown che poi è andato a Jamie Foxx. «E poi non è successo più niente. Avevo energia, sentivo di avere il talento ma non ho avuto occasioni. È stato deprimente».

Vive in un appartamento in subaffitto a Brooklyn con il tetto mezzo crollato e senza televisione, e sopravvive mangiando fiocchi d’avena e confezioni precotte di zuppe di noodles. Quando torna a casa per il giorno del Ringraziamento, il proprietario di casa cambia la serratura e butta tutte le sue cose nella spazzatura. Decide di non tornare più a New York e si trasferisce a Los Angeles dove ottiene solo ruoli da non protagonista.
La svolta arriva nel 2013 quando interpreta un lobbista in House of Cards, ma anche così fa fatica. «Kevin Spacey guadagnava un milione di dollari ad episodio, io 25.000» dice Ali, «Dopo aver pagato le tasse, gli agenti, gli avvocati e i manager te ne rimangono circa 8 e non puoi fare altro per almeno quattro mesi. Se vuoi comprare una casa, avere dei figli e pagare il debito scolastico devi salire di livello».

Foto di Melodie McDaniel

La cosa peggiore è l’insoddisfazione a livello artistico: «Mi offrivano due o tre scene al massimo». È convinto di essere destinato a qualcosa di grande: «Anche quando giocavo a basket gli allenatori mi mettevano in un ruolo che non era il mio» racconta. Alla fine chiede di lasciare House of Cards: «Credo di averli sorpresi, nessuno lascia una serie di successo. Ma io sapevo di essere un attore protagonista». Lo stesso anno viene scelto per Moonlight.

Il suo ultimo film, Green Book, racconta la storia vera di Don Shirley, un virtuoso pianista che parte per un tour nel Sud degli Stati Uniti nel 1962 e per proteggersi arruola come autista un duro del Bronx, Tony Lip (Viggo Mortensen). È un road movie con molte lacrime, risate, stereotipi sfatati e razzisti che ricevono la punizione che si meritano, il tipo di film positivo che il pubblico e l’Academy adorano. Ali però ha insistito perché non fosse il solito film su un bianco che aiuta un nero a sconfiggere il razzismo.«Abbiamo analizzato la sceneggiatura riga per riga» racconta il regista. «Per me la cosa essenziale era che Don non sembrasse poco emancipato» dice Ali «Ne abbiano visti tanti di film così, giusto? Siamo nel 2018, il pubblico ormai è insofferente: “Parli di diritti civili e razzismo e ti fai accompagnare da un bianco?”».

Per prepararsi alla parte ha studiato pianoforte (anche se ammette che nel film c’è qualche trucco digitale) ma soprattutto ha cercato la chiave per rendere credibile e accessibile a tutti il suo talento così eccentrico, iper eloquente e tormentato. «Il personaggio di Don si muove in punta di fioretto, colpisce con finezza» dice Ali, «È l’opposto di Wayne di True Detective. Lui usa la spada».



Wayne Hays è un detective della polizia dell’Arkansas che ha indagato sulla scomparsa di due bambini nel 1980 e decenni dopo è un uomo ormai vecchio e ancora ossessionato dal caso. Ali ha dovuto interpretare tre età differenti: «È stato intenso, ma lo rifarei. Mi ha messo alla prova». I produttori lo hanno scelto dopo l’Oscar, e lui ha accettato anche per rendere omaggio a suo nonno, Willie Goines, ex poliziotto negli anni ’60. Ha anche firmato un accordo con HBO per produrre e recitare in altre serie. Non vuole svelare quali per non farsi rubare le idee. «True Detective è esattamente quello che volevo fare, non era solo la migliore tra le proposte disponibili».

Nella casa che sta ristrutturando ha lasciato lo spazio per la sede della sua casa di produzione, la Know Wonder. Probabilmente ci metterà anche l’Oscar, se riesce a trovarlo: «È in una scatola da qualche parte». Riceve un messaggio da sua moglie, un’artista che ha conosciuto alla NYU negli anni ’90 (è figlia di un imam, ed è stata lei a fargli conoscere l’Islam). Dopo il college si sono persi di vista per anni, «ma ho sempre pensato: “È lei”». Nel 2012 le ha scritto, si sono rivisti e meno di un anno dopo si sono sposati. Ne approfitta per farmi vedere sul telefono le foto di sua figlia (che è adorabile). Poi saluta, sale in macchina e se ne va a cercare un po’ di equilibrio.

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