‘La persona peggiore del mondo’ è una delle attrici migliori dell’anno | Rolling Stone Italia
Interviste

‘La persona peggiore del mondo’ è una delle attrici migliori dell’anno

Per il bellissimo film di Joachim Trier, la norvegese Renate Reinsve ha vinto la Palma a Cannes. Meritatissima: perché sa essere l’interprete perfetta per questa ‘commedia romantica post MeToo’. L’abbiamo incontrata

‘La persona peggiore del mondo’ è una delle attrici migliori dell’anno

Renate Reinsve in ‘La persona peggiore del mondo’

Foto: Teodora Film

Renate Reinsve è uno di quei volti che ti colpiscono prima che tu realmente te ne accorga. Sguardo determinato e consapevole su lineamenti delicati, voce decisa e dolce, rappresenta perfettamente Julie, la protagonista de La persone peggiore del mondo, una donna forte e al contempo fragile che attraversa la sua educazione sentimentale con il coraggio di chi si scopre libero, nel senso più profondo del termine. E così appare anche Renate, interprete che rifiuta schemi e lo fa senza ideologie ma con il desiderio di scoprire e scoprirsi innato nel suo animo, di donna e di attrice. E che ha trovato in Joachim Trier, cineasta sensibile e ironico, l’uomo che ha saputo valorizzarla e portarla sulla vetta del mondo (ha vinto a Cannes 2021 la Palma come miglior attrice) lasciandola sciolta da legami, stereotipi, visioni retrograde. Il risultato è un film da vedere, bellissimo, vitale, spiazzante.

Questo film suscita continue riflessioni. Una di queste è sicuramente su quanto sia difficile vivere in quest’epoca, soprattutto per una giovane donna.
Io non credo sia un problema generazionale, almeno non del tutto. Semmai di epoca: penso alla moderna invadenza dei social media che mette tutti noi sul mercato e il prodotto siamo noi stessi, in cui tutto e tutti ci vogliono costringere a diventare un brand. Un problema che certo non c’era nel passato, non con un sistema di comunicazione e di esposizione di massa così capillare almeno. Questo film offre lo spazio per queste riflessioni e lo fa in senso contrario alla nostra quotidianità fatta di status lapidari o titoli sensazionalisti: non offre o impone risposte, ma suscita domande. In questo momento storico viviamo quello che potremmo definire il paradosso delle scelte: prima c’erano schemi rigidi e li seguivamo, ora dal lavoro alle relazioni sentimentali abbiamo un’ampia gamma di possibilità. Questo paradosso però porta a un insieme di frustrazioni inevitabili, scegliere vuol dire poter sbagliare di più o rimpiangere ciò che per cui non hai optato. E questo riguarda tutti noi, a maggior ragione oggi che siamo continuamente sollecitati in proposito in modo costante.

Possiamo dire che questa è una commedia romantica che piacerà alle post femministe?
Credo di sì, qualsiasi voglia dire post femminismo oggi. La base profonda del film e del mio personaggio è la storia di una donna che inizialmente definisce se stessa attraverso le sue relazioni sentimentali. Prima con un uomo più convenzionale, Aksel, indipendente e underground e politicamente scorretto in pubblico ma narcisista e conformista nel privato, poi con uno più libero, Eivind. Ma presto capisce che la sua è sempre una definizione riflessa in un altro, non che parte da sé. Se vogliamo individuare nel film un happy end lo troviamo, senza fare spoiler, nel fatto che lei capisce che deve ripartire da sé, che la scelta fondamentale è rifiutare questa logica: non deve, vuole avere più bisogno di un uomo per sapere chi sia. Lei non riesce a verbalizzare questa contraddizione, ma la sente. E la risposta è l’autoidentificazione. E questo sì, è post femminismo. Ed è anche il metalivello che mi ha portato a scegliere questo ruolo: mi sono sentito accolta dai personaggi maschili, ma ho sentito una completezza quando ha avuto quella successiva evoluzione.

Qualcosa di generazionale però io in questo film, in questa storia, lo trovo. Il fatto che si risponde a tutto con l’ironia e l’autoironia. Ti sei chiesta perché?
Sicuramente la nostra è una generazione fragile anche per le molte sfide che deve vivere senza il supporto di ideologie e certezze sociali, morali, religiose. Questa fragilità spesso ti porta a proteggerti con l’ironia e l’autoironia. Noi ci poniamo più domande e abbiamo meno risposte, abbiamo tante, troppe informazioni a cui accedere, abbiamo il potere e la possibilità di capire di cosa possiamo fidarci, di chi. Pensiamo solo al nostro rapporto con il potere, i governi, quanto sia critico e spesso difficile. Ironia e autoironia ci difendono anche dalla nostra paura per l’intimità, creiamo più distanza tra le persone per una carenza di fiducia. Io faccio domande su tutto, mi interrogo costantemente e così molti altri, domande che prima trovavano risposte nelle ideologie ora le dobbiamo cercare dentro di noi. E questo film lo trovo straordinario proprio per la capacità di insinuare sempre e ovunque interrogativi. Lo sentivo già dal set: ogni giorno arrivavamo con una visione chiara e strutturata di ciò che dovevamo fare e ogni giorno poi spazzavamo via molte di quelle intenzioni e sicurezze per ridiscuterle e andare oltre, altrove, confrontandoci, alimentando nuove domande con il nostro lavoro e le nostre riflessioni. Lavoravamo parlando della scena, dei nostri personaggi, a volte ribaltandoli completamente: forse il nostro è un metodo moderno e post ideologico di lavorare, chissà.

Renate Reinsve e Anders Danielsen Lie. Foto: Teodora Film

Come definisci il tuo lavoro in un cinema così maschilista come quello moderno?
In modo molto semplice, per me attori e ruoli non hanno sesso, non mi interessa mai la peculiarità maschile o femminile di un personaggio, non mi chiedo mai del mio posizionamento come donna nel mio lavoro. Io recito, non impongo la mia identità. Per dire, la mia ispirazione principale per questo film è stata Timothée Chalamet in Chiamami col tuo nome. Mi chiedo costantemente chi sia la persona che interpreto, non cosa sia. Perché fa determinate cose, non che sesso abbia. E ci aiuta il fatto che negli ultimi anni sono aumentati i personaggi forti, complessi, sfaccettati. E ora spesso vengono proposti anche alle donne! Stiamo andando oltre gli stereotipi, i personaggi femminili bidimensionali, in Norvegia ci sono sempre più ruoli femminili che li superano, li abbattono, anzi meglio, li ignorano. Io indago l’essere umano, quello mi interessa. Poi sì, spesso quando affronto un ruolo mi chiedo cosa farebbe il mio personaggio se fosse un uomo o una donna, e il mio lavoro sul set è la traduzione di queste riflessioni, il mescolarle. Ovvio che esiste il giudizio sociale, l’inconscio individuale e collettivo, il genere che è qualcosa che ci determina inevitabilmente, ma devo ringraziare Joachim Trier che mi ha diretto non come donna ma come essere umano: la protagonista del film è stata scritta in quanto tale, oltre pregiudizi e convenzioni.

La scena della radio, a tema MeToo, è potente e poco accomodante. Come l’hai vissuta?
Quello è un momento del film importante, perché lo rappresenta profondamente e dice molto del nostro lavoro. Il regista era spaventato dal rapporto tra amanti che poteva essere in zona MeToo, un rapporto sentimentale subordinato in cui era coinvolto un insegnante. Ricordo che lui spesso ci scherzava, ma il tema era così caldo in quel periodo che nessuno aveva il coraggio e la voglia di riderne sul set. Era troppo presto per farlo. Joachim, e anche il personaggio di Aksel, dice che nell’arte si deve tirare fuori il peggio, e lui proprio perché libero poteva giocare con questo aspetto, lanciare la questione con umiltà ma con audacia. Nella scena della radio si crea un vero e proprio dibattito tra la sua posizione e quella post femminista senza che nulla e nessuno vengano sminuiti. Non era facile secondo me, ma questo aiuta una riflessione più originale. Io l’ho amata molto anche per questo.

E non parliamo del geniale pezzo di sceneggiatura sul “sesso orale ai tempi del MeToo”. Esilarante e pericoloso.
Io amo quella scena. Soprattutto se penso che il co-sceneggiatore Eskil Vogt, che l’ha scritta, è un uomo solitamente sobrio e attento. Eppure si è scatenato in un monologo quasi comico, politicamente scorretto, estremo. Lui, intellettuale che è sempre molto prudente, ha saputo tirar fuori qualcosa di molto provocatorio, umano, spiazzante. Quando abbiamo iniziato a girare quella scena non era ancora pronta, nessuno di noi sapeva come sarebbe stata, anche se io mi aspettavo qualcosa di molto forte. Eskil, silenzioso e sottile, misurato e profondo, ha tirato fuori quel testo, capendo perfettamente chi era Julie. E riassume il senso profondo di come l’abbiamo costruita: ogni persona del set aveva la sua Julie, il suo lato e la sua scena preferita, ognuno ci ha messo una parte di sé. In quel momento, in quella scena a suo modo scabrosa, tutti si sono, ci siamo riconosciuti e abbiamo risposto con entusiasmo, con gioia al lavoro fatto da un grande scrittore di cinema.

Renate Reinsve con Herbert Nordrum. Foto: Teodora Film

Come è cambiata la tua vita dalla vittoria a Cannes?
Io sono un’attrice teatrale che non vuole lasciare in alcun modo quel mondo, quella parte di me fondamentale per l’attrice che sono. In Norvegia il teatro è duro lavoro, niente lusso e fronzoli. E voglio tenermelo. Confesso che sono ancora confusa per quel premio inaspettato, non avrei mai immaginato di vincerlo visto chi era in lizza, non mi sono ancora resa conto del cambiamento se non che ora arrivano splendidi incontri, conversazioni con autori eccellenti e belle sceneggiature. Di sicuro apprezzo le grandi opportunità che stanno arrivando, che mi miglioreranno come attrice. Io so che continuerò a scegliere progetti forti con registi forti, mentre spesso accade che le produzioni ti portino pitch dove il progetto e il regista non lo sono poi così tanto. Di sicuro non è cambiato e non cambierà il modo in cui vivo il mio lavoro.

La tua scena preferita?
L’epilogo. Julie è rilassata, nell’animo e anche nel corpo, si accetta per ciò che è, per chi è. Ha scelto sé stessa, per la prima volta. Anche la scena della seduzione è molto bella e non è stata facile fino a che non abbiamo trovato l’attore giusto, con cui peraltro ho lavorato anche a teatro, Anders Danielsen Lie. Lui è uno che dà tutto all’altro, è bravo e generosissimo, uno di quelli che non scompaiono nel controcampo, ma che anche quando non sono in scena lavorano perché tu possa dare il meglio. Anche da questo nasce la grande chimica tra noi in quella scena.