La nostra intervista a Yorgos Lanthimos per La Favorita | Rolling Stone Italia
Interviste

Lanthimos, regista de ‘La favorita’: «D’accordo i fatti, ma ho inventato un sacco di roba»

Dopo 'The Lobster' e 'Il sacrificio del cervo sacro', Yorgos Lanthimos ha conquistato Hollywood con 10 candidature agli Oscar. Come? Mettendo in imbarazzo Emma Stone e Rachel Weisz

Lanthimos, regista de ‘La favorita’: «D’accordo i fatti, ma ho inventato un sacco di roba»

Emma Stone in ‘La Favorita’. Foto di Yorgos Lanthimos. © 2018 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

Yorgos Lanthimos è uno di quei registi che li ami o li odi, e io, mi costituisco, l’ho cordialmente odiato da subito. Erano i tempi di Dogtooth, dieci anni fa esatti, lui era il prodige greco da tenere d’occhio ai festival, dov’è tornato negli anni successivi, fino alla doppietta in lingua inglese che è valsa come approdo nella A-list: budget più alti, attori famosi, mercato espugnato. The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro erano, parlo per me, detestabilissimi giochetti sociologico-ricattatori d’estenuante freddezza. Flashforward. Lanthimos ha girato uno dei film più belli della stagione: La Favorita, drammone storico sui generis in cui due madamine alla corte degli Stuart (Emma Stone e Rachel Weisz: favolose) si contendono il primato di cortigiana d’elezione della debordante, capricciosa, struggente regina Anna (Olivia Colman: favolosa). E qui la sociologia funziona. E funziona la violenza, il gioco delle parti, funziona tutto. Ho incontrato Yorgos, dal vivo un omaccione bonario con cui divideresti volentieri una caraffa di ouzo su un’isola dell’Egeo ad agosto, per capire se ora sono diventato lanthimosiano anch’io.

Yorgos Lanthimos. Foto di Atsushi Nishijima. © 2018 Twentieth Century Fox Film Corporation

Prima sorpresa: hai girato una biografia in costume.
Una biografia in costume, però, lontanissima dalla realtà dei fatti raccontati. Ho sempre cercato di evadere dal mondo così come lo conosciamo: accadeva anche con i miei film precedenti, ambientati in epoca contemporanea. Ma evitare il rischio dell’illustrazione della Storia stavolta era fondamentale.

Che cosa non ti piace dei film in costume?
Filmare il passato ti dà un vantaggio: sei già fuori dalla realtà. Perciò m’innervosisce la ricerca di una presunta verità nei drammi storici: suona ancora più falsa, posticcia. Nessuno di noi sa cos’è successo davvero, perciò il mio approccio è andato in tutt’altra direzione. Mi sono documentato sui libri, sì, ma ho inventato un sacco di roba. La Favorita è una creazione della mia mente. Sono convinto che un film debba sempre riprodurre un universo autosufficiente, anche quando c’è di mezzo la Storia: chi se ne importa dell’accuratezza dei fatti.

Seconda sorpresa: hai girato la biografia di un personaggio molto off come la regina Anna.
Ne sanno pochissimo persino gli inglesi, che non so come reagiranno a questo ritratto così poco ortodosso di una loro sovrana, per quanto antica: confido nel loro sense of humour. Il primo progetto risale a nove anni fa. Esisteva già una sceneggiatura, scritta da Deborah Davis, frutto di ricerche approfondite. È diventata prima un radiodramma, poi alcuni produttori hanno cercato di adattarla per il cinema. Ho letto quel copione e mi ha subito preso, ma ho posto una condizione: l’avrei girato a modo mio. Perciò mi sono messo a cercare un altro sceneggiatore, che potesse aggiungere una voce diversa a ciò che era già stato scritto (alla fine lo script è firmato a quattro mani da Davis e Tony McNamara, nda). Nove anni dopo, eccoci qui.

Photo by Atsushi Nishijima. © 2018 Twentieth Century Fox Film Corporation

 

Terza sorpresa: i film in costume di solito non sono girati così. Con tutti quei grandangoli deformanti, per dire. I tuoi attori dicono che, sul set, non avevano la più pallida idea di quello che sarebbe stato il risultato finale.
L’impianto visivo del film doveva essere anch’esso contemporaneo. E non parlo solo di regia. I costumi, ad esempio, sono fedeli agli abiti del tempo, ma nei tessuti ci sono inserti di plastica. Il modo in cui ballano i personaggi non c’entra nulla con le danze di quel periodo. La colonna sonora alterna musica barocca a brani moderni. Anche visivamente, La Favorita doveva sembrare diverso da tutto quello che il pubblico solitamente si aspetta da un film in costume. Ho introdotto elementi che potessero continuamente contraddire il fatto che fosse un’opera storica.

Torniamo agli attori. Sembra che, in tutti i tuoi film, ti piaccia metterli in condizioni scomode. Loro lo confermano, tu?
Credo che, se spingi un attore verso luoghi che non conosce, verrà sicuramente fuori qualcosa di interessante. L’insicurezza, il senso di pericolo, l’imbarazzo possono rivelare molto dei comportamenti umani, perciò faccio in modo di creare situazioni in cui nessuno è certo di quello che sta avvenendo. Solo così l’attore può lavorare sull’istinto, può essere libero, generoso, presente anche se non si sente protetto. E può allentare il freno della rispettabilità, senza preoccuparsi di corrispondere a ciò che è approvato dal pubblico. Sul set creo incertezza.

Qual è l’interprete che ti ha più sorpreso?
Direi tutti. L’importante è scegliere l’attore giusto per la parte, e fare in modo che si diverta. A quel punto, chiunque è capace di fare cose che non ti saresti mai aspettato. Nel caso di La Favorita, ho voluto due settimane di prove prima dell’inizio delle riprese. Le prove per me non servono a preparare le scene, sono il momento in cui gli attori imparano a conoscersi tra loro. Li lascio liberi di muoversi nello spazio, di prendere le misure l’uno con l’altro, di fregarsene di come appaiono agli occhi dei colleghi. Io sto seduto in un angolo e osservo questa specie di cameratismo che progressivamente si definisce tra loro. Stavolta mi sono divertito da pazzi a vederli giocare come bambini. Poi, quando abbiamo iniziato a girare, è andata come avevo previsto: grazie a quel periodo di assoluta libertà, ciascuno di loro ha messo nel proprio personaggio sfumature che sulla carta non c’erano.

Photo by Atsushi Nishijima. © 2018 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved


Torni spesso a lavorare con gli stessi attori: in questo caso, Olivia Colman e Rachel Weisz.
Quando mi trovo bene con qualcuno, cerco sempre di collaborarci di nuovo. Olivia è una delle più grandi attrici viventi. L’ho vista per la prima volta in Tyrannosaur, un film drammaticissimo: ho scoperto solo più tardi la sua vena comica. L’ho chiamata per The Lobster, e non ho mai pensato a nessun’altra per il ruolo della regina Anna. Solo lei sarebbe stata così complessa, divertente e commovente allo stesso tempo. Rachel, invece, ha una presenza molto calda, il che avrebbe aggiunto le giuste contraddizioni al personaggio di Lady Sarah, all’apparenza una cattiva fredda e calcolatrice.

La new entry nel tuo mondo è Emma Stone.
Ho pensato a lei per la parte di Abigail molti anni fa, dopo averla vista in commedie come Suxbad e Crazy, Stupid, Love. Forse aveva già fatto anche Birdman. Emma ha la capacità di risultare sempre adorabile, anche quando i suoi personaggi fanno cose terribili. I film successivi hanno ulteriormente dimostrato la varietà del suo spettro interpretativo.

Dalle storie che scegli, sembri naturalmente incline al dark.
Lo confermo. Più che altro, non potrei mai raccontare un soggetto unicamente positivo. Il buio è attorno a noi: tutto è, a suo modo, violento. Ma sono anche un tipo che si diverte molto. Adoro la commedia, e credo che La Favorita ne sia la prova. Anche qui, però, la comicità tradisce il suo lato oscuro. Amo i conflitti, sia nella forma che nei contenuti. Se non rivela il suo opposto, per me una cosa non è completa.

Da dove viene la tua passione per il cinema?
Chi può dirlo? Da bambino amavo guardare film, ma non so se questo sia sufficiente a motivare la scelta di fare il regista. Di certo ho lottato per fare questo mestiere, ho iniziato in Grecia in condizioni economiche molto dure, ma sapevo istintivamente che era quello che volevo fare.

Quali sono i tuoi maestri?
È una domanda troppo difficile, perciò do sempre una risposta diversa. Una volta ho spiazzato i giornalisti dicendo Robert Bresson e John Cassavetes, apparentemente lontanissimi da me: ma li amo alla follia. A ogni fase della vita corrisponde un autore o un film diverso. Ora, tra quelli che mi hanno segnato di più, metterei Apichatpong Weerasethakul (vincitore di una contestatissima Palma d’oro a Cannes nel 2010 con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, nda).

In tanti nel tuo cinema vedono Stanley Kubrick: la violenza, il sesso, ora anche un affresco storico alla Barry Lyndon.
Kubrick è uno degli autori che amo di più. Forse una connessione c’è.

L’ultima sorpresa di La Favorita: è un film anche molto commovente. Il tuo cinema non era mai andato così in profondità, le emozioni sembravano restare sempre in superficie.
Ho cercato di esplorare aspetti delle relazioni umane che non avevo mai affrontato. Mi sono spinto lontano, ma ho sentito che lo potevo fare. È venuto fuori una specie di melò, una direzione inaspettata per il mio cinema. E mi è piaciuto moltissimo. L’ho detto che amo le contraddizioni.