Con la sua figura affilata e gli occhiali avvolgenti, il completo di cotone strapazzato ma non troppo e le Nike nere, i suoi capelli bianchi e un accenno di cresta, Julien Temple ricorda un po’ Paul Simonon dei Clash. Qualche mese fa ha contattato la Cineteca Milano MIC in merito all’utilizzo di alcuni materiali, e i curatori dell’istituzione milanese ne hanno approfittato per proporgli una due giorni a lui dedicata. «Il mio cinema è basato sui materiali d’archivio», dirà durante una masterclass aperta al pubblico, «e a volte l’archivio ti dice cosa devi fare». Appena entra nel museo fotografa il manifesto originale di Miracolo a Milano. «Posso usarlo?», chiede.
Ci accomodiamo nelle sale della mostra dedicata a Bruno Bozzetto. Curiosamente il primo lungometraggio del Signor Rossi è del 1976, l’anno in cui a Londra il punk ha cominciato a farsi sentire. Mondi lontanissimi, ma è un caso se al termine dell’intervista il regista inglese ha visitato la mostra con attenzione?
Mr. Temple, questa due giorni che il MIC di Milano le ha dedicato si intitola Un regista punk. Cosa significa oggi per lei il termine punk? Ha lo stesso significato di quando ha girato il video di God Save the Queen con i Sex Pistols?
Tendo a pensare al punk come a un morto vivente, uno zombie che in qualche modo ha bisogno di essere risvegliato. È qualcosa che deve reincarnarsi in nuove forme. Per me è stato come una stazione alla quale sono salito per un lungo viaggio in treno. La rivolta di Spartacus è stata la prima fermata, o forse ce n’erano state altre prima. La prossima potrebbe essere il pattinaggio su ghiaccio, ma dev’essere qualcosa che nessuno si aspetta. Perché questo viaggio possa continuare, abbiamo bisogno che arrivino alla svelta altre stazioni. Altrimenti il viaggio è destinato a finire: no future, come cantavano i Sex Pistols.
Quel pessimismo le appartiene ancora?
Come esseri umani stiamo finendo là, no? Il ruolo del punk è stato quello di dare la sveglia ai giovani affinché facessero qualcosa. Il punk di oggi non può essere quello stesso punk: dovrà essere qualcosa di nuovo che ancora non possiamo prevedere. Non possono essere creste e giubbotti di pelle, sarebbe sciocco: quelle vanno bene per la copertina di Vogue, ma non significano niente, oggi. Quello che serve sono le idee e l’atteggiamento, perché il tempo sta per finire. Dieci anni dopo il punk, dicevamo che non era arrivato più niente di così forte. Poi gli anni sono diventati venti, poi trenta e quaranta. Oggi sono quasi cinquanta e non è più arrivato niente di paragonabile. Non saranno i partiti politici a cambiare le cose: c’è bisogno di qualcosa di creativo che faccia unire i giovani, non certo la politica. Insomma, il punk può avere nuovamente un ruolo, ma dev’essere una versione del punk diversa da quella che conosciamo. Non credo che avrà a che fare con la musica, perché la musica è stata suonata e risuonata, e quella musicale è un’industria del riciclo, quindi ha perso il suo potere: le cose puoi riciclarle solo un certo numero di volte, poi non funzionano più.
E non vede nulla di punk all’orizzonte?
Non mi sembra. La filosofia del punk era quella di scioccare per creare uno spazio culturale. Oggi non vedo niente che abbia quell’effetto. È più difficile di allora perché internet ha creato milioni, miliardi di nicchie. Quello che manca sono i giovani che escono dalle loro camerette e scendono in strada per incontrarsi. Il nuovo punk, se mai ci sarà, dovrà combattere contro la tirannia di internet.
Una fetta importante della sua carriera riguarda il lavoro con i Sex Pistols. Si è fatto un’idea di qual è stato il vero ruolo di Malcolm McLaren all’interno della band?
The Great Rock’N’Roll Swindle era una provocazione, un modo per far incazzare i fan, come se avessimo deciso di sventolare un drappo rosso davanti a un toro. Nel film l’idea è che la band non conti niente e tutto sia nelle mani di McLaren, scienziato pazzo e grande manipolatore. Nel film funzionava, il problema è che Malcolm aveva iniziato a crederci davvero, a pensare che la band non fosse niente e lui fosse tutto. Ma le cose non stavano così: lui era una parte importante della storia, ma non nel modo in cui l’abbiamo raccontata con quel film.
Com’erano i rapporti fra McLaren e il resto della band?
Aveva paura a trovarsi da solo con loro in una stanza. Una cosa interessante che accadde è che, quando i Sex Pistols fecero tutto quel casino in televisione da Bill Grundy, McLaren sulle prime li accusò di aver distrutto tutto ciò per cui aveva lavorato fino a quel momento. Il giorno dopo Paul Cook arrivò con una pila di giornali e i Sex Pistols erano su tutte le prime pagine. Michael cambiò subito idea: erano diventati famosi dall’oggi al domani in tutta la Gran Bretagna.
Ovviamente anche la parola “truffa” nel titolo era una provocazione.
Vent’anni dopo, con Oscenità e furore, abbiamo deciso di raccontare la band dalla prospettiva dei suoi membri: da dove venivano, chi erano, perché erano incazzati. Fu un modo diverso di raccontare la storia. La truffa era un concept situazionista. Volevamo ribaltare tutto, e fare in modo che i fan si interrogassero sul loro amore per i Sex Pistols. Uno dei punti centrali del punk era la distruzione delle band che erano venute prima, ma soprattutto dell’idolatria che i giovani nutrivano per loro. Il nemico non era solo Rod Stewart, ma anche quelli che nelle loro camerette si inginocchiavano davanti alla sua foto. Non volevamo che i fan dei Sex Pistols finissero per fare la stessa cosa, e li provocammo con il film.
Prima del punk, e prima di diventare regista, quali erano le sue band preferite?
I Kinks su tutti. Sono stato fortunato ad avere 12-13 anni a metà degli anni ’60, in tempo per beccarmi tutte quelle grandi band: gli Stones, gli Who, gli Small Faces, gli Yardbirds… E a beccarmele prima di tutto il resto del mondo. Trovarcisi in mezzo è stata una cosa molto potente: vedere il mondo attraverso la musica è qualcosa che la scuola o i tuoi genitori non possono certo insegnarti. È stato grandioso. I miei non mi permettevano di andare al cinema ma potevo ascoltare musica in segreto: ricordo ancora la prima volta che ho sentito You Really Got Me, da una piccola radiolina che tenevo sotto le coperte e che ascoltavo di nascosto di notte. Mi ha fatto uscire di testa, they really got me.
È stato molto fortunato a vivere in diretta quegli anni d’oro della musica britannica. E poi è arrivato il punk…
E così mi sono potuto mangiare un’altra fetta della torta.
Cos’era cambiato nel 1976 rispetto alla metà degli anni ’60?
Era diverso il clima economico-sociale. Molto dell’ottimismo degli anni ’60 se n’era andato. La crisi petrolifera e la recessione si erano lasciate dietro un sacco di disoccupati. L’Inghilterra ha questa bizzarra percezione di se stessa in base alla quale è sempre un impero i cui abitanti sono una razza eletta. A scuola ti fanno pensare che sia così, solo che poi finisci la scuola e non trovi lavoro. La rabbia che ne deriva è stata alla base del punk. Il sogno hippie era finito, e la situazione era stagnante. L’odore di quei cappotti afghani era tremendo, come se avessero scoperchiato le tombe del cimitero di Highgate. Degli anni ’60 si salvava la musica, non a caso i Sex Pistols nelle loro prove suonavano pezzi degli Small Faces e dei Kinks, anche se non dei Beatles e degli Stones.
“No Elvis, Beatles, or The Rolling Stones in 1977”, cantavano i Clash.
Esatto, ma non cantavano “no Small Faces”, e infatti i Sex Pistols suonavano Whatcha Gonna Do About It, I’m Not Like Everybody Else dei Kinks e anche Through My Eyes dei Creation.
Com’è stato il suo primo incontro con i Sex Pistols?
È stato strano. La domenica mi piaceva passeggiare nell’area dei vecchi magazzini portuali. Erano il cuore pulsante di Londra ma a partire dalla fine degli anni ’60 avevano cominciato e chiuderli, quindi a metà anni ’70 si era creata questa enorme terra di nessuno in mezzo alla città. Un posto completamente e stranamente silenzioso, una specie di deserto. Era un bel posto per una passeggiata. A un certo punto, parafrasando Bob Dylan, ho sentito una canzone che soffiava nel vento. L’ho seguita fino all’entrata di un magazzino abbandonato. La porta era aperta e sono salito per queste vecchie scale di legno. Lì c’erano loro che stavano distruggendo il pezzo degli Small Faces. Non avevano capelli lunghi, né pantaloni a zampa di elefante: ho visto invece gambe scheletriche, grandi piedi in scarpe anni ’50 da teddy boy e maglioni a strisce di mohair. E i capelli erano corti e sparati in aria. Ho pensato che fossero uomini-insetto arrivati dallo spazio.
Cos’è che ha fatto sì che iniziaste a lavorare insieme?
Studiavo cinema, quindi quello stesso giorno gli domandai se gli sarebbe interessato partecipare a un piccolo film da studente che stavo girando. Ma mi mandarono affanculo, per loro io ero uno della middle class. Mi dissero però che avrebbero fatto un concerto. Quando tornai nella casa occupata in cui vivevo, dalle parti di Portobello, dissi agli altri che avevo visto una band con un futuro incredibile. Bene, risposero. E come si chiamava questa band? Merda, non gliel’avevo chiesto. Da lì, per qualche tempo, guardai con grande attenzione i giornali musicali, in cerca di loro tracce. Quando lessi il nome dei Sex Pistols pensai che, con un nome così, dovevano essere loro. Andai al concerto e mi portai una macchina da presa della scuola. Avevo una chiave che mi permetteva di andare là di notte e prendere quello che mi serviva. Al mattino riportavo indietro l’attrezzatura e nessuno se ne accorgeva. Oggi con i Pistols sto lavorando a un’esperienza immersiva che riporti nella Londra del 1976, a un loro concerto. Ci proviamo, non è detto che riesca. Si dovrebbe poter entrare in una grande stanza con quattro schermi e ballare o fare quello che si vuole
Alcuni anni dopo ha lavorato con David Bowie. È stato lui a chiederglielo?
Sì, mi disse che gli era piaciuto molto il video di My Way di Sid Vicious e che avrebbe voluto lavorare con me. Era molto collaborativo e voleva essere coinvolto in quello che facevo, non una cosa così frequente per un musicista che lavora ai propri video. Gli Stones per esempio ti dicevano: scrivi la sceneggiatura e poi ti faremo sapere se ci è piaciuta o meno. Con Bowie invece si lavorava insieme e questo era molto bello. Era una persona di un carisma eccezionale, ma la cosa interessante è che il Bowie che ho conosciuto io non era la divinità omaggiata in film alla Moonage Daydream. Era un essere umano con la sindrome dell’impostore e a volte non si capacitava di tutta quella fama. Pensava che quello famoso sarebbe dovuto essere suo fratello. E dico di più. A volte mi trovavo a pensare: mamma mia com’è noioso, ma com’è possibile?! È David Bowie! E poi si trasformava in quello che tutti conoscono.
Con lui avete girato Jazzin’ for Blue Jean, il cortometraggio legato al singolo Blue Jean.
Lui recita sia nei panni del tipo noioso che in quelli della rockstar. Sono appunto le due versioni di Bowie che ho conosciuto. C’è una sorta di schizofrenia. Lo stesso fratello di Bowie era malato di schizofrenia e morì pochi mesi dopo. In quel video c’è una cosa tipica del mio stile: non mi piace che ci sia semplicemente un tizio che canta la sua canzone, preferisco che interpreti due parti, due ruoli, due diverse versioni di se stesso. A Bowie questo concept era piaciuto e ci abbiamo lavorato insieme.
Poi avete fatto Absolute Beginners.
Il film che mi porto appeso al collo come l’albatro nella poesia di Coleridge. Dopo quel film me ne sono dovuto andare dall’Inghilterra perché non ci potevo più lavorare. Ma l’errore è stato nostro, abbiamo creato troppo hype attorno al film, anche per farci dare i soldi per produrlo, con il risultato che poi quando è uscito si è sgonfiato tutto. Ho letto articoli tipo “I dieci motivi per odiare Absolute Beginners”. Al botteghino le cose sono andate male e io non potevo più lavorare: sono stato accusato di aver distrutto l’industria cinematografica britannica, cosa che mi piacerebbe aver fatto. Se fosse stato un grande successo, adesso sarei a testa in giù in una Jacuzzi con il sole di Hollywood che mi tramonta alle spalle. Le cose sarebbero state diverse, probabilmente non per il meglio. Sono andato negli Stati Uniti e ho girato Le ragazze della terra sono facili. Nella San Fernando Valley ero un alieno, è un film che non rifarei.
Con i Rolling Stones come è andata?
Bowie e gli Stones erano tra i pochi che potevano mettere a tacere le loro case discografiche e fare un po’ come volevano. Mi hanno chiamato perché volevano essere “più punk”, e io me la sono menata perché in quanto punk non avrei dovuto lavorare con loro. Ma poi l’ho fatto. Per parlare di Undercover of the Night ci siamo visti a Parigi in un hotel di lusso, il George V, e Keith mi ha trascinato in bagno minacciandomi con il suo bastone da passeggio: “Io sono i Rolling Stones e devi farmi comparire nel video”. Se alla fine gli è andato bene è perché ci compariva abbastanza.
Nella sua carriera, di video ne ha girati parecchi. Secondo lei cosa può fare un video per una canzone? Come si riconosce un grande video?
La cosa migliore è che un video venga bannato. Quando succede, di solito fa un ottimo servizio alla canzone. In realtà penso che il problema dei video sia che in un certo senso rimpiazzano l’ascolto della canzone. Se ascolti una canzone senza video, puoi lasciare andare l’immaginazione e crearti la tua versione del pezzo. Con il video è come se ci fosse solo quella versione, come se la canzone fosse stata chiusa da qualche parte. Con i miei video ho cercato di fare dei piccoli film che potessero avere significati diversi. Questo perché lo stesso video veniva guardato più e più volte, e quindi ho cercato di creare dei puzzle narrativi che potessero comporsi man mano che una persona riguardava quello stesso video.
E qual è il video che le è riuscito meglio?
Penso My Way di Sid Vicious. L’idea me l’ha data Sam Fuller, dicendo che per offrire agli spettatori l’esperienza diretta della guerra bastava piazzare una mitragliatrice dietro lo schermo e aprire il fuoco contro la platea.
Le sarebbe piaciuto dirigere un maggior numero di film non strettamente legati all’industria musicale o è contento così?
Posso dire che sono soddisfatto così.
C’è qualche musicista con il quale le sarebbe piaciuto lavorare ma con il quale non siete riusciti a quagliare?
Ho provato a convincere Tom Waits, ma non ha voluto. Non sarebbe per forza dovuto essere un film o un video su di lui, avremmo potuto fare il video di una sua canzone. Non che ci siano motivi particolari, ma la cosa non è mai andata in porto. Mi piacerebbe anche lavorare con qualche musicista jazz, ma il jazz non è abbastanza commerciale.
Ha girato The Future Is Unwritten dopo la morte di Joe Strummer. Com’è che non aveva mai lavorato con i Clash?
In realtà avevo filmato i Clash prima ancora di Don Letts, solo che a un certo punto Bernie Rhodes, il loro manager, mi disse che dovevo scegliere tra i Clash e i Sex Pistols, e io ho scelto i Sex Pistols. Quando poi ho fatto The Future Is Unwritten ho utilizzato parecchio di quel girato. Tra l’altro per tanti anni i rapporti fra me e Joe Strummer sono stati quantomeno freddi. Poi è successa una cosa strana. Un giorno mia moglie mi dice: il mio migliore amico dei tempi della scuola sta cercando casa in questa zona, può venire a dormire da noi per qualche giorno? Arriva questo tizio e scambia con mia moglie grandi abbracci. Cazzo, mi dico, ma quello sembra Joe Strummer! Abbiamo passato una notte difficile ma al mattino eravamo amici.
Che cosa aveva di speciale?
Molte cose. Una era la sua grande capacità di far stare insieme le persone. Quando l’ho rivisto, era andato oltre il suo essere punk, era come se fosse entrato in contatto con le sue radici hippie. Non credo nella reincarnazione, ma mi sa che lui era sempre stato in giro, da qualche parte, come un viaggiatore proveniente da qualche mondo strano.
È una sensazione che ha anche adesso che lui non c’è più?
Sì, nella mia testa Joe è ancora in giro.
E invece com’è stato girare Crock of Gold con Shane McGowan?
Un incubo. Mi ha tirato scemo. Prima mi ha chiesto di fare il film e poi ha fatto di tutto per renderlo il più difficile possibile da girare. E il colmo è che ci si è divertito, e questo ha reso il film migliore. Penso che sapesse bene quello che stava facendo. Non si presentava alle interviste, o meglio: dopo avermi chiesto di fare il film mi ha subito detto che non avrei potuto intervistarlo… Forse era il suo modo di lavorare. Però quando l’ha visto si è messo a piangere, non so se di rabbia o di gioia, ma credo che gli sia piaciuto. E per me è valsa la pena di fare tutta quella fatica.