Jim Jarmusch: «A Gaza è genocidio, dobbiamo proteggere l’empatia» | Rolling Stone Italia
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Jim Jarmusch: «A Gaza è genocidio, dobbiamo proteggere l’empatia»

Il nuovo film in concorso a Venezia 82, 'Father Mother Sister Brother', l'ultima volta che ha visto Joe Strummer, le avventure con Tom Waits e Bill Murray, ma anche la guerra, il cinema italiano e Roberto Benigni (per lui, Bob). L’abbiamo incontrato

Jim Jarmusch: «A Gaza è genocidio, dobbiamo proteggere l’empatia»

Jim Jarmusch sul set di 'Father Mother Sister Brother'

Foto: Carole Bethuel

«Joe Strummer era un mio amico. L’ultima volta che l’ho visto eravamo a New York, io avevo l’influenza, pioveva, lui era lì vicino e sarebbe partito il giorno dopo. Non lo vedevo da tempo. Mi chiese: “Dài, vieni fuori, sono in questo ristorante giapponese qui all’angolo”. Gli risposi: “Joe, non sto bene, ma voglio vederti”. C’erano anche alcuni amici comuni. A un certo punto della serata mi anticipò: “Jim non è in forma. Lo accompagno a casa io con l’ombrello”. Mi scortò fino alla porta. L’ultima cosa che mi disse, guardandomi dritto negli occhi, fu: “Non dimenticare, il nostro compito è proteggere l’empatia a ogni costo e vivere vite fighissime”. Poi se ne andò. Sei settimane dopo non c’era più». Da allora, Jim Jarmusch prova costantemente a fare questo: proteggere l’empatia e vivere una vita fighissima. Maestro del less is more, cantore degli outsider, portatore sano di malinconia e deadpan humor, poeta del quotidiano, narratore di coolness dentro e fuori lo schermo, ripete quelle stesse parole quasi come un mantra, mentre chiede con una gentilezza mai affettata un altro espresso per «combattere il jet-lag».

Look total black in contrasto con la poltrona bianchissima della lounge del Lido, occhiali da sole scurissimi che lasciamo intravedere a malapena lo sguardo («assonnato», dice lui) e l’inconfondibile ciuffo candido, Jarmusch è a Venezia 82 con Father Mother Sister Brother: un (bell’)esercizio di empatia e un pezzo di cinema jarmuschiano purissimo, scritto in sole tre settimane per un super cast (Tom Waits, Adam Driver, Mayim Bialik, Charlotte Rampling, Cate Blanchett, Vicky Krieps, Indya Moore, Luka Sabbat). «Siamo qui, vestiti bene, in questo posto splendido. E non c’è nulla di male, perché celebriamo una cosa altrettanto bella: il cinema. Eppure lo facciamo mentre il mondo là fuori è quello che è». E aggiunge: «Film che ci mettono in relazione con la realtà, o che ci illuminano, sono fondamentali. Anche se su Gaza non c’è certo bisogno di “illuminazione”: è davanti ai nostri occhi. È un genocidio. Se non lo si vede, significa che non lo si vuole vedere». Contrasto, contraddizione, ma anche la consapevolezza che «è un’epoca strana, molto strana». E allo stesso tempo «la più interessante in cui vivere».

FATHER MOTHER SISTER BROTHER | Official Teaser Trailer | Coming Soon

Jarmusch non si tira indietro: «Vengo dal mondo di Trump. E sì, sono preoccupato. Non mi fido di chi ha potere, né di chi lo cerca. E vedo uno spostamento costante dall’energia positiva verso la negatività». Poi alza lo sguardo: «Credo che ci sia una sola coscienza nell’universo. Tutto ne fa parte. Ma che ne so io?», sdrammatizza. «Sono soltanto un regista dell’Ohio».

C’è anche la questione spinosa del legame tra MUBI (che distribuisce il film in vari Paesi, mentre in Italia arriverà con Lucky Red) e Sequoia Capital, che ha investito in una startup della Difesa fondata da ex membri dell’Intelligence israeliana dopo il 7 ottobre: «Il mio rapporto con MUBI è iniziato molto prima della guerra, ed è stato fantastico lavorare con loro su questo film. Da essere umano, però, sono deluso e piuttosto sconcertato da questa vicenda. E credo che, se si vuole discuterne, sia necessario rivolgersi a loro. Non mi piace che l’onere della spiegazione ricada sempre sugli artisti. Ho firmato l’accordo prima di sapere. Sono un regista indipendente: prendo soldi da diverse fonti per poter girare. E penso che, in fondo, tutti i soldi che arrivano dalle aziende siano sporchi».

Quando lo riporti alla Mostra, la sua risposta è un mix impagabile di cazzeggio e dolcezza: «L’ultima volta che sono stato a Venezia (nel 2003) mi hanno fermato con una motovedetta, perché ero con Bill Murray che si è tolto la camicia e la sventolava a torso nudo sul Canal Grande». Ed è già tutto bellissimo, ma c’è di più. «Io ero agitato per un problema tecnico con Coffee and Cigarettes, ma Bill mi disse: “Non preoccuparti, usciamo in barca, divertiamoci”. Quando si sono resi conto che era lui, ovviamente gli hanno dato solo un avvertimento. Mi accompagnò persino all’aeroporto. È sempre stato generoso con me. Io non guadagno molto dai miei film. Broken Flowers invece incassò, e io avevo diritto a una percentuale sugli utili, che però non mi riconoscevano. A Bill sì. Così ogni volta che lui veniva pagato chiedeva: “Avete già dato a Jim la sua parte?”. E loro: “Oh, sì, subito”. Grazie a quei soldi sono riuscito a prendermi cura di mia madre e a tenerla a casa sua negli ultimi anni di vita».

Ecco, torniamo a Father Mother Sister Brother, che lui ha definito un anti-action: «Me ne sono reso conto alla fine, quando, come ogni volta, mi hanno chiesto di scrivere qualcosa per presentare il film: non c’è azione, non c’è dramma, non c’è sesso o nudità, non c’è niente di quello che la gente si aspetta dal cinema! E allora ho pensato: “Oh, cavolo, ho eliminato tutto”. Ma in realtà è proprio la natura del film: è semplicemente un’osservazione dei personaggi, senza giudicarli».

Poi gli aneddoti, che con Jarmusch diventano un genere a sé: «Eravamo al primo giorno di riprese. Adam e Mayim sono molto precisi, rigorosi. Tom no. Alla fine della giornata lui mi ha preso da parte: “Jim, hai ingaggiato due killer professionisti. E io che faccio?”. Gli ho risposto: “Tom, tu fai a modo tuo. Sono io la tua guida, andrà benissimo”. E ha funzionato. Gli altri seguivano la sceneggiatura parola per parola, Tom improvvisava. E alla fine tutto si è incastrato».

Tom Waits in ‘Father Mother Sister Brother’. Foto: Frederick Elmes

Sulle avventure con Waits, Jim potrebbe girare un film a parte: «Una volta Tom aveva una El Camino, una specie di pick-up. E sua moglie voleva che andassimo a recuperare questa gigantesca ruota di carro da mezza tonnellata da qualcuno. Non so come, ma con un po’ di aiuto riusciamo a caricarla dietro. Partiamo, ma il peso è troppo. A un certo punto gli faccio: “Tom, esce un sacco di fumo da dietro”. Guidiamo ancora un po’ e le gomme posteriori prendono letteralmente fuoco. Non so come sia successo. Allora ci fermiamo: lì vicino c’era un tizio che innaffiava il prato con una canna. Tom gliela strappa dalle mani e la usa per spegnere le gomme, che nel frattempo esplodono».

Lo avevamo lasciato con gli zombie dei Morti non muoiono e lo ritroviamo ora tra famiglie incasinate, ognuna a modo suo (semicit.). Di che cosa vorrebbe occuparsi adesso? «Ho una nuova sceneggiatura che girerò l’anno prossimo. Non voglio parlarne troppo in anticipo, ma in sostanza è una specie di storia d’amore buffa e tenera tra due donne, non ho mai esplorato davvero questo territorio. E nella mia testa ho già fatto il casting».

Con chi gli fa notare che è in concorso “contro” Sorrentino, taglia corto: «È un regista incredibile, ha un talento pazzesco. A me non interessa la competizione: va bene perché è utile per la distribuzione dei film, per come vengono presentati. Ma competere? Davvero, è ridicolo. È come se andassimo tutti insieme in un museo e poi dovessimo scegliere collettivamente il miglior quadro e il miglior pittore. Dài, è assurdo. È per questo che ho sempre rifiutato di far parte di una giuria quando mi è stato chiesto».

Vicky Krieps, Cate Blanchett e Charlotte Rampling in ‘Father Mother Sister Brother’. Foto: Yorick Le Saux

C’è tempo soltanto per un’altra domanda: «Tre!», esclama Jim. «Sono superstizioso». Vai con la prima sull’immancabile Benigni: «Ci siamo visti di recente a Bologna: io avevo un concerto lì e lui è venuto a trovarmi con Nicoletta. E poi parliamo ancora al telefono, quasi sempre una volta al mese, di solito la domenica. È il migliore, siamo ancora molto uniti, sì. Adoro Bob, come lo chiamavamo sul set di Daunbailò. Oppure per me anche “Robertino”».

E poi parliamo di musica: «Ieri notte, mentre non riuscivo a dormire, pensavo a come non esistano giovani gruppi musicali che promuovono il totalitarismo, anche se sta dilagando nel mondo. Forse ci sono band hardcore naziste in Germania, ma non contano nulla. Quindi la musica resta una cosa pura. È una guida all’empatia, in un certo senso». E adesso cosa ascolta? «Davvero di tutto, ma di recente sono andato all’ultimo concerto dei Wu-Tang a New York, al Madison Square Garden. Siamo amici. Ed è stato come essere in una navicella spaziale che sollevava tutta New York, hanno un’energia positiva pazzesca. Dopo il concerto stavo con loro nel backstage e mi hanno dato da bere del mezcal. “Yo, mettici dentro un po’ di brown Wu juice”. Non ho la minima idea di cosa fosse quel brown Wu juice, ma sono a malapena riuscito a tornare a casa».