Jerry Calà: «Per fortuna che non sono morto prima che mi celebrassero» | Rolling Stone Italia
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Jerry Calà: «Per fortuna che non sono morto prima che mi celebrassero»

A quarant'anni dal primo 'Vacanze di Natale' e da 'Sapore di mare', abbiamo fatto una lunga chiacchierata con la vera rockstar della commedia italiana, dagli esordi con I Gatti di Vicolo Miracoli («un gruppo unico») al rischio di perdersi nel successo («per fortuna c'era Mara Venier»), fino all'infarto e all'amore del pubblico («molti non hanno la fortuna di essere celebrati in vita»)

Jerry Calà: «Per fortuna che non sono morto prima che mi celebrassero»

Jerry Calà

Foto: press

«Ah, Rolling Stone… avete chiamato la rockstar giusta». Non poteva che esordire così Jerry Calà rispondendo al telefono. Così, vecchia scuola, con il telefono alla mano e la voce roca da chi ha vissuto un anno intenso, iniziato con lo spavento a marzo per un infarto improvviso. Nonostante questo, però, lo spirito di Jerry è quello dei bei tempi.

Quello che colpisce di Calà è una sorta di pace interiore che emana nel raccontare una carriera di successi popolari lunga 50 anni, da quando con I Gatti di Vicolo Miracoli cantava la Verona Beat fino a Chi ha rapito Jerry Calà?, il film di cui è attore e regista che uscirà il 24 dicembre sulle principali piattaforme di streaming. Un successo che nei primi ’80 lo porta ad abbandonare i Gatti («una scelta sofferta») per diventare re del botteghino («c’erano momenti in cui ero primo e secondo in classifica tra i film più visti al cinema») e una vita vissuta al massimo («non posso negarlo: me la sono goduta») e tenuta assieme dalla presenza salvifica di Mara Venier (che compare proprio in Chi ha rapito Jerry Calà?).

Lui che è stato l’emblema dell’Italietta anni ’80, quella di Billo, il furbetto di Vacanze di Natale (il primo, l’originale), lo sciupafemmine del «non sono bello, piaccio», della vita riversata verso la «libidine» con o senza fiocco, ora – attivo come quando girava «anche tre, quattro film l’anno» – sembra aver davvero trovato la serenità. Sarà stato l’amore delle generazioni a seguire, dai rapper (come Guè che l’ha voluto nel trailer Madreperla, J-Ax che l’ha trasformato in un OG del rap per Ocio e Clementino che ha accettato di apparire nel suo ultimo film) a Il Pagante, il pubblico che continua a presentarsi alle sue serate canore («dovresti vedere quanti giovani mi dicono di sapere i film a memoria»), la memoria collettiva che ha cristallizzato alcune delle sue opere come fotografia reale di una certa Italia che fu, ma pochi personaggi possono vantarsi di un riconoscimento transgenerazionale ampio come quello di Calà.

A quarant’anni da Sapore di mare, Al bar dello sport (con Lino Banfi) e Vacanze di Natale (che tornerà in sala il 30 dicembre), tutti e tre usciti nel 1983, e con un film in uscita, era il momento ideale per parlare con una delle ultime rockstar italiane.

Partiamo dagli esordi. Come sei arrivato a far musica e ad entrare nei Gatti di Vicolo Miracoli?
Ho avuto fortuna. Eravamo una famiglia emigrata dalla Sicilia, ho vissuto fino a 12 anni a Milano e poi a inizio anni ’60 ci siamo trasferiti a Verona, ai tempi una specie di Liverpool italiana dove c’era questa mania di fare le band – ai tempi si chiamavano complessini – rock e beat. Ci si esibiva in cantine e teatrini parrocchiali e si suonavano canzoni dei primi Beatles, dei Rolling Stones, ma anche di progetti italiani come l’Equipe 84. Così ho imparato a suonare la chitarra mentre mi ero preso il morbillo tardivo e fondato la mia prima band, i Pickup. Gli altri dei Gatti li ho conosciuti invece al liceo, il Maffei di Verona.

E come siete passati a fare teatro-canzone e cabaret?
Nasciamo come gruppo musicale: facevamo spiritual e country. Le nostre voci armonizzavano molto bene, e io suonavo il contrabbasso mentre Smaila il pianoforte. La parte comica l’abbiamo sviluppata più tardi, con il teatro cabaret, senza però mai perdere di vista la parte musicale. Abbiamo anche avuto grandi successi discografici come Capito?!, che ha venduto un milione di copie.

Che arriva da un tuo tormentone, giusto?
Sì, da uno dei miei primi. La canzone fu anche sigla di Domenica In quando era presentata da Corrado.

Siamo in un periodo storico dove tutti cercano il tormentone, che ora chiamiamo viralità. Ma come nascevano i vostri, di tormentoni?
I miei nascevano soprattutto dall’osservazione dei tic delle persone. O guardando la televisione, le pubblicità, insomma da quello che mi stava intorno. In quel periodo lavoravamo quasi tutte le sere, per cui si aveva modo proprio di sperimentare, se ti veniva un’idea la provavi subito, sentivi se funzionava, se eri sulla strada giusta. Il mio primo tormentone in assoluto fu una cosa che inventammo io e Umberto durante la Tv dei ragazzi, durante i nostri primi giorni in Rai. Io facevo il concorrente di un quiz e Umberto il presentatore. Ed è nata questa cosa dell’“ho studiato!”, lo ripetevo negli sketch fino a che a un certo punto, passando davanti all’uscita di una scuola. ho sentito dei ragazzi che la ripetevano. Lì mi si è accesa una lampadina: se avevo questo dono di creare tormentoni, dovevo sfruttarlo.

I GATTI DI VICOLO MIRACOLI - Verona beat (1979)

Nell’ultima formazione dei Gatti ci siete te, Umberto Smaila, Franco Oppini e Nini Salerno. Tutti con una riconosciuta carriera nazionalpopolare. Raro vedere così tanti singoli sopravvivere ad un gruppo. Cosa avevate in più degli altri?
Il passare con grande disinvoltura dalla musica alla recitazione, dalla battuta ai movimenti scenici. Noi sul palco avevamo anche delle belle coreografie, eravamo un gruppo completo. Adesso, a distanza di anni, posso dirlo: siamo stati un gruppo unico, innovativo. Abbiamo fatto anche un pezzone, Verona Beat. Tornando alla tua domanda, abbiamo avuto la fortuna nei primi anni di carriera di abitare assieme a Milano e formarci l’un l’altro. Ci riunivamo in cucina o provavamo in camera di Umberto, dove c’era il pianoforte. Vivevamo assieme 24 ore su 24, e ogni volta che ad uno veniva un’idea ci si riuniva e si cantava. Ognuno poteva dare qualcosa. Per questo quando ci siamo sciolti ognuno di noi aveva in mano il mestiere.

Vivere assieme e fare musica e cabaret coi propri amici sembra il sogno di ogni ventenne.
È vero. Ti dico questo: il mio sogno sarebbe quello di prendere quattro ragazzi giovani e fare una sitcom lunghissima e chiamarla Casa Gatti. Guarda, potremmo scrivere 200 puntate perché a casa nostra ne succedevano di tutti i colori. Era il punto di ritrovo di tutti gli artisti del cabaret di Milano da Abatantuono a Teocoli, da cantanti tipo Umberto Tozzi – spesso seduto a terra a suonare i Beatles – a Ivan Graziani o la Nuova Compagnia di Canto Popolare quando passavano a Milano. Tutto il mondo veniva a casa nostra. È stato un periodo magico.

E poi arrivano i Vanzina che vi propongono un film. E poco dopo tu lasci I Gatti, intraprendi la carriera solista da attore e diventi il Calà che tutti conosciamo. Ci racconti un po’ cosa è successo? Che rapporto hai avuto tu con i Vanzina?
Devo tutto a Carlo ed Enrico perché dopo aver fatto due film assieme, Arrivano i gatti e Una vacanza bestiale, mi dissero: “Jerry, ci dispiace, ma i produttori pensano che tu possa fare un film da solo come protagonista. Devi fare questa scelta”. Con gran dolore feci quella scelta, perché insomma quelli sono treni che passano una volta sulla vita e io ci sono montato sopra. Grazie a Carlo ed Enrico ho iniziato così la mia carriera solista. E così un grande produttore come Claudio Bonivento ha prodotto quello che è diventato il mio primo film da protagonista, Vado a vivere da solo, sempre firmato in sceneggiatura da Enrico Vanzina.

E da quel momento non ti sei mai fermato. Avrai fatto 20-30 film in quei dieci anni.
Anche qualcosina di più, sì.

In pochissimo sei passato da essere un personaggio conosciuto all’attore pop del decennio. Hai fatto una serie di film che conosce chiunque, dalla nonna al ragazzino di oggi, quindi immagino anche che la popolarità sia arrivata in fretta e molto forte.
Fortissimo, è vero, ma ho avuto la fortuna di arrivare a quel momento dopo una lunga gavetta, pian piano. Quindi quando il successo mi è piovuto addosso sono riuscito a non perdere la testa.

Qualche pazzia l’avrai fatta, dai…
Ok, sì, qualche colpo di testa l’ho fatto, non lo nego, però ho retto tutto molto bene. Anche grazie ad una grande donna che in quel momento era al mio fianco, Mara Venier.

Ti ha aiutato la sua presenza a gestire il successo?
È stata bravissima a tenermi coi piedi per terra. C’è stato un anno in cui ero primo e secondo in classifica tra i film più visti al cinema. Il rischio di perdere la testa era facile.

Sei stato un po’ una rockstar negli anni ’80, immagino che te lo sia goduto quel decennio.
Sì, non posso mentire, devo dirti la verità. È una bella sensazione quando tutti ti vogliono. Era bello. Anzi, voglio dire che continua ad essere bello, perché ho veramente ancora grandi dimostrazioni di affetto da parte del pubblico che mi fanno sentire una rockstar. Ho il mio one-man-show, quest’estate ho fatto piazze con 15mila persone con uno spettacolo dove racconto un po’ la mia carriera, un po’ la storia del cinema e della musica di quegli anni.

Che rapporto hai con il tuo pubblico oggi?
Ho un pubblico di tutte le età. Sono trasversale: vengono a vedermi i miei coetanei, che hanno vissuto in prima persona quei giorni, ma anche tutti quelli che hanno scoperto i miei film dopo. Perché quei film durano nel tempo, sono spesso programmati in televisione. Ai miei spettacoli vedo anche ragazzi di 16-18 anni.

E cosa dici loro?
Gli chiedo: “Ma voi che cazzo ne sapete di quella roba?” (ride). Sai, conoscono a memoria le battute, si affezionano a quei film perché capiscono che noi in quegli anni eravamo non dico più liberi, ma sicuramente con meno sovrastrutture. Ci divertivamo come pazzi. E vedendo quei film secondo me lo capiscono. E mi dicono: “Avremmo voluto vivere in quegli anni, così ci saremmo divertiti anche noi”.

Foto: press

In quel periodo, e in quei film, eravate poi più o meno gli stessi attori. C’era una sorta di “scena”, come quando mi raccontavi dei Gatti, come foste una crew. E penso che questo rendesse tutto più reale.
C’era sempre qualcuno che entrava e che usciva, però secondo me anche questa cosa qua piace molto ai giovani, vedere che c’era una coesione, che c’erano delle cose che tornavano, che si faceva gruppo. Oggi forse si fa meno gruppo.

Ora ci sono le crew del rap, ma forse eravate più crew voi di tutti questi rapper.
Eravamo antesignani (ride). Tutto torna infatti, sai che io sono adorato dai rapper?

Certo, Guè ti ha voluto per Madreperla, J-Ax ti ha fatto rappare, Clementino è nel tuo film…
Sì, per Guè ho fatto quel filmettino lì di due o tre minuti dove presentavo tutti i rapper presenti nel suo disco. Sai, quel giorno tutti i rapper volevamo farsi i selfie con me e io gli dicevo: “No, guarda che sono io vostro fan!”. Ma penso anche a J-Ax che mi ha fatto rappare nella sua trasmissione. O a Clementino che mi ha scritto un pezzo per il film.

Secondo me i rapper ti adorano perché fare rap è crearsi un personaggio, e tu nel tuo cinema hai costruito un personaggio che tutta Italia conosce e che noi ora riconosciamo in Jerry Calà.
Esatto! Quando J-Ax mi ha chiamato a fare Ocio, quel pezzo rap per il suo programma, era proprio un suo modo di omaggiare quello che io rappresentavo per lui.

Della generazione subito dopo invece hai lavorato con Il Pagante.
Sì, vero! Vedi che mi adorano?

E tu come ti relazioni di fronte a questa adorazione?
Quando mi chiamano corro. Mi piace tantissimo, in primis perché sono molto curioso. Mi piace capire come parlano o come si muovono i giovani, quindi quando ho questi inviti ci vado di corsa. Mi diverte tantissimo stare con questi ragazzi anche per apprendere e capire a che punto sono, quale umore hanno.

Quest’anno è il quarantennale di tre di film importanti per te: Sapore di mare, Al bar dello sport e il primo Vacanze di Natale.
Questo ti fa capire come ho avuto la fortuna di fare dei film che sono rimasti. E di film ne escono tantissimi, sono ben pochi quelli che rimangono. Ci sono stati grandi successi negli anni ’90 e 2000 ma sono spariti, mentre i nostri, cazzo, sono ancora lì dopo 40 anni.

Secondo te perché continuano a piacere? Avreste mai immaginato potessero durare così tanto?
Assolutamente no, anche perché mentre li facevamo la critica non è che ci accarezzava. Però, ecco, qualcuno ce lo diceva: “Guardate che è successo a tanti”. E mi facevano l’esempio di Totò. E io rispondevo: “Spero che se ne accorgano prima che io muoia, però”. Ecco, la mia fortuna è che non sono morto e vengo comunque già celebrato. Altri non hanno avuto questa soddisfazione.

Ci sono mai state delle critiche a quei film che ti hanno fatto pensare, o che magari ti hanno fatto venire qualche dubbio?
C’è stato un momento in cui mi sono fatto influenzare e ho cambiato un po’ direzione. Era bello fare quel tipo di esperienze, come lavorare nel cinema serio come successo con Marco Ferreri, ma ho capito che la gente mi voleva divertente, mi voleva nella commedia. E il pubblico va rispettato. Così ho smesso di farmi influenzare dalla critica. Il mio amico Pozzetto ai tempi mi ripeteva: “Quando cominciano a parlare bene devi preoccuparti”.

Jerry Calà - Arrivo a Cortina Vacanze di Natale 83

I tuoi ruoli più celebri di quegli anni, in quelle commedie, sembrano varie sfumature di una stessa persona. E per noi quei personaggi, quei Billo, sono Jerry Calà. Ma tu ti sentivi quei personaggi o ne sei rimasto schiacciato?
Ho sicuramente accentuato molto tante cose, però sì, di base ero io, inutile negarlo. Il Jerry di quegli anni era molto vicino ai personaggi che interpretavo. Ecco, nella vita però ero e sono anche altre cose. L’unica cosa che mi ha dato fastidio nella mia carriera è quando magari camminavo per strada, o ero da altre parti, e qualcuno mi fermava, mi vedeva accigliato e mi diceva: “Ma tu devi ridere!”. Ma che cazzo devo ridere se c’ho i cazzi miei! Quella è un po’ la condanna del mio lavoro.

E i ragazzi giovani di cui parlavi prima ti chiedono mai consigli?
Quando lo fanno dico sempre: c’è differenza tra essere famosi ed essere artisti. Quando sei famoso la gente ti riconosce, ma magari ti indica con disprezzo. Mentre io ho la fortuna che quando la gente mi incontra mi dice: “Quando ti vediamo ci vengono in mente le spiagge, il mare, il divertimento”.

Una bella soddisfazione evocare queste immagini, no?
Sì, sono davvero in pochi ad avere questa fortuna.

Sei fiero di come si è sviluppata la tua carriera?
Sì, molto.

Parlandoti sembri davvero una persona in pace con quello che ha fatto. Ma hai dei rimpianti o sei proprio serenamente contento del tuo percorso?
Sono abbastanza sereno. Certo, qualche errore l’ho fatto con il senno di poi, tipo abbandonare la serie dei cinepanettoni perché influenzato da qualcuno che vedeva in me una carriera da attore più impegnato. Lì mi sono fatto trascinare e ho perso un treno, soprattutto economico. Però credo nelle sliding doors, certo non ho fatto i cinepanettoni, però ho fatto i primi, i capostipiti, quelli che restano ancora oggi. E comunque grazie a quella deviazione ho conosciuto Marco Ferreri, un maestro del cinema che mi ha insegnato tutto e mi ha fatto venire voglia di fare il regista, che è la cosa che più adoro al mondo.

Anche considerata l’età e i problemi fisici, hai mai pensato di fermarti?
No no, di fermarsi non se ne parla. Ho avuto questo colpettino a Napoli mentre giravo il film, ma ora sono a posto. Voglio continuare a fare il regista e, con la mia nuova età, dedicarmi a fare l’attore quando ci sono grandi interpretazioni. Ma tu prima hai detto una cosa bella in cui mi rivedo. Quella sulla serenità.

Sì, se ti senti serenamente contento.
Sì, mi sento in pace. Secondo me l’importante è non agitarsi e fare le cose in maniera tranquilla, senza stressarsi. Questo è il segreto per non avere un altro infarto, cazzo!

Mi hai raccontato di una vita vissuta senza sosta, ma sei riuscito a capirci qualcosa, a godertela un po’?
Me la son goduta alla grande! Non avrò la villa a Capri o alle Maldive ma sono contento, perché i miei soldi li ho spesi bene.

Alla George Best?
Ah no, lui era esagerato, la più rockstar di tutti.

Hai lavorato con i più importanti attori comici degli ultimi 40 anni. Mi hai parlato di un gran clima di amicizia e di rispetto. Non c’era mai competizione o invidia tra di voi?
Sì, c’era una forte competizione, ma molto sana. Con De Sica, Boldi e Greggio c’era una gara, ma a chi inventava la battuta più forte. Ma c’erano anche momenti dove ce le suggerivamo. C’era voglia di divertirsi, non c’erano maldicenze. O almeno non è mai capitato con me. Ti racconto un aneddoto. Ho avuto l’onore di dirigere una delle più grandi maschere della nostra epoca dopo Totò, ovvero Paolo Villaggio. Sul set di Torno a vivere da solo ero emozionatissimo, lui lo capì, e proprio sul tema competizione mi disse: “Guarda che sei tu il regista, mi devi dire tu se devo fare Fantozzi o Paolo Villaggio. Tu dimmi e io faccio”. I grandi attori fanno capire la loro grandezza con l’umiltà. Poi trovi invece degli attori cani che arrivano con gli occhiali da sole e quattro guardie del corpo che non riescono neanche a pagare e non sanno dire mezza battuta. Ma non ti dico chi, per eleganza.

Parlando di grandi comici, chi è il migliore tra quelli con cui hai lavorato?
Renato Pozzetto, non c’è dubbio. All’inizio, e non lo nego, mi sono molto ispirato a Renato. Abbiamo anche fatto una tournée insieme con I Gatti, lo ritengo il mio maestro. Quando faceva cabaret non mi perdevo una serata.

Il 24 dicembre sulle piattaforme di streaming esce il tuo nuovo film, Chi ha rapito Jerry Calà?
Sì, ho fatto la regia con un cast straordinario di attori napoletani che veramente ho goduto a dirigere: Sergio Assisi, Barbara Foria, Nando Paone, Maurizio Casagrande. E anche amici come Mara Venier, Umberto Smaila, Massimo Boldi, che sono quelli a cui i rapitori si rivolgono per chiedere il mio riscatto. È un film molto divertente e, come ho detto prima, ci sarà anche Clementino, che ha scritto S’anno arrubbate a Jerry Calà.

Grazie Jerry per questa chiacchierata per Rolling.
Ma grazie a te, era da un po’ che non facevo un’intervista così. Solitamente mi chiedono sempre le solite stronzate.

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