Jafar Panahi: «‘Un semplice incidente’ è il mio documento per il futuro»
Dell’Iran, e del mondo tutto. Abbiamo incontrato il grande regista per l’uscita del suo ultimo capolavoro, Palma d’oro a Cannes 2025. Ne è uscita una lezione di cinema e di vita
Foto: Lucky Red
Jafar Panahi è uno dei più grandi registi viventi. Ha vinto tutti i massimi premi dei massimi festival europei, unico a riuscire nell’impresa dopo Michelangelo Antonioni. Nel 1997 il Pardo d’oro a Locarno per Lo specchio, nel 2000 il Leone d’oro a Venezia con Il cerchio, nel 2015 l’Orso d’oro a Berlino per Taxi Teheran, quest’anno la Palma d’oro a Cannes per Un semplice incidente. È di quest’ultimo – al cinema dal 6 novembre con Lucky Red – che parliamo, in un albergo di Roma, dopo l’anteprima italiana alla Festa del Cinema. Sa, questo prodigioso iraniano, di avere tra le mani un (altro) capolavoro, ma ne parla con la bonaria mitezza di un uomo che fa, semplicemente, il suo mestiere, e lo accompagna per il mondo. (Lo vedrò poi, mentre lascio l’hotel dopo la nostra chiacchierata, uscire per una sigaretta e poi rientrare a cercare, disorientato, l’ascensore per continuare il suo giro d’interviste; nessuno riconoscerebbe, in questo signore con gli occhiali da sole anche al chiuso che si aggira per la hall, un maestro del cinema).
Dietro quella compostezza però c’è la vita, le condanne, la lista nera del regime, i film fatti di nascosto e portati in giro per l’Europa e per il mondo come atti di testimonianza diretta, più che di protesta. E c’è il carcere. È dalla sua ultima detenzione – dal luglio del 2022 al febbraio del 2023 – che nasce quest’ultima storia. Un uomo in auto con la sua famiglia mette sotto un cane randagio. Si ferma a un’officina e il meccanico riconosce in lui il suo torturatore al tempo di quand’era in prigione, detenuto dal regime. Coinvolge altri ex detenuti – una coppia di sposi, una fotografa, il vecchio compagno di quest’ultima – per architettare la sua vendetta. Ma…

Jafar Panahi. Foto: Majid Saeedi
«Quando passi sette mesi in carcere senti molte storie che ti raccontano gli altri prigionieri, soprattutto quelli che sono lì da molto tempo prima di te», mi dice Panahi senza troppi giri di parole. «La conseguenza è che queste storie ti influenzano, anche se nel momento in cui le ascolti non pensavi certo a fare un film. Succede tutto dopo, quando esci e cominci a passare le tue giornate a ripensare a quelle storie, a tutti i dettagli che ti hanno raccontato. Ed è allora che decidi che devi farci un film. E quando decidi che devi fare un film, è come se tutti questi personaggi, che appartengono alle categorie più diverse e che hanno i comportamenti più diversi, cominciassero a camminare davanti ai tuoi occhi. È lì che inizi a elaborare la tua storia».
Una storia che, alla maniera di Panahi, è un dramma ma anche una (amarissima) commedia umana. Viene citato Beckett, c’è ovviamente Kafka, a me questo girovagare di personaggi in cerca di vendetta o pace o chissà che ha ricordato persino certi film “a zonzo” di Bogdanovich, quella nuova Hollywood lì. «Il mio obiettivo era arrivare agli ultimi 20 minuti, a quel finale che sciocca lo spettatore», spiega Panahi. «E per portarlo lì dovevo però fare qualcosa di diverso, che rendesse quel momento sopportabile. Ho pensato che l’ironia potesse essere lo strumento giusto. L’ironia amara aiuta lo spettatore a essere più coinvolto nelle storie dei personaggi. E poi si arriva alla fine, quando improvvisamente c’è un silenzio assoluto», – attenzione: piccolo spoiler –, «in cui all’improvviso si torna a sentire il rumore della protesi [che il protagonista sentiva in carcere]. Lo spettatore si chiede se sta succedendo veramente, o se è un rumore che si produce nella mente del personaggio, che spesso, nel corso del film, dice di aver sentito in quei cinque anni quel suono nella sua testa. Lo scopo è far uscire lo spettatore dal cinema con delle domande. Cos’è successo? Cosa succederà nel futuro? Questa violenza genererà altra violenza, oppure questo circolo vizioso si interromperà?».

Una scena di ‘Un semplice incidente’. Foto: Lucky Red
Ecco, il futuro. È la chiave che rende Un semplice incidente un film ancora più spaesante e importante. Questi ex prigionieri, al momento in cui ci viene raccontata la loro storia, sono tornati in libertà. I loro carcerieri si confrontano con i fantasmi che si portano appresso come la loro protesi cigolante. È una distopia? È una realtà possibile? È il suo, il nostro modo per ipotizzare l’Iran di domani? «Volevo girare un film che fosse un documento storico per il futuro. Qualcosa che ricordasse per sempre cosa abbiamo vissuto in questo periodo, e come immaginavamo quello che sarebbe venuto dopo».
Come lo immagina lui, e con lui i suoi collaboratori, e gli attori che scelgono – in un tempo in cui, in quel Paese, si è ancora perseguitati per la propria libera espressione artistica – di prendere parte a un film come questo? «Da tre anni, dopo la nascita del movimento Donna Vita Libertà, è iniziata un’era nuova nella Storia dell’Iran. È come se la Repubblica islamica fosse divisa tra un prima e un dopo, che è appunto la nascita di Donna Vita Libertà. Oggi le persone vogliono fare qualcosa. Anche la mia troupe, come il resto della popolazione, sentiva questa chiamata».
Un semplice incidente è il primo film di Panahi da uomo libero dal 2010, dopo che il Tribunale rivoluzionario di Teheran ha fatto decadere sia il bando che gli proibiva di realizzare film sia quello che gli proibiva di viaggiare all’estero. Ma i film li può girare solo su previa autorizzazione del governo, cosa che non può naturalmente avvenire. Girare un film come questo è dunque un rischio per chiunque ne prenda parte. «Quando ho chiesto alle diverse persone di collaborare a questo progetto, tutti hanno accettato con tutto il cuore. Per esempio, il mio direttore della fotografia [Amin Jafari] aveva proposte molto più interessanti, ma ha lasciato tutto per venire a lavorare con me, perché sapeva che stava facendo una cosa che rimarrà. Anche alcuni attori, che non avevano mai lavorato prima, sapevano che stavano facendo parte di qualcosa di importante, e per questo erano così motivati. Tutti cercavamo di non rinunciare alla qualità, nonostante tutti i problemi che ci troviamo di fronte quando giriamo un film».

Il cast di ‘Un semplice incidente’. Foto: Lucky Red
«Una cosa che rimarrà», dice Panahi del suo film. La grammatica del cinema, lo ha detto molte volte, l’ha appresa da Alfred Hitchcock. Poi è arrivato il neorealismo italiano. Ora – dopo tutti questi film, dopo tutti questi premi, dopo essere stato lui stesso storicizzato e canonizzato – mi chiedo, e gli chiedo, se ormai sente di avere un linguaggio suo, che può ispirare i cineasti del futuro. «Sono convinto che anche i registi da cui ho appreso io il mestiere, mentre stavano realizzando i loro film, non pensavano di poter influenzare quelli che sarebbero venuti dopo. Lavoravano come credevano fosse giusto per loro. Da Hitchcock ho imparato come creare le immagini e le sequenze: l’alfabeto del cinema. E poi dal neorealismo italiano ho imparato lo sguardo umano sulle persone. Quando in Ladri di biciclette il personaggio a cui hanno rubato la bici decide di rubare a sua volta la bici a una persona nella sua stessa situazione, ecco, lì ho capito che, nei momenti di crisi, è come se esistesse un ciclo che si ripete all’infinito. E questo per me è stato importantissimo: mettere uno sguardo umano in situazioni come queste. Perciò nel mio cinema ho cercato di abbinare quella grammatica imparata da Hitchcock allo sguardo umano del neorealismo italiano. E credo di esserci riuscito. Questo non significa però che anche il mio cinema rimarrà per il futuro. Non è questo il mio intento. Io faccio il mio lavoro e basta».
Il suo cinema rimarrà eccome, e a me rimane, alla fine di questa conversazione, una lezione di cinema di cui forse Panahi nemmeno si rende conto. Torniamo all’ultima sequenza di Un semplice incidente. Cercherò, insieme a lui, di non rivelare troppo. «C’è, alla fine, questa scena di 13 minuti e mezzo in cui vediamo il medium shot di un personaggio legato a un albero. Vediamo solo lui per 13 minuti e mezzo. Sentiamo la voce di un altro personaggio che gli parla, e a volte vediamo anche le gambe di quest’altro personaggio, ma mai il suo volto. Sarebbe stato facile fare un montaggio in cui mentre il primo personaggio parla lo inquadri, e poi stacchi sull’altro quando tocca a lui parlare. Ma [mostrare solo un personaggio] è stata una scelta dettata sì dalle regole del cinema che ho imparato dai grandi maestri, ma anche da quello sguardo umano di cui parlavo, del cinema sociale che mi ha portato a creare questa sorta di giustizia dell’immagine. C’è una giustizia del pensiero, per cui ho voluto che anche chi è dalla parte sbagliata potesse esprimere la sua posizione. Ma c’è anche una giustizia rispetto a quello che vedi. E volevo che questo film arrivasse proprio lì».












