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Ivan Cattaneo: «David Bowie? Mi sembrava la Vanoni»

La lite con Anna Oxa, l’incontro con Bowie, il periodo rock e punk, la canzone con De Andrè, il Sanremo mancato, i primi movimenti gay, l’amicizia con Mario Mieli, Polisex, Una zebra a pois, i reality show, l’incazzatura di Simona Ventura. Parla il simbolo della trasgressione anni '80.
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Ivan Cattaneo. Foto via Twitter

Dimenticate la sua partecipazione al Grande Fratello Vip. Quello che abbiamo visto nella casa più spiata d’Italia non è l’artista Ivan Cattaneo. Le dinamiche dei reality tendono, spesso, a conformare una personalità verso i gusti rassicuranti del pubblico. Ivan Cattaneo non deve rassicurare proprio nessuno. Lui è stato simbolo della trasgressione – quella vera! – degli anni ’80. Una figura mitica, ironica e punk che ha lasciato il segno anche perché è stato uno dei pochi (il solo?) a non nascondere mai la propria sessualità.

Ha sbattuto in faccia ai benpensanti il suo modo di essere e fatto battaglie per la comunità gay. Per rispetto a questo cantautore, non si può e non si deve fermarsi all’immagine formato piccolo schermo, bisogna sforzarsi di conoscere totalmente il suo universo. Un artista con la “A” maiuscola che non le manda certo a dire. Quando lo sento mi illumina sui prossimi progetti: «Sto facendo una serie di tre puntate sui musicarelli, con Red Ronnie e Paolo Piccioli, per Rete4. Presenterò i cantanti degli anni ’60. È una sorta di Techetechetè. Eliminano il film e tengono le canzoni, l’unica cosa che valeva in quelle pellicole del cazzo. Erano orribili, con trame impossibili per agganciare un brano all’altro. Credo si chiamerà C’era una volta il musicarello». Dopo un inizio così, si parte con l’intervista.

Iniziamo dal Grande Fratello Vip?
Se devi proprio…

Ok, non partiamo da quello. Recentemente a Verissimo hai parlato di essere finito in una clinica psichiatrica perché gay.
Sono andato da mia madre siccome avevo visto un giornale di allora – del ’63/’64 – dove c’erano persone considerate mostri perché amavano altri uomini e dovevano diventare donna per correggere il loro stato. Non esisteva nemmeno la parola “omosessuale”, esisteva la parola “mostro” che doveva riuscire a correggere la sua identità per rientrare nella società. E così, siccome mi ero innamoratissimo di un ragazzo del mio paese ho pensato che, per sposare lui, dovevo diventare donna. Sono andato da mia mamma e le ho detto che volevo diventare donna, basta.

E lei?
Aveva letto qualcosa, era andata del medico e gli aveva detto «Mio figlio è uomo sensuale». Il medico ne sapeva ancora meno di mia madre e mi mandò a Bergamo in un ospedale neuropsichiatrico, dove invece di aiutarmi, continuavano a sedarmi, a farmi dormire dalla mattina alla sera.

Nessuno ha provato a capirti veramente?
La cosa più curiosa è che c’era questa dottoressa che appena sono arrivato – lei probabilmente era più scafata, veniva da Milano – mi ha chiesto, a me bambino, «Ma perché vuoi diventare donna? Perché non stilista o parrucchiere?».

E tu?
Io pensavo «Ma cosa c’entra lo stilista o il parrucchiere?». Quella dottoressa era più avanti, però non mi ha aiutato. Ho capito che il mondo non mi poteva aiutare, che dovevo nascondermi dal mondo. Era meglio dicessi che ero guarito, che era stato un momento di debolezza. Ho detto così a mia mamma, ho detto così a tutti ed è finita lì. Non ho più ripreso l’argomento per tanti anni, fino a che non sono diventato Ivan Cattaneo.

Ti hanno mai bullizzato?
Sempre. Il primo esempio di bullismo è stato a sei anni, durante il primo giorno di scuola elementare.

Che ti è successo?
Sono arrivato in classe e la maestra notava che guardavo sempre la cartella. Si avvicina al banco e io avevo una bambolina, la mia preferita. Mi ricordo ancora che si chiamava Betty. Avevo portato a scuola anche lei per la prima volta. La maestra prese in mano questa bambolina dicendo a tutti «Guardate che femminuccia! Vergogna!». Mi urlò contro, deridendomi davanti a tutti i miei compagni. Magari per lei era una stupidaggine, ma per un bambino di sei anni è stato un trauma fortissimo.

Ce ne sono stati altri?
Poi per strada mi urlavano «Finocchio», «Frocio», «Culo». Una volta ero a Milano, in via Cusani, dove c’era il primo bar gay d’Italia. Uscito mi aspettavano tre ragazzi, mi hanno menato a sangue nella metropolitana. E mi hanno rubato il giubbino. Non so se perché ero gay, ma mi hanno fatto sanguinare. E poi c’è un terzo episodio.

Racconta.
Nel 1995 ero andato in vacanza in una località di mare. E avevo conosciuto due ragazzi sui 24/25 anni. Con la loro motoretta siamo andati in spiaggia per combinare. A un certo punto è scattato un meccanismo per cui sconsiglio a tutti di andare a letto con due insieme.

Perché cosa accadde?
Uno ci stava, l’altro si era pentito e non voleva più starci. Ha preso la motoretta e, mentre faceva la salita per ritornare in paese ci urlava «Siete due finocchi!». L’altro che era rimasto con me, non ha fatto niente e, quando è ritornato l’amico a riprenderlo con la motoretta, hanno incominciato a prendrmi a calci nelle costole, nei coglioni, dappertutto. Sono crollato, urlando come un pazzo. Mi stavano ammazzando.

Come ti sei salvato?
Per fortuna, dalla spiaggia, c’era un uomo in camporella, è arrivato chiedendo cosa stesse succedendo e questi due sono scappati. Ero veramente scioccato. Ma erano altri tempi. Essendo un personaggio famoso ho fatto tacere tutto.

Passiamo alla tua carriera. All’inizio hai frequentato anche Mario Mieli.
Sì, certo. È diventato un mio grande amico, adesso stanno facendo un film su di lui, prodotto da Nicoletta Mantovani. Credo si chiami Anni amari.

Cosa ricordi di Mieli?
Aprì il Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, ndr) insieme ad Angelo Pezzana, poi ci fu un allontanamento. Perché Pezzana era più sul movimento radicale, mentre Mario Mieli era molto più rivoluzionario. Mieli era un personaggio incredibile, un Aldo Busi moltiplicato per mille, con una famiglia ricchissima di ebrei industriali della seta. L’ho conosciuto e mi diede l’indirizzo di una comune gay a Londra, ma non mi vollero: avevo la barba e pensavano fossi un agente della CIA.

Che hai fatto a Londra?
Ho vissuto la città psichedelica, quella dei Roxy Music. E ho avuto il mio primo incontro sessuale, con questo produttore, che è quello degli U2 e all’epoca era quello degli Jetrho Tull e David Bowie. Quasi mi violentò. Poi a me piaceva il suo amico, ma non poteva ospitarmi. Sono andato a casa di questo e ne ha approfittato. Avevo 19 anni, ero un bel ragazzino. Lui aveva 31 o 32 anni.

Ma Bowie l’hai conosciuto?
A Portobello. Questo produttore – di cui non posso fare il nome, credimi – mi presentò Cat Stevens che all’epoca era famosissimo. Quando incontrai Bowie non era famoso. A Portobello Road gli regalai una sciarpa, ma lui l’ha dimenticata sul banco. Vuol dire che non gli piaceva. (ride, ndr) Mi ricordo che appena vidi David Bowie pensai che assomigliava a Ornella Vanoni: aveva ‘sti capelli rossi con ‘sti denti lunghi tipo Ornella Vanoni.

Ma tornando a Mario Mieli. Perché l’amicizia è finita?
Non è finita, ognuno ha preso la propria strada. Io ho iniziato a diventare famoso con Italian Graffiati, lui faceva teatro. Una sera, al Teatro di Parma, durante una manifestazione, lui faceva una performance, mi misero come star finale e se la legò un po’ al dito. Ma son cazzate tutto sommato, non ci capivamo più.

Perché?
Lui usava tutte queste sostanze, gli acidi, era diventato troppo tossico alla fine. Poi faceva queste cose con la merda…

Con la merda?
Mi ricordo che in una discoteca è venuto in pista e voleva sentissi il profumo di qualcosa. Mi aveva messo due palline di merda sotto il naso. Mi sono incazzato, perché non capivo che cos’era. Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto. Qualche anno dopo mi ha chiamato un amico e mi ha detto «Mario si è suicidato, ha messo la testa nel forno».

Come l’hai presa?
Mi sono messo a ridere. Sai quando reagisci in un modo che non ti fa accettare la fine di un amico? La testa nel forno era una cosa casalinga, non da Mario Mieli, mentre lui mi sembrava più maledetto, avrei pensato si fosse sparato o impiccato. La testa nel forno mi faceva dire «No, è impossibile, Mario non l’avrebbe mai fatto». Non ci credevo. E invece era proprio successo. È morto come la poetessa Sylvia Plath.

Ma tu gli eri molto amico?
Tutti dicevano che ero il miglior amico di Mario Mieli, ma era impossibile essere amico di Mario perché aveva tutta una visione sua egocentrica. Era un uomo intelligentissimo, ha scritto libri meravigliosi, ma era un’anima dannata. L’ho sempre paragonato a Verlaine, a Boudelaire, a Rimbaud. Scriveva poesie e ho ancora alcuni suoi scritti inediti.

Arriviamo ad Anna Oxa, perché sei tu che ti sei inventato il look che la fece conoscere a Sanremo nel 1978.
Mi chiama il direttore della RCA, quello che ha lanciato la Pavone, Morandi e Dalla. Mi fa «Ho una ragazzina che sta qua da due anni, ma nun se pò vede’ com’è vestita. Tu sei bravissimo a fare i look, te la mando su a Milano a vediamo cosa fai». Le ho fatto tagliare i capelli, l’ho fatta vestire da uomo, ho trasferito me stesso su di lei.

E che tipa era la Oxa?
Era una bambina, aveva 16 anni e faceva tutto quello che volevo io, ascoltava tutto. Dopo quattro o cinque mesi, abbiamo litigato.

Come mai?
C’era una conferenza stampa con i giornalisti, lei è arrivata tutta vestita di pelle, con le catene e un Pierrot in pelouche che non c’entrava niente col punk. Le ho detto di toglierselo e lei mi fa «No, io sono diventata Anna Oxa, sono famosissima. Tu non sei nessuno». Mi ha fatto piangere. Nanni Ricordi ed Ennio Melis le dissero di rispettarmi perché ero un grande cantautore che si era prestato a fare questa cosa per lei.

A questo punto che hai fatto?
Ho detto «Vabbè ragazzi, torno a fare il cantautore» e l’ho lasciata continuare per la sua strada.

Ma poi avete fatto pace?
Sì, siamo andati a mangiare insieme quattro anni fa. Siamo entrambi vegani, abbiamo scambiato quattro chiacchiere. Non c’era grande intesa per le persone da cui era circondata. Che poi erano persone con cui lei aveva lottato per liberarsi, credo.

Tra le persone che hai lanciato c’è Diana Est.
Era la mia ballerina a Mister Fantasy, era la nipote di Lavezzi, era stata un po’ imposta, diciamo. Ballava in maniera molto strana e poi ha trovato Ruggeri che le ha scritto il pezzo Tenax: gli piaceva come personaggio e l’ha fatta diventare Diana Est.

E arriviamo al tuo Polisex, un brano parecchio avanti.
È nato una sera del 1979 a Villa Litta durante una rassegna di musica rock. In camerino, entra questa ragazza punk molto strana. Ero molto incuriosito e le ho chiesto «Ma sei un uomo o una donna?». Lei mi fa «Proprio tu mi fai una domanda così? Io sono polisex». In quel periodo avevo una storia con l’unica donna della mia vita, Alessandra.

Maddai?
Stavo con lei perché mi piaceva il suo ragazzo, più che altro. Ma con me non c’è mai stato. Però ho immaginato ci stesse, ed è diventata, in pratica, una storia a tre, polisex. In quel periodo tra l’altro c’era Renato Zero col Triangolo, Patty Pravo che faceva l’amore con uno, ma pensava all’altro (Pensiero stupendo, ndr). Era di moda quel tipo di trasgressione.

Nonostante Polisex siano uno dei tuoi must, il successo nazional-popolare arriva con Italian Graffiati.
Italian Graffiati è nato una notte, a Parigi, avevo fatto una rassegna rock per band emergenti dove si esibivano anche Blondie e i Depeche Mode. Dopo il live siamo scesi in una discoteca d’èlite, dove c’erano ragazzi vestiti anni ’50. Erano giustissimi con i pantaloni a sigaretta, i ciuffi alla Elvis Presley, era una cosa di un retrò fantastico. Tornato in Italia sono andato da Caterina Caselli e le ho detto «Voglio fare questa cosa, vestirmi in questo modo, anni ’60, perché più consono a me». Invece di fare Elvis, volevo fare la Caselli – che era lei – e Rita Pavone.

Che ti ha detto la Caselli?
Lei a nozze, figurati, trovava uno che la celebrava. E quindi è nato Italian Graffiati. Un disco quasi d’avanguardia, fatto in maniera stranissima e nuova.

E da lì in poi quando è arrivato il momento in cui hai fatto perdere le tracce?
La Caselli mi faceva solo fare dischi di revival e, ha un certo punto, le ho chiesto la liberatoria. Mi doveva ancora un disco e fare un disco, all’epoca, costava 300 milioni di lire. Le ho detto «Ti regalo tutto il disco, però io voglio tornare a fare il pittore». Dopo ho fatto le 100 gioconde Haiku, volevo riappropriarmi della mia vita. Ero contento di non essere nessuno e fare solo la mia arte. Sono stato quasi 20 anni in quella dimensione, mi riempiva molto a livello artistico, ma chiaramente l’arte non paga. È sempre un po’ complicato, ma mi ha dato tanta ricchezza e realizzazione personale e spirituale, ho conosciuto il mio maestro Osho, mi ha cambiato la vita e mi ha dato l’opportunità di avere la centratura e la sicurezza che ho oggi, anche se poi la sicurezza non c’è mai.

Sei stato, però, anche deluso dal mondo musicale.
Sì, molti hanno detto di non sottovalutarmi, ma non mi sono mai sottovalutato, mi sono sempre sopravvalutato. Tanto è vero che non mi ritenevo adatto al mondo discografico.

Comunque alla fine sei tornato in quel mondo.
Nel 1993 ho deciso di tornare per fare un album completamente nuovo, drum & bass, molto azzardato. Penso sia il primo disco italiano del genere. L’ho fatto con i Datura – perché Stefano Mazzavillani, il tastierista della band, era il mio tastierista storico ed era cresciuto con me – e Ciro Pagano il chitarrista dei Gaznevada. Il risultato è stato Il cuore è nudo…e i pesci cantano, che ancora oggi penso sia il disco più bello che ho fatto.

Come andò?
Non c’erano più le prerogative, il mondo della discografia era cambiato, non si vendevano più 800mila copie come nei primi anni ’80, non c’era più una grossa casa discografica a distribuirlo. Per cui facevo dischi, più o meno ogni dieci anni.

E adesso?
Sto preparando il disco nuovo, anzi, è già pronto. Si intitola Eiaculazione da Tiffany.

Il titolo mi ricorda un po’ un film porno. Come sarà?
Molto particolare, con pezzi ironici, strani e sarcastici. Per certe cose c’è un po’ un ritorno all’Ivan Cattaneo degli anni ’70, con la cattiveria di quel periodo.

Solo questo?
Sto scrivendo un pezzo per Stefano Sala, conosciuto al Grande Fratello. Poi ho scritto un brano per Patty Pravo, per cui lei è impazzita veramente. Con lei sto anche lavorando per il video. Forse ci sarà in ballo pure Sanremo, vediamo un po’.

A proposito, tu a Sanremo non ci sei mai andato.
Io propongo sempre le canzoni, ma Sanremo è una cosa strana, non si capisce. E quel che sto dicendo è un eufemismo. (ride, ndr)

Ma è vero che eri lì lì per partecipare a uno dei festival condotti da Carlo Conti?
Avevo scritto una canzone veramente bella: Madama Di Vento, che ho inserito nel mio nuovo album. È nata in una notte, a casa di Nanni Ricordi, c’erano lui e Fabrizio De Andrè ubriachi. Io ero un ragazzino, avevo vent’anni, e avevo sfidato De Andrè dicendogli che avevo scritto La canzone di Marinella n°2. Però la protagonista, invece di essere una puttana, era una lesbica.

E lui?
Scherzava e mi prendeva in giro. Diceva «Madama Di vento o Madama Divento», nel senso che era una travestita. Poi mi aveva suggerito due o tre parole, e quindi, questo brano, è nato anche con la collaborazione di De Andrè.

Perché non l’hai mai cantata prima?
Io non la cantavo facendo la voce molto bassa. Invece in quel periodo avevo la fissa di cantare tutto in falsetto. Quindi, alla fine, quel pezzo non mi piaceva.

E quando è ricicciato?
Ho ritirato fuori il provino qualche anno fa e ho trovato la canzone molto carina. Anche adatta a parlare dei femminicidi perché racconta dell’uccisione di questa donna. L’ho portata da Carlo Conti ed è impazzito. La voleva assolutamente, però mi ha detto che voleva darla a Patty Pravo. Gli ho detto «No, Patty Pravo ce l’ha già da un anno, però è incerta, non è sicura di questa cosa. Perché non vuoi me?».

Cosa ti ha risposto?
«Eh, tu non sei un personaggio televisivo al momento…». Insomma, mi ha rifiutato.

Ora ti tocca parlare della carriera tv, iniziata a Music Farm come sostituto di Shalpy.
È stato un colpo di fortuna perché mi ha dato tanta notorietà, ma la notorietà dei reality sono a doppio taglio. È popolarità senza professionalità, quindi bisogna sforzarsi perché la gente abbia anche un aggancio artistico alle cose.

Però, insomma, poi l’anno dopo hai condotto il daily.
Sì, il secondo anno sono stato presentatore e il terzo opinionista con la Bertè.

E la Bertè? Che mi dici?
È simpaticissima! Quando facevamo gli opinionisti, a un certo punto, Simona Ventura doveva presentare Viola Valentino e disse «E ora la regina degli anni ‘80». La Bertè, allora, mi guarda e mi fa «E allora io chi so’, l’imperatrice?». (ride, ndr)

Capitolo Isola dei Famosi. Perché sei stato anche lì.
Sì, ma lì – a parte l’uragano che c’è stato e le controversie – sono partito un mese dopo, tante cose non collimavano, non avevo lo spirito per starci e me ne sono andato dopo 27 ore. La Ventura ha detto «Ma non ha fatto l’Isola dei Famosi, ha fatto un day hospital».

Si era incazzata?
Un pochino sì. Avevano investito molto su di me. Dovevo sostituire Cecchi Paone e Malgioglio che erano andati via.

Il reality torna nella tua vita con il Grande Fratello Vip. Dovevi partecipare già l’anno scorso. Cosa ti ha bloccato?
La storia personale col mio ex, che è diventato proprio “ex”. E poi avevo letto sui social che c’era Malgioglio e c’erano commenti del tipo “Se entra pure Cattaneo sarà il culmine del trash”, “Saranno Stanlio e Onlio gay”. C’erano queste chiacchiere, non ero pronto a entrare e ho rifiutato.

Quest’anno cos’è cambiato?
Ero molto pronto, avevo voglia di fare questo esperimento, mi piaceva l’idea di stare in questa specie di limbo, dove devi giocare tutto con la personalità. Ho fatto il GF Vip giurandomi di non portare l’artista Ivan Cattaneo dentro la casa.

Perché?
Volevo portare Ivan Cattaneo uomo, con le mutande, che andava al gabinetto, un’immagine molto umana di me, molto terra-terra. E alla fine, con grande sofferenza, questa cosa è arrivata al pubblico.

Ah sì?
All’inizio i miei compagni d’avventura pensavano volessi fare lo stronzo. Facevo le battute con il mio humor, ma non le capivano. Invece, alla fine, mi hanno adorato. Mi sono guadagnato il GF in crescendo. È stata un’esperienza sconvolgente a livello umano e di popolarità, ma non aggiunge nulla al fatto artistico.

Sai che molti ti hanno definito la “quota Malgioglio”?
All’inizio tutti dicevano che volevo imitare Malgioglio, ma la gente ha visto, a lungo andare, che non sono Malgioglio, ma un’altra cosa, sia come look, abbigliamento e modo di fare, ma soprattutto come adesione al reality.

Cioè?
Io saltavo addosso ai ragazzi, parlavo di sesso, eccetera. Là Malgioglio non ha mai parlato di sesso, era un cartone animato. Se l’è giocata benissimo, è stato un grande personaggio, ma non era sé stesso.

Quando è entrato in casa, però, Malgioglio ti ha detto che non dovevi imitarlo. E tu, per tutta risposta, lo hai asfaltato dicendo di essere un gay ante litteram, mentre lui aveva fatto coming out solo da un quarto d’ora.
Quella frase lì era perché non sapevo cosa dire. È chiaro: per gli etero un gay è uguale all’altro, è un luogo comune. Io non mi sento uguale a Malgioglio, non perché sia meglio o peggio, ma sono un’altra cosa.

Ma alla fine con Malgioglio questa rivalità c’è o no?
Non è una persona che frequento, non vivo a Milano e non ci vediamo spesso. Però mi è simpaticissimo.

Dì la verità.
Certo, non è colto come me chiaramente. Quando gli ho detto “ante litteram” mi ha chiesto «Cosa vuol dire?». Capito? Per dirne una…

Cosa pensi dei tuoi colleghi che hanno tardato a dichiararsi, come Shalpy?
Non è mai troppo tardi, ben vengano. È sempre meglio fare coming out.

Sai che Marco Carta si è dichiarato gay?
Ma veramente? Menomale, era ora. Comunque l’argomento non mi interessa più di tanto.

Ok, allora che rispondi ai tanti gay che hanno detto di non sentirsi rappresentati da te?
Io non sono andato al GF per rappresentare i gay, è già abbastanza se riesco a rappresentare me stesso. Ho lottato, ho fatto tante battaglie per i gay, ma le ho fatte soprattutto per me.

E quelli che hanno detto che sei stato una macchietta?
Io non sono una macchietta, la mia vita è così. Sono un gay degli anni ’80, probabilmente diverso da un gay del 2000. Anche sei i gay estrosi ci sono anche oggi.

Cosa pensi della comunità gay di oggi?
Dovrebbero avere un po’ di memoria storica su quelli che sono stati i gay italiani – come Mario Mieli, Corrado Levi, Pezzana e anch’io se vuoi – che hanno creato un po’ le fondamenta per il movimento lgbtq italiano.

Che mi dici del Ministro della Famiglia che non accetta le famiglie arcobaleno? Non c’è rischio che venga smantellato quello che si è costruito?
È un momento così, ma non si torna più indietro. Sono tutte balle quelle che dicono, sono idee e frenature ideologiche. Sono pericolose, è vero, ma la maggior parte delle persone sono propense a che si realizzi anche la famiglia gay. Mi sembra sacrosanto.

Senti, ma il tuo show multimediale che dici sempre sia in procinto di partire?
Ce l’ho nel cassetto, è già pronto, e vorrei farlo uscire tra marzo e aprile. Sarà un trait d’union tra tutti i miei linguaggi. La difficoltà è quella di avere una platea “intelligente” che ha più curiosità verso le cose artistiche.

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