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‘Il processo ai Chicago 7’ è il processo all’America di oggi

Aaron Sorkin, ‘il più grande sceneggiatore statunitense’, dirige un film sulle rivolte (finite in tribunale) del 1968 che è lo specchio dell’epoca che stiamo vivendo. Lo abbiamo intervistato

Foto: Niko Tavernise/Netflix

Sono qui in attesa del collegamento virtuale con Toronto per parlare con Aaron Sorkin, genio della sceneggiatura americana – dal film Codice d’onore alle serie The West Wing e The Newsroom, fino all’Oscar per The Social Network di David Fincher e all’eccezionale Il buio oltre la siepe di quest’anno, in versione teatrale a Broadway – ora alla sua seconda prova da regista dopo Molly’s Game. Il nuovo film, già lanciatissimo verso gli Oscar 2021, è Il processo ai Chicago 7, ora nelle sale e poi su Netflix dal 16 ottobre, e tratta delle vicende di un gruppo di sette attivisti anti-guerra del Vietnam colpevoli, stando agli atti, di aver causato una serie di scontri violenti con polizia e Guardia Nazionale durante la Convention del Partito Democratico del 1968. Gli organizzatori delle proteste – tra cui gli attivisti Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen), Jerry Rubin (Jeremy Strong, neo-Emmy per Succession), Tom Hayden (Eddie Redmayne), futuro senatore dello Stato della California e marito di Jane Fonda, e Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II), capo fondatore delle Black Panthers – furono accusati di cospirazione e incitamento alla sommossa, in uno dei dibattimenti pubblici più noti in terra americana.

Destino vuole che, sebbene questo evento sia una pagina tratta dai libri di storia, le stesse cose (senza conflitto) potrebbero tranquillamente essere scritte in questi giorni, con l’attuale presidente Trump al posto di Nixon e, invece che il Vietnam e la controcultura di sinistra dell’epoca, il popolo americano impegnato in marce di protesta contro razzismo e brutalità sistematica della polizia.

Perché un film e non, considerato l’impianto del copione, un’altra pièce teatrale?
Quando ho un’idea per un soggetto, la prima cosa che faccio è pensare se può andare bene per il teatro. C’è stato un attimo in cui ho pensato che questa potesse esserlo, poi ho capito che sarebbe stato meglio farci un film. Anche se i primi dieci minuti sono vere e proprie entrate in scena dei personaggi principali, come si fa a teatro per far capire al pubblico l’anima dei singoli caratteri. Sul palcoscenico sarebbe stato perfetto anche l’intero processo, ma volevo mostrare le rivolte, gli scontri con la polizia.

A proposito degli scontri: dopo averli visti, il film cambia totalmente, diventa un racconto del tutto diverso.
Esatto, non vediamo le rivolte fino a circa un’ora dall’inizio. Il processo ai Chicago 7 è il racconto di tre storie incrociate. La prima è il dramma in tribunale, la seconda il rapporto tra Abbie e Tom, la terza è l’evoluzione della protesta, fino a quella grande rivolta l’ultima sera della Convention: come s’è formata e soprattutto cos’è diventata, da una semplice manifestazione pacifica a uno scontro sanguinoso con la polizia. Avevo un sacco di timori a metterlo in scena, prima di questo avevo diretto un solo film con 11 persone in tutto, mentre qui avrei avuto centinaia di comparse, gas lacrimogeni… Per questo devo ringraziare anche l’aiuto fornitomi dal Dipartimento di polizia di Chicago.

È vero che avevi questo copione tra le mani da molto tempo?
Sì e no. Nel senso che nel 2006 Steven Spielberg mi ha invitato a casa sua un sabato mattina e mi ha detto: «Voglio fare un film sulle rivolte alla Convention di Chicago del 1968 e sul processo che ne è seguito». E io gli ho semplicemente risposo: «Se lo fai, io ci sono». Poi, una volta in macchina, ho chiamato mio padre al telefono e gli ho chiesto se sapeva qualcosa di quella storia. All’improvviso mi sono reso conto di aver detto sì a Spielberg senza conoscere quasi nulla di tutta la faccenda, avevo solo nozioni superficiali, non sapevo molto del processo, avevo solo letto di Abbie Hoffman, che era una delle figure di spicco della controcultura, e sapevo che Tom Hayden aveva sposato Jane Fonda e che Bobby Seale era il capo delle Black Panthers. Non avevo però idea di come questa parabola fosse collocata all’interno della Storia americana, se fosse vista sotto una luce positiva o negativa.

Aaron Sorkin dirige una scena sul set del ‘Processo ai Chicago 7’. Foto: Niko Tavernise/Netflix

Qual è stata la più grande sorpresa in questa storia, informazioni vere a parte?
Tutte le notizie, i dettagli, gli incartamenti: erano tutti una sorpresa per me. Ricordo che già all’epoca Steven sosteneva quanto fosse importante realizzare il film prima delle elezioni del 2008. Poi ci siamo rivisti prima delle elezioni del 2012, e poi ancora nel 2016… ed eccoci qua adesso. Il dato forse più sorprendente è l’atteggiamento del giudice (Julius Hoffman, interpretato da Frank Langella, ndr) e alle cose folli che ha permesso in quell’aula: qualora il pubblico non sapesse che è tutto vero, avrebbe il sacrosanto diritto di alzarsi e uscire dal cinema indignato.

C’è un momento in particolare che, visto oggi, non può non colpirci. Parlo di quello che riguarda Fred Hampton, il giovane afroamericano interpretato da Kelvin Harrison Jr.: voleva solo partecipare a una protesta pacifica, ne è uscito letteralmente vittima delle istituzioni. Quando lo vedi entrare nella sala dell’udienza senti un brivido, perché rivedi tante delle cose che stanno accadendo ancora oggi.
È vero. Per una triste coincidenza, abbiamo girato una scena che lo vede protagonista proprio nel giorno del cinquantesimo anniversario della sua morte. Mi sono sentito male, ho avvertito il triste confronto con il tempo che stiamo vivendo. La vicenda di Fred Hampton avveniva ben prima delle morti di Breonna Taylor, Rayshard Brooks e George Floyd, ma le somiglianze tra ciò che accade in questo film e gli eventi appena successi sono agghiaccianti. Qualcuno mi ha chiesto se ho cambiato la sceneggiatura per rispecchiare i fatti di oggi: ovviamente no, il mio film era così anche prima, se mai è il mondo che purtroppo rispecchia il copione, che ci mostra quanto sia ancora tragica e sbagliata la situazione attuale.

Il tuo è un film spesso disturbante proprio perché continua a far risuonare la domanda di sempre: quando finirà tutto questo?
È incredibile, ma è così. Ci poniamo la stessa domanda che ci si faceva 52 anni fa, e che forse ci chiederemo ancora dopo le prossime elezioni. Devo ringraziare Steven, che, dopo aver visto Molly’s Game, mi ha incoraggiato a dirigere il film proprio quando, nello stesso momento, Donald Trump teneva grandi raduni e incitava la folla ricordando con nostalgia di come ai vecchi tempi la polizia picchiasse i dimostranti, recitando gli stessi slogan razzisti del tipo: «Mandateli a casa!». Quanto siamo caduti in basso, o forse siamo rimasti uguali a prima. Se guardiamo le foto in bianco e nero scattate nel 1969 fuori dal tribunale, vediamo gli oppositori e i sostenitori dei Chicago 7 con cartelli che alternativamente recitano “America: Love It or Leave It”, “What About White Civil Rights?” e “Lock ’Em Up”: un déjà-vu allucinante con quello a cui assistiamo adesso. Ho pensato subito a quanto questo fosse rilevante, a quanto Il processo ai Chicago 7 non sia una lezione di storia, ma il racconto dell’America di oggi.

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