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«Il fuoco si è riacceso»: Daniel e Ronan Day-Lewis raccontano ‘Anemone’

Padre e figlio parlano in esclusiva con 'Rolling Stone' della collaborazione per l'esordio alla regia di Ronan, che riporta Daniel sullo schermo per la prima volta dopo otto anni

Foto: SACHA LECCA

Dentro una stanza modesta, sul lato nord del Chelsea Hotel, mentre il sole di mezzogiorno entra a fiotti dalla finestra e i rumori della strada brulicano e, parecchi piani più in basso, filtrano attraverso le pareti, Daniel Day-Lewis è in profonda concentrazione. O meglio: il sessantasettenne attore sembra in profonda concentrazione, a giudicare dall’espressione del suo volto. Un’espressione che avete già visto, in decine di film che hanno beneficiato della sua presenza premiata con l’Oscar, anche se è passato un po’ di tempo. Occhi: socchiusi. Mascella: serrata. Concentrazione: chirurgica.

Un fotografo sta mettendo via l’attrezzatura, un’addetta stampa fa più cose al telefono, un giornalista cerca di rendersi invisibile. (Parliamo di una star del teatro e del cinema che una volta definì l’esperienza delle interviste “il grande scherzo che Dio mi ha fatto”). Ma Day-Lewis riesce a estraniarsi da tutto. Sta studiando i mobili della stanza. Li misura con lo sguardo, li ispeziona, ne ammira la fattura. C’è stato un tempo, quando era giovane, prima che il richiamo della recitazione lo catturasse del tutto, in cui Day-Lewis voleva diventare un falegname. Per quel che ne sappiamo, potrebbe aver passato gli ultimi otto anni nel suo laboratorio, a costruire un tavolo simile a quello che ora sta fissando con la sua inconfondibile intensità. Passa una mano sulla superficie, perso nei pensieri.

Poi la parola «Papà» risuona, e boom: Day-Lewis torna immediatamente presente, sorridente e rilassato. «Ehi, Ro», dice affettuosamente andando incontro al figlio, Ronan Day-Lewis. Lo scrittore e regista ventisettenne, alto e magrissimo, con addosso maglietta vintage dell’Adidas, lo chiama dall’altra parte della stanza, emanando quell’energia irrequieta che associ subito agli artisti ventenni. Quando i due si ritrovano vicini, si nota subito una certa somiglianza: stesso naso lungo, stessa mascella spigolosa – abbastanza per pensare “ah, sì, sono davvero padre e figlio”. Daniel sorride a trentadue denti al ragazzo, mentre i due scambiano battute con naturalezza. Sono lì per affrontare insieme, per la prima volta, quel “grande scherzo divino” delle interviste a proposito di un progetto a cui lavoravano in relativa segretezza da quasi dieci anni. E non potrebbero essere più felici di sedere uno accanto all’altro.

Quel progetto segreto, Anemone (in uscita il 10 ottobre negli USA, per l’Italia dovremo aspettare il 6 novembre, ndt), è a tutti gli effetti un affare di famiglia. È il debutto alla regia del giovane Day-Lewis, pittore (la sua prima mostra personale alla galleria Megan Mulrooney di Los Angeles si inaugura il 13 settembre), e figlio della star di Lincoln e della regista Rebecca Miller. È anche la prima apparizione sullo schermo, dopo otto anni, del padre, che aveva annunciato all’inizio della promozione del Filo nascosto (2017) il suo ritiro definitivo dalla recitazione. È un progetto nato da uno scambio di idee tra i due, che culmina ora in un dramma davvero straordinario su fratelli, madri e, sì, padri e figli. Un’opera che è insieme l’introduzione di un nuovo talento e la reintroduzione di un veterano.

Prendendo il titolo dal nome di un fiore delicato i cui petali si chiudono all’arrivo della tempesta, Anemone racconta la storia di un ex soldato britannico di nome Ray (Day-Lewis), che vive nei boschi remoti del Nord dell’Inghilterra. Suo fratello Jem (Sean Bean) lo raggiunge nella piccola baracca che lui, stoico ed eremitico, chiama casa. Sembra che Brian (Samuel Bottomley), il figlio adolescente di Ray, sia sul punto di seguire lo stesso percorso autodistruttivo del padre. Lo zio del ragazzo e sua madre, Nessa (Samantha Morton), vogliono salvarlo prima che sia troppo tardi. Per riuscirci, Ray dovrà affrontare il suo passato. E non sarà affatto facile.

Ronan e Daniel Day-Lewis. Foto: Sacha Lecca

È un dramma familiare intenso, gioioso, doloroso e a tratti assurdo, che talvolta devia in quel territorio strano e iperrealista dove compaiono pesci giganti, grandinate improvvise e una creatura allungata, simile a un cammello, con un volto umano e un pene minuscolo.

Una volta che Daniel e Ronan si sono sistemati e il primo ha versato a tutti un bicchiere d’acqua minerale, i due uomini passano l’ora successiva a parlare di tutto: dalla genesi del progetto all’infanzia di Ronan trascorsa sui set cinematografici, fino alla decisione di Daniel di ritirarsi – una parola con cui ancora fatica a fare i conti – e, per questo film, “s-ritirarsi”. (La conversazione è stata condensata e modificata per maggiore chiarezza).

Partiamo dall’inizio…

Ronan: Da anni pensavo di scrivere qualcosa sul rapporto tra fratelli. E quando abbiamo parlato di lavorare insieme, è venuto fuori che mio padre, del tutto indipendentemente da me, era affascinato dall’idea di raccontare due fratelli, in particolare il ruolo che il silenzio gioca in un relazione fraterna. Quella è stata la scintilla. L’idea di quest’uomo che vive in isolamento totale è emersa abbastanza rapidamente, e poi i dettagli del suo ambiente, del suo passato e della sua vita hanno iniziato a delinearsi, anche se in modo un po’ sfocato. Ti lascio raccontare la tua versione.

Daniel: Direi che hai spiegato tutto, sì.

Quando avete iniziato a parlarne per la prima volta?

Daniel: Credo fosse poco prima del Covid, quando abbiamo cominciato a discuterne. Non eravamo ancora sicuri di cosa sarebbe uscito…

Ronan: Era intorno al 2018 quando abbiamo parlato di collaborare a qualcosa. Ma è stato solo nel 2020 che ci siamo davvero messi lì, a sbattere la testa contro il muro, cercando di scrivere insieme. Facevamo avanti e indietro, e io avevo un Google Doc dove annotavamo frammenti di idee, pezzi di scene di cui parlavamo, dettagli su chi fosse questo personaggio. Ricordo che per me c’è stato un momento preciso: quando hai cominciato a recitare davvero quei frammenti di scene come Ray; quello ha iniziato a dare forma al mondo che stavamo costruendo. Abbiamo scritto le prime dieci pagine piuttosto in fretta.

Daniel: Era un po’ triste, perché sapevo che Ronan avrebbe continuato a fare film, mentre io mi stavo allontanando da quel mondo. Pensavo: non sarebbe bello se riuscissimo a fare qualcosa insieme e a trovare un modo per contenerlo, in modo che non dovesse per forza richiedere tutta la trafila di una grande produzione? Così siamo partiti, in sostanza, dall’idea di due tizi in un capanno (ride). Poi, col passare del tempo, abbiamo cominciato a sentirci davvero soffocati…

Ronan: Già, dopo un anno passato a scrivere solo questi due personaggi nel capanno, era come…

Daniel: “Dobbiamo uscire da questo fottuto capanno!” (ride). “Ci serve una donna in questa storia!”

Se resti soltanto con quei due uomini nel capanno, hai una sorta di meravigliosa, e tremendamente blasfema, pièce di Beckett. Ma…

Daniel: Esatto. È più un’opera teatrale che altro! E ci siamo detti: “Be’, qui serve qualcos’altro”. Introdurre gli altri personaggi (quelli interpretati da Morton e Bottomley) ci ha permesso di respirare un po’. Ma ogni volta che metti giù una riga, riduci sempre più la possibilità di restare semplice, perché è facilissimo scrivere, che so, una scena di strada… ma quella richiede immediatamente più cose.

Ronan: Ci siamo resi conto, man mano che la storia prendeva forma, che ogni scena che scrivevamo ne ampliava la portata.

Daniel: Così abbiamo detto: “Ok, smettiamo di combattere, andiamo dove ci porta”. È stato praticamente tutto improvvisato. Ronan ha imparato a scrivere a macchina molto presto, e le sue dita volavano sulla tastiera…

Ronan: Devo molto a Mavis Beacon (il volto di un programma educativo gratuito che offre un corso completo di dattilografia, ride).

Daniel: … e quindi improvvisavamo, poi raffinavamo, limavamo ancora. Ronan continuava a fare correzioni. Non sapevamo neppure se avremmo mai avuto una sceneggiatura intera, davvero: pensavamo potesse tranquillamente restare un cortometraggio. Perché ogni tanto arrivavamo a un punto in cui ci dicevamo: “Va bene, e adesso cos’altro hanno da dirci queste persone? Chi sono? Cosa ci vogliono comunicare?”. Ma abbiamo continuato. È stato sorprendente il giorno in cui Ro ha fatto il conto delle pagine e ha detto…

Ronan: “Abbiamo tipo cento pagine…”

Daniel: “E adesso che facciamo?!” (ride).

Vorrei tornare a qualcosa che hai detto poco fa, Daniel: hai raccontato di aver provato tristezza perché sapevi che Ronan avrebbe iniziato una carriera da regista. E tu eri stato molto chiaro, pubblicamente, nel dire: “Be’, ora mi interessa fare altre cose oltre alla recitazione”. Quindi c’era uno scenario possibile in cui voi due vi sareste limitati a scrivere questa storia e qualcun altro avrebbe interpretato Ray? O ti sei sentito obbligato a impersonarlo fin dall’inizio?

Daniel: (fa una pausa) Be’, in realtà… non so cosa pensasse Ro, ma man mano che questi personaggi si dichiaravano a noi, io avrei potuto benissimo interessarmi al personaggio di Sean invece che al mio. Non sentivo una fedeltà nei confronti dell’uno o dell’altro. Ero affascinato allo stesso modo da entrambi. Credo di essere semplicemente scivolato in modo naturale nel modo di pensare di Ray.

Ronan: Interessante. Questo non lo sapevo. Perché, per qualche ragione, io ti ho sempre visto come Ray. Ho sempre dato per scontato che l’avresti interpretato tu.

Daniel: Ma così non ho risposto alla tua domanda, vero?

Ti ci sei avvicinato molto.

Daniel: Insomma… quando avevamo una sceneggiatura e non eravamo sicuri di quali sarebbero stati i passi successivi, c’era una parte di me che iniziava a sentire delle riserve sul tornare di nuovo ad avere una vita pubblica. Ho detto a Ro: “Guarda, indipendentemente dal fatto che lo faccia io o no, la storia è tua, puoi farne ciò che vuoi”. E Ro è stato abbastanza chiaro sul fatto che non l’avrebbe fatto se non l’avessi fatto io. Ma abbiamo passato un periodo molto felice a scrivere questa storia insieme, e credo che fosse proprio nello spirito di voler continuare a tenere la palla in gioco che ci siamo detti: “Andiamo avanti con questa storia, qualunque cosa significhi”.

Daniel Day-Lewis e Sean Bean in ‘Anemone’. Foto: Focus Features

Avendo visto la performance, ho la sensazione che saresti stato a pezzi se non avessi interpretato Ray.

Daniel: Già. Voglio dire… hai ragione. Credo che quelle riserve fossero semplicemente il riflesso della paura, più che di qualsiasi altra cosa. Era una sorta di timore, un’ansia legata al rientrare negli ingranaggi del cinema. Il lavoro, quello invece l’ho sempre amato. Non ho mai, mai smesso di amarlo. Ma c’erano aspetti dello stile di vita che comportava che non ho mai accettato, dal primo giorno fino a oggi. C’è qualcosa in quel processo che alla fine mi lasciava svuotato. Lo conoscevo bene, lo capivo: sapevo che faceva parte del gioco, e che ci sarebbe stata, prima o poi, una rigenerazione. Ma è stato solo nell’ultima esperienza (girando Il filo nascosto) che ho iniziato a sentire con forza che forse quella rigenerazione non ci sarebbe più stata. Che probabilmente era meglio starne lontano, perché non avevo più nulla da offrire. Ma guardandomi indietro ora… avrei fatto meglio a tenermi la bocca chiusa, sicuramente (ride). Adesso sembra solo una fanfaronata grandiosa e senza senso. Non ho mai davvero avuto l’intenzione di ritirarmi. Ho solo smesso di fare quel tipo particolare di lavoro per poterne fare un altro. Non ho mai… insomma, a quanto pare mi hanno accusato di essermi ritirato già due volte. Ma non ho mai voluto ritirarmi da nulla! Volevo solo dedicarmi a qualcos’altro per un po’. E quindi penso che fossi in un momento così basso che mi sono detto… Guarda, sono una persona molto orgogliosa, e non in senso positivo (ride). Pensavo: “Se metto un punto a questa cosa, sarò troppo orgoglioso per tornare indietro. Perché so che arriverà il giorno in cui sarò di nuovo tentato. Ma se avrò detto che non lo faccio più, non lo farò”. Questo dimostra soltanto che non sono così orgoglioso come mi piace credere! Non so se tutto questo abbia senso, David, ma sento che è importante ribadire che l’amore per il lavoro in sé, quello, per me non si è mai spento.

Quando ci siamo parlati vent’anni fa, avevi appena finito due progetti, Gangs of New York e La storia di Jack & Rose, dopo un periodo di inattività. Ti avevo chiesto se sentissi il bisogno di avere una vita lontana dal lavoro. E la tua risposta fu qualcosa del tipo: “La tua domanda suggerisce che non ci sia un legame tra le due cose”. L’idea era che fosse necessario confrontarsi con il mondo per poter creare l’arte – nello specifico, il tipo di arte che tu crei, nel modo in cui lo fai. Riguardando oggi a quella frase, sembra perfettamente chiaro perché tu possa aver detto: “Per un po’ ho chiuso”.

Daniel: Sì. È assolutamente così. Con l’età, mi ci vuole sempre più tempo per ritrovare la strada verso quel punto in cui il fuoco torna ad ardere. Ma lavorare con Ro lo ha fatto accendere subito. Ed è stato, dall’inizio alla fine, puro piacere passare quel tempo insieme a lui (fa una pausa). Vorrei che fossi stato lì, in quei momenti, a parlare per me e a tirare fuori quella citazione.

Be’, le mie tariffe orarie sono basse, quindi…

Daniel: (ride) Assunto!

Ronan, vieni da una lunga stirpe di scrittori, artisti e registi. Quando hai iniziato a interessarti al cinema?

Ronan: Non mi avevi fatto vedere Kes di Ken Loach quando avevo sei anni o giù di lì?

Daniel: Mi sembra di sì.

Ronan: Ricordo di aver avuto una reazione molto intensa a quel film da bambino. È il primo ricordo che conservo di aver compreso il potere elementare che il cinema può avere. Da lì sono diventato quel ragazzino insopportabile che cercava sempre di trascinare i suoi amici a girare piccoli corti con le videocamerine dei nostri genitori, in giardino. Solo molto più tardi ho potuto guardare alla carriera di mia madre e dire: “Ah, quindi è davvero possibile farlo. Si può davvero diventare registi”. Ho semplicemente iniziato a scrivere di più. E avevo disegnato in modo ossessivo fin da quando ero praticamente un neonato, quindi… mi sembrava sbagliato non creare qualcosa.

C’è una scena in Anemone in cui Ray si imbatte in una strana creatura fluorescente con un volto umano. In realtà è basata su una scultura che hai realizzato nel 2023, The Creature, che è apparsa in varie forme nel tuo lavoro. Quanto si sovrappone quello che fai in studio con quello che crei nel cinema?

Ronan: Moltissimo. Avrei potuto dirigere questo film come un classico kitchen-sink drama. Per me però era importante non considerarlo come qualcosa di completamente separato dalla mia pratica pittorica, ma come due facce della stessa medaglia. Non volevo inserire a forza immagini dei miei quadri nel film, ma mentre scrivevamo ci siamo sentiti sempre più liberi di non renderlo del tutto lineare. Sono un grande fan di David Lynch, e lui è uno che ha saputo trovare un modo meraviglioso per mescolare gli aspetti personali e quelli strani, iperrealisti, del suo lavoro.

Una cosa che David Lynch non ha mai fatto: scrivere un monologo di 12 minuti sulla vendetta scatologica (nel film c’è una scena clou in cui Ray, un prete e un confronto segnato da una defecazione incontrollabile danno vita a un racconto che va ascoltato per essere creduto, nda). Potete raccontarmi entrambi com’è stato scriverla e interpretarla?

Daniel: Ah, sì…

Ronan: Non sai se ridere o piangere durante quella sequenza. È stato incredibile, perché molto presto nel processo, mio padre… lo lascio parlare, ma io l’ho sentito mormorare qualcosa tra sé. (Si rivolge a Daniel) E poi hai improvvisato tutto sul momento. “Oh, parla di un prete che conoscevano da bambini…”. Continuava a riaffiorare finché non è arrivato quel punto di svolta in cui ho capito dove stava andando, e mi sono detto: “Oh, merda!”. È stato uno di quei momenti in cui il film si è rivelato da solo, con quel tono un po’ barocco, o come lo vogliamo chiamare, mescolato a un umorismo cupo e inquieto.

Daniel: Ha sorpreso entrambi, sicuramente (ride). L’ho imparato osservando la mamma di Ronan. Quando lavora e scrive qualcosa, parla molto da sola. Credo che i personaggi semplicemente si annuncino in qualche modo. Quello è stato senza dubbio un grande momento in cui ho sentito Ray annunciarsi a me. Il problema, naturalmente, è che una volta che avevamo quello, era un po’ come dire: “Ok, fantastico, ma… cos’è esattamente? E adesso che facciamo?” (ride), “Dove andiamo a parare?”. Mentre improvvisavo, continuavo ad aspettare che Ronan mi dicesse: “No, fermati… non possiamo metterlo!”

Ronan: “Vai avanti. Continua!!!”.

Com’è Ronan come regista?

Daniel: Oh, Dio, ci sarebbero così tante cose da dire, ma… (Guarda Ronan. Entrambi scoppiano a ridere).

Ronan: Vai, dillo.

Daniel e Ronan Day-Lewis sul set. Foto: Maria Lax/Focus Features

Daniel: Quando qualcuno mi chiede di questo o quel regista, io penso sempre al set. Che tipo di set è? Penso che la gente immagini che il regista passi tutto il tempo a dire agli altri cosa fare. E non è che non ci sia anche quello: mille domande su questo o quel dettaglio, il costume, la luce o altro, a cui bisogna rispondere. Ma io credo di aver sempre trovato più affascinante lavorare con qualcuno capace di creare un ambiente di lavoro molto particolare. E non che avessi dubbi sul fatto che avremmo avuto un buon set, ma è una cosa preziosa, a cui solo il regista può dare vita.

Intendi la struttura del set?

Daniel: Più che altro lo stabilire il campo di gioco. Creare qualcosa che permetta una libertà di espressione in cui tutto sia possibile. Non c’è niente che non dovresti provare. Gran parte delle discussioni pratiche le avevamo già fatte prima. Abbiamo parlato in anticipo di ogni aspetto, dal casting ai capi reparto fino a tutto il resto. Ma quando siamo arrivati sul set, le note di Ronan erano sempre molto specifiche. Non erano mai letterali, che è… insomma, non c’è niente di peggio di una nota maledettamente letterale. Tutte le osservazione devono arrivare in qualche modo da un’angolazione leggermente obliqua. Ma era un ambiente in cui la gente stava bene, in cui tutti venivano trattati con gentilezza, e dove ognuno poteva dare il meglio di sé. E naturalmente, ne ero molto orgoglioso.

Immagino che – come interprete che era riluttante a tornare sotto i riflettori, e sapendo che con questo film saresti stato comunque costretto a farlo – deve averti alleggerito un po’ l’ansia sapere: “Ok, qui ho la possibilità di provare cose. Ho la libertà di essere creativo. C’è un senso di sicurezza, dopo tanto tempo lontano da tutto questo”.

Daniel: Assolutamente. Hai ragione. Non importava se fosse un set esteso all’aperto, sulle colline o sulla spiaggia, o il set molto contenuto all’interno del capanno. C’era sempre un senso di intimità tra le persone coinvolte nel lavoro. Vorresti che fosse un prerequisito in ogni esperienza lavorativa, ma non lo è. Ho detto a Ronan: “Guarda, non sarà sempre così. Ma se ti rimane anche solo una volta il ricordo di aver avuto quell’esperienza in questo modo, dove tutti i capi reparto e chi lavora con loro sembrano voler fare la stessa cosa nello stesso momento e per le ragioni giuste, allora te lo porterai dietro. Lo cercherai. E se lo cercherai, lo ritroverai. Lo creerai di nuovo”. Voglio dire, e non lo dico soltanto per ovvi motivi, ma quella dimensione l’ha creata Ronan. Eravamo un gruppo molto unito, tutti insieme in questo lavoro, e so che tutti i reparti lo hanno sentito in modo molto forte.

Ronan, Daniel accettava le tue note?

Ronan: Penso che parte del lavoro del regista sia sapere quando dare una nota e quando invece stare zitto e lasciar provare qualcuno. Ho cercato di fare in modo che le mie note fossero davvero specifiche. Avevamo parlato così tanto di ogni aspetto del personaggio e praticamente di ogni scena durante la scrittura che una volta arrivati sul set avevamo un’intesa tale sul personaggio e su quel mondo che la questione era più trovare il tono giusto.

È una storia sull’eredità dei padri nei confronti dei figli, realizzata da un padre e da suo figlio. Non temete che qualcuno possa pensare che…

Ronan: … che sia autobiografico? No. Non c’è nulla di esplicitamente autobiografico, e l’idea dei “peccati del padre”, eccetera, è molto archetipica. Ma esiste questo mistero della vita passata dei tuoi genitori, soprattutto quella di tuo padre: questa ossessione simultanea di voler conoscere davvero qualcuno e al tempo stesso non riuscirci mai del tutto. O di ritrovarti a diventare i tuoi genitori in modi che nemmeno comprendi. Non che io senta che…

Daniel: Va bene! (ride) Sai cosa vorresti insegnare ai tuoi figli, ma non puoi necessariamente presumere che quelle cose vengano assimilate o imparate. Voglio dire, noi siamo molto legati…

Ronan: Lo siamo, sì.

Daniel: … e anche i miei genitori erano persone affettuose e buone. Ma mio padre per me era assenza. È morto quando ero giovane, ma molto prima di morire, già all’interno della famiglia era in gran parte distante dalla vita domestica, per via del lavoro che faceva e anche per la natura dei tempi. Sai, un’altra generazione… Il mio dialogo con mio padre è con qualcuno che non conoscerò mai, e che non potrà mai essere risolto. Quindi, sebbene supponga che anche Ro potrebbe dire che, sotto certi aspetti, io gli resto sconosciuto, la verità è che noi siamo presenti nelle vite l’uno dell’altro in un modo completamente diverso. Non ci avevo mai riflettuto prima, ma proprio a causa della relativa assenza di mio padre, negli ultimi anni della sua vita sono stato molto vicino a mio nonno (Michael Balcon, fondatore degli Ealing Studios). Quando ero bambino aveva già smesso da tempo di fare cinema. Ma appena ho iniziato a scoprire abbastanza presto i suoi film, sono diventato molto curioso di quel mondo di cui lui aveva fatto parte.

C’è stato un film in particolare che aveva realizzato e che ti ha colpito da giovane?

Daniel: Be’, suppongo che le commedie Ealing siano le cose più ovvie, e anche i film di guerra: Mare crudele, È andata bene la giornata?. Quelli sono stati i primi lavori che ho scoperto, con grande stupore. Ma era anche una persona che rimaneva molto in contatto con i giovani registi. Amava i giovani. Ed era molto importante per me. Prestava attenzione alla mia generazione e a quello che volevamo fare. Molti giovani registi andavano a trovarlo. Ma quando mi sono trovato a un bivio, finita la scuola, e lui sapeva che ero interessato sia alla falegnameria sia forse al cinema, la sua curiosità e il suo incoraggiamento hanno significato tantissimo per me. Hanno fatto una grande differenza nella mia vita.

Ronan, tu riesci a guardare i film di tuo padre con un minimo di oggettività?

Ronan: È così strano guardare i suoi film, perché è come vedere due persone sovrapposte l’una all’altra. Ovviamente, in ognuno dei suoi film, lui è così profondamente dentro al personaggio. Ma il tuo cervello non può fare a meno di registrarlo come una specie di doppio effetto, in cui stai anche guardando qualcuno che conosci benissimo. È un’esperienza strana, ma interessante. Mi sembra che ogni volta che ho visto uno dei suoi film, la volta successiva che l’ho incontrato di persona c’è stata questa sensazione inquietante, tipo: “Aspetta un attimo. Tu non sei Bill the Butcher”.

“Non era forse il tizio con i baffi e l’occhio di vetro che mi ha preparato la colazione l’altra mattina?”.

Ronan: (ride) Esatto!

Daniel e Ronan Day-Lewis. Foto: Sacha Lecca

Daniel: Quando Rebecca e io stavamo girando La storia di Jack & Rose, eravamo tutti insieme sul set. Ronan era solo un bambino; suo fratello minore Cashel mosse i primi passi sull’Isola del Principe Edoardo. Correva in giro come un piccolo selvaggio sulla spiaggia mentre noi stavamo girando. Ma io ero lì già dalle prime fasi della produzione, perché lavoravo con la crew che costruiva la scenografia, imparavo a mettere in piedi una casa e a fare mobili. Pare che qualcuno abbia chiesto a Ro: “Allora, che lavoro fa tuo padre?”, e lui abbia risposto: “Non lo so, credo che faccia il muratore…” (ride)

Ronan: A dire il vero avevo cinque anni.

Ronan, hai parlato spesso di come il paesaggio americano abbia avuto un grande peso nel tuo modo di dipingere, e di come molto di ciò derivi dall’essere stato bambino sul set a Marfa, in Texas…

Ronan: Per Il petroliere, sì. Avevo circa sette, otto anni. E quell’esperienza mi ha davvero segnato. Ricordo benissimo di essere stato sul set sia di quel film che di Jack & Rose. Furono due esperienze precoci in cui pensai subito: “Oh mio Dio. È pazzesco, questa costruzione di un intero mondo che è reale e al tempo stesso non lo è”. Entrambi i set erano così immersivi! Tipo, in Jack & Rose avevano costruito questa casa-comune incastonata in una collina, con l’erba che cresceva sul tetto. E poi Il petroliere, ovviamente, era una cosa gigantesca. Ricordo un giorno in cui giravate la scena del treno che lasciava una stazione, o forse che entrava in stazione, e io rimasi sbalordito.

Daniel: Mi ricordo quel giorno, e che tu eri lì. Sì, è sicuramente qualcosa che abbiamo fatto bene, in termini di lavoro e famiglia. Ne ero molto consapevole proprio a causa della mia infanzia frammentata. (Rebecca e io) decidemmo abbastanza presto che solo uno di noi avrebbe lavorato in un dato momento, a meno che non stessimo lavorando insieme. E se capitava durante l’anno scolastico, facevamo homeschooling e portavamo i bambini con noi. Così ci siamo ritagliati, sai, qualche anno meraviglioso in cui siamo rimasti tutti uniti. Spero che sia stata una cosa che ha contribuito, in qualche modo, a nutrire la vita dei nostri figli.

Ronan: Penso che la cosa bella fosse che era tutto molto organico, e si combinava con il fatto che ci facevate vedere film e altre cose. Era quasi più un assorbire questi aspetti delle vostre vite e del vostro lavoro, anziché un insegnamento esplicito. Ma sì, quelle esperienze hanno lasciato un segno enorme e duraturo.

Daniel: Diventa difficile, però, perché crescendo ovviamente si sono costruiti le loro vite, la scuola è diventata molto più complicata per via degli impegni, e poi le attività extrascolastiche. Ci sono state occasioni in cui soprattutto io lavoravo in trasferta, e fu una brutta esperienza. Non mi piaceva proprio. Quando sei un giovane attore, ovviamente, chiudi la porta e sparisci per sei mesi, e chissenefrega. Ma dopo essere diventato padre, quella cosa di stare lontano da loro per lunghi periodi non funzionava più per me.

Ronan: Credo che l’unica volta che mi viene in mente, in particolare, fu quando giravi Nine: lì sembrò davvero un periodo lungo…

Daniel: Già, e anche Lincoln.

Ronan: Ah, giusto.

Daniel: Non è successo poi così spesso, ma… stai dicendo che non era così terribile? Cioè, forse era più che altro che non vedevano l’ora di liberarsi di me! (ride) “Dio mio, ma se ne andrà mai?”.

Ronan: No, no! Ricordo solo che mi era sembrato che fossi stato via a lungo per Nine. Quel momento fu duro.

Dopo aver realizzato questo film insieme, pensate di vedere diversamente quello che fa l’altro?

Ronan: È interessante, direi sì e no. Crescendo, il suo lavoro ha sempre avuto per me un’aura di mistero, e c’era qualcosa di affascinante in tutto ciò che faceva dietro quel sipario. Davo per scontato che lavorando insieme quel sipario si sarebbe alzato, e in molti modi è stato così, nel processo di sviluppo di questo personaggio insieme, nel costruire questo mondo insieme, e ovviamente lavorando fianco a fianco sul set. Ma ci sono anche aspetti del suo processo che restano per me inaccessibili, e questa è una cosa che adoro: c’è un’alchimia che, una volta arrivati sul set, è stato davvero entusiasmante poter semplicemente assecondare. Non potevamo adagiarci sul fatto che avevamo già avuto così tante conversazioni illuminanti in fase di preparazione.

Daniel: Ma poi, quando è arrivato il momento…

Ronan: … abbiamo potuto davvero lasciarci andare all’intuizione e semplicemente farlo. Grazie, papà.

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