Pare che le cose migliori nascano in un garage. Di Palermo, per un gioco serio. «Avevamo quest’idea che ruotava attorno ai comici falliti, che non facevano ridere. Delle brevi clip animate per YouTube come esercizio, una cosa nostra ma fatta bene». Mi parlano in due. Insieme si chiamano Megadrago, divisi sono Salvo Di Paola e Nicolò Cuccì, rispettivamente classe ’95 e ’97. Si conoscono al liceo e lo capiscono: vogliono sperimentare insieme, vogliono fare l’animazione.
Ci colleghiamo da due bus differenti e un appartamento di Milano mentre i ragazzi si spostano dall’ultimo incontro promozionale per Il Baracchino, la serie animata che hanno creato per Prime Video. Ok, ce l’hanno fatta, verrebbe da dire. L’animazione per adulti non ha vita facile, in Italia. Ci siamo ricordati collettivamente della sua esistenza, e pure a livelli alti, con le serie di Zerocalcare per Netflix, Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo. Mentre parliamo Il Baracchino è al numero 2 delle serie italiane su Prime.

Nicolò Cuccì e Salvo Di Paola. Foto: press
«È una sensazione strana, la gente lo sta guardando e si fa le battute. Ci stiamo ancora abituando, sembra uno scherzo». Salvo e Nicolò hanno cominciato facendosi le loro cose in casa. Intanto lavorano per la pubblicità, cominciano a sviluppare i germi del Baracchino. Erano studi sui personaggi, in origine. «Poi abbiamo provato a inviare alcuni sketch ai comici che avremmo immaginato dar loro voce. Abbiamo scritto loro su Instagram, miracolosamente ci hanno risposto. Così abbiamo cominciato a sviluppare i personaggi insieme a loro». Poi è arrivata la struttura narrativa intorno.
Quello che vediamo sulla piattaforma è una stagione in sei episodi (sta arrivando la seconda, spoiler) ambientata in un locale di stand-up prossimo alla chiusura. Generazioni di vecchi e nuovi comici si alternano sul palco e provano a saltarci fuori tra tragicommedia e battute che potreste tranquillamente rigiocarvi alla prossima cena tra amici. La vicenda ruota attorno a Maurizio, il proprietario del locale, e Claudia, nipote di una star della stand-up che si esibiva al Baracchino, detentrice della “battuta perfetta”. Claudia, però, non dimostra il suo stesso talento. È un’art director che non ha ancora abbandonato “il sogno”, e decide di organizzare una serata open mic per provare a ristabilire le sorti del locale.
Si apre un mondo alla Bojack Horseman misto umano, animali e creature fantastiche (tipo: un donut che fa battute sull’eiaculazione maschile). Le tecniche di animazione sono molteplici, tenute insieme grazie a Blender, un software gratuito usato anche dal creatore di Flow, il lungometraggio animato vincitore di un Oscar quest’anno. Le voci, invece, sono quelle di Pilar Fogliati, Lillo Petrolo, Pietro Sermonti, Frank Matano, Edoardo Ferrario, Stefano Rapone, Luca Ravenna, Daniele Tinti, Michela Giraud, Yoko Yamada e dello stesso Di Paola.
«Le cose si sono fatte serie quando, dopo aver accettato un lavoro per Lucky Red come montatore, una dei miei colleghi mi ha proposto di fare un vero pitch alla produzione del progetto che avevo con Nicolò. È piaciuto, è iniziato lo sviluppo. Si parla comunque di quattro, cinque anni fa». Continuano: «Nella serie c’è finita un sacco di vita. Animavamo e scrivevamo allo stesso tempo, ci ha accompagnato per un sacco di tempo». Quando creano, dice Salvo, Nicolò è quello bravo, lui è un pagliaccio. Ma dei comici non ci si può fidare, anche perché, nel frattempo, Salvo ha intrapreso una carriera collaterale come stand-up comedian.
Il Baracchino è un posto fumoso, dove l’azione si svolge in bianco e nero. Non sfigurerebbe nella prima stagione della Fantastica signora Maisel, guarda caso sempre su Prime, quando Miriam si addentra nel ventre notturno della comicità newyorchese. Per nulla italiano, per citare Stanis La Rochelle. «La stand-up comedy è cresciuta anche in Italia, negli ultimi anni, non è una dimensione segreta, è stata sdoganata». Per questo funziona, quando ti ritrovi nel Baracchino. Non ti sembra una forzatura, è verosimile essere in Italia.
«E poi tutti i comici sono accomunati dall’essere persone tristi». Anzi, meglio specificare: «Nessuno si stupisce se un meccanico è triste, ma se un clown è triste sembra fuori posto. In realtà bisognerebbe parlare meglio di questa tristezza, nel senso che non è disperarsi, ma essere in contatto con le proprie emozioni sottili. Devi scavare, tirare fuori le cose difficili. È voler capire come funziona questa matta cosa del vivere».
Non è una cattiva definizione. Soprattutto quando si tratta di capire delle cose, anche all’atto pratico, in un ambiente artistico che non sembra avere molti maestri o padri nobili, in Italia. «È difficile e fa un po’ paura. Senti che stai sfondando delle barriere ma non capisci nemmeno bene quali. Per fare le cose strettamente parlando non hai bisogno di esempi, chiaramente, puoi anche solo farle come vuoi. La cosa che si sente di più magari è la mancanza di una storia produttiva equivalente, un esempio a cui si possa guardare per capire come hanno fatto le cose gli altri. Anche lì magari è stata una mezza fortuna, abbiamo potuto fare i matti. Nessuno sapeva come si faceva, potevamo inventarci noi una strada».
Hanno paura di rimanere una meteora, dicono i ragazzi. L’animazione per adulti si può fare, loro e altri ne sono stati la prova. Però, se non ci fosse il secondo giorno? «Almeno i riferimenti a livello di stili di animazione non ci sono mai mancati. Guardando fuori dall’Italia, ci sono tanti a cui ci ispiriamo, Il Baracchino è pieno di riferimenti. Un esempio, il modo in cui si muovono le bocche dei personaggi viene da Galline in fuga». E per la scrittura, «soprattutto The Office. Alla fine vuole essere un mockumentary su dei comici scarsi, avevamo iniziato a pitcharlo così. E poi Fleabag per la poetica della tristezza, e quella certa vivisezione di sentimenti difficili».
Salvo era ossessionato da Bo Burnham, «un bellissimo talento nel rendere stupida la tristezza», e ha capito che con Il Baracchino voleva anche farci piangere. Ha deciso con Nicolò di premere l’acceleratore sul tema della morte e della perdita. Nicolò ha perso il padre durante lo sviluppo, Salvo il nonno. Tante cose tanto dense, tutte insieme. In più «a venticinque anni sai che vuoi essere qualcosa, ma non sai bene che cosa. Hai un desiderio bruciante e non sai come indirizzarlo».
Viene da pensare che, ora che i ragazzi ce l’hanno fatta, qualcuno più giovane di loro dovrebbe già scalpitare, rubare, copiare. «Io sono già vecchio», così dice Salvo, «mi dovrebbero già uccidere, artisticamente parlando. Poi non sono sicuro di essere una success story, ancora. Per ora è successa una cosa fortunata unita al culo-paiolo che ci siamo fatti. Però non vorrei che le persone ci vedessero come quelli che sono arrivati al traguardo. Vorrei che fossero lì a fare il tifo per noi».
Nicolò aggiunge: «Qualcuno ci sta scrivendo su Instagram. Ci sono un sacco di animatori in Italia, o di persone che vorrebbero essere animatori. Magari tanti lavorano sui prodotti per bambini e dopo un po’ viene a noia. Megadrago è un esperimento, non vogliamo dire che siamo già i nuovi megatop». Però c’è stato un momento, dice Salvo, quello in cui hanno visto che i loro collaboratori sul progetto erano davvero entusiasti, gasati. Quello allora dà speranza.
«La gente è affamata di novità di questo tipo, in questo settore. Vogliono vedere qualcosa che non sia il sequel di qualcosa d’altro». Ci sono altri progetti per Megadrago, oltre la seconda stagione. Anche un lungometraggio, anzi più d’uno, ma meglio non esagerare a parlare in questi casi.
A me comunque del Baracchino è rimasta impressa una cosa: il cecchino della minchiata. «Il cecchino della minchiata può essere chiunque di noi. È sapere che cosa fa ridere davvero i tuoi amici, in quale momento, con quale tempo comico. Così fai la battuta perfetta, sempre».
Ecco, a proposito: ma me la lasciano una battuta, prima di andare? Mi maledicono e mi regalano la peggiore di tutti i tempi: un uomo entra in un caffè, splash.