Ha vinto lui, con Kabul. E non poteva essere altrimenti. In gara all’Italian Global Series Festival, dove si è aggiudicato lo Special Jury Prize nella sezione International Competition Limited Series (se non si è capito, agli organizzatori APA, AGIS, Cinecittà e Ministero della Cultura piace tanto l’inglesw), Gianmarco Saurino è planato in Riviera romagnola con una serie tv che è un colpo al cuore, alla pancia e a qualsiasi cosa sia rimasto di senziente dentro di noi. La inizi a guardare con quell’entusiasmo che può suscitare una miniserie sulla guerra (leggi: poco e niente), e finisci per alzarti dalla sedia sconvolto, commosso, con in testa una sola frase: “Che diamine stiamo facendo?”.
Lo pensi per quello che hai appena visto in quelle quattro ore scarse (sono 4 puntate), ma anche per tutto quello che ci circonda. Come si può intuire dal titolo, Kabul parla della presa della città da parte dei talebani della città, ma non come ce lo si potrebbe immaginare. Anziché catapultarci in una trincea di valutazioni politiche, schieramenti e retorica – il pane quotidiano dei talk show –, Kabul ti prende per mano e ti dice: “Vieni un po’ a vedere”. Quello che ti mostra è quello che avevamo intercettato, più o meno distrattamente, nei Tg o sui social, e che qui invece diventa profondissimo, duro, impossibile da ignorare.

Gianmarco Saurino (alias Tommaso Claudi) in ‘Kabul’. Foto: Rai
Prima ancora che dalla storia di Saurino, nei panni del protagonista Tommaso Claudi, il console italiano che è stato realmente mollato da solo a Kabul, si viene travolti dalla storia di un popolo schiacciato dal senso di impotenza, dalle violenze. Donne violate, bambini orfani, diritti negati: è la storia della Kabul del 2021 ma anche la cronaca di oggi. Non è fiction, non è period drama, ma è qualcosa che ti interpella adesso e fa quello che ormai non riesce più a nessuno: scuotere le coscienze. Per dire, a un certo punto un’infermiera afghana di cui non conosci la storia, il nome, niente di niente, dice alla co-protagonista: “Sono arrabbiata con i talebani che ci hanno invaso; con il governo che è corrotto; con gli americani che in tutti questi anni non hanno fatto nulla; e con gli europei che li hanno sostenuti. Ma questa rabbia non cambierà nulla. Siamo impotenti. Non c’è speranza”. E di colpo lei diventa il volto che ti inchioda alla sedia. Quello che doveva essere solo il contorno di un biopic finisce per prendersi tutta la scena, perché quello che è successo sono un dolore e un’ingiustizia troppo grandi da contenere in una sequenza.
Non ci sono solo la famiglia afghana che cerca di fuggire, il console Saurino bloccato a restare, o l’ex militare che scalpita per tornare a Kabul e salvare il suo superiore: c’è soprattutto la gente accalcata alle mura delle ambasciate che avevamo già visto ai Tg anni fa, che dovevamo già conoscere ma che in realtà non avevamo mai osservato con questo sguardo. Così arrivi alla fine e capisci che Saurino non è sicuramente più il maschio alfa della fiction («mamma mia, quanto odio le etichette») come ai tempi di Che Dio ci aiuti, né il nuovo attore impegnato della tv italiana («altra definizione che mi fa cagarissimo») ma il tuo personale Grillo parlante sexy. Tuo e di almeno tre servizi pubblici europei, visto che la serie è un titolo di Alleanza, ossia è co-prodotta dai servizi pubblici di Italia, Francia e Germania (un corale mea culpa storico?). In tv arriverà quest’autunno su… Rai 2. Già. A Viale Mazzini sanno sempre come “valorizzare” i propri prodotti: secondo alcune indiscrezioni, prima si parlava addirittura di Rai 3. Ma il solo fatto che non la schierino sulla meloniana Rai 1 la dice lunga su quanto il titolo possa essere scomodo.
Insomma, Gianmarco, sei il protagonista ma alla fine passi in secondo piano?
Sì, e mi va benissimo così. Sulla carta sono il protagonista perché questa è la storia di Claudi: quel console che tutti ricordiamo per quella foto che lo immortalava mentre prendeva un neonato dalle mani di una donna che si era arrampicata lungo le mura dell’aeroporto per salvare almeno il figlio. Di fatto però i veri protagonisti sono loro: la gente che non vedi, che non parla, a cui difficilmente viene data la parola. Io sono il “non protagonista principale”. Che poi è la cosa che cerco sempre di fare: mettermi al servizio della storia. Togliermi di mezzo. Quando poi, come in questo caso, mi imbruttiscono anche, sono ancora più felice: credo di performare molto meglio quando non c’è un discorso di immagine. Spesso ragioniamo in termini di star: la fiction con, la serie di. Invece quello che viene prima di tutto è la storia con il suo carico di personaggi.
Com’è stato aver sfiorato la guerra, anche solo per fiction?
Dopo tante storie dove morivo ammazzato – Doc, il film I viaggiatori, e anche in Lidia Poët non me la passo benissimo – qui sopravvivo (possiamo dirlo, visto che raccontiamo la storia del console italiano, che è vivo e vegeto in mezzo a noi, nda), ma me ne sono andato via dal set con la morte nel cuore. È stato pazzesco. I primi giorni avevo addirittura la febbre. Era tanto, troppo, perché era tutto vero. Tra l’altro molte comparse erano state lì: erano scappate dall’aeroporto di Kabul nel 2021. Stare in mezzo a loro mi ha dato la netta sensazione di far parte di qualcosa che era molto più grande, e importante, di me.
Davanti alle guerre spesso la nostra prima preoccupazione è la valutazione politica: capire dove dovremmo schierarci, chi ha torto e chi ha ragione. Qui si vede invece il Paese reale, schiacciato da un senso di impotenza: possiamo dire che Kabul è un bagno di realtà?
Indubbiamente. Le considerazioni politiche ci sono, ma sono lasciate alla fine: è prima di tutto una storia corale, piena di tantissimi punti di vista, a cominciare da quello del mio console che all’inizio si sente inadeguato, perché non sa a chi deve dare il passaporto e a chi no, ma alla fine, quando la situazione precipita, capisce che si tratta solo di guardare la gente negli occhi e dire loro: “Vieni via da qua”. Punto. Riconoscere il dolore degli altri ci rende più umani, ed è questo che forse è mancato nella gestione degli attuali conflitti. Ci siamo schierati tra curva nord e curva sud, ma la morte dei bambini e la violazione dei diritti umani non hanno bandiera, non hanno colore politico. Ci sono voluti 300mila probabili morti a Gaza per costringerci a non ignorare quello che accade lì: questo vuol dire che è da anni che stiamo sbagliando. L’arte è ormai l’ultimo baluardo che smuove le coscienze: l’informazione è faziosa, i politici dicono cose gravissime che però dimentichiamo subito, già dal giorno dopo. Tutto cambia, tutto va avanti come se niente fosse, o come se valesse tutto. Le serie tv possono, anzi, devono fare la differenza perché hanno il potere di farci fermare, di non rendere tutto uguale, restituendo alle parole e ai gesti il loro peso specifico.
Hai conosciuto Tommaso Claudi?
Avrei voluto tantissimo incontrarlo ma non è stato possibile. E dire che Tommaso è stato il primo a sostenere la serie: gli sceneggiatori francesi gli avevano mandato il copione, che si ispira appunto alla sua storia, e gli piaceva. Però si è sfilato, tant’è vero che il mio personaggio in Kabul si chiama Giovanni. Secondo me non si è esposto perché non voleva essere idolatrato come il salvatore delle persone. Dal suo punto di vista lui ha fatto semplicemente il suo lavoro. È una mia interpretazione, sia chiaro, ma penso sia andata proprio così, e questo la dice lunga sulla sua grandezza umana.
L’impotenza degli abitanti di Kabul è diventata anche l’impotenza di molti altri popoli: penso all’Ucraina, a Gaza… c’è ancora spazio per la speranza?
Stiamo lasciando da sole intere nazioni. Però confido molto nelle nuove generazioni.
Ma i giovani non sono al potere, non decidono le sorti del mondo…
Hanno però il voto. È l’ultimo potere che ci è rimasto, ma è il più grande di tutti: scegliere chi ci amministra. Spesso sento dire che “so’ tutti uguali, io non voto”: non è vero, non sono tutti uguali. Obama aveva firmato un patto con l’Iran, vincendo un Nobel per la Pace. Trump la prima cosa che ha fatto è stato stracciare questo patto. Bisogna votare, e secondo me i giovani si muoveranno meglio di noi. È fondamentale non perdere la speranza, perché è dal senso di impotenza che nascono i movimenti di pancia: il populismo ha le sue radici nel senso di frustrazione, i 5 Stelle sono sorti con il Vaffa Day… Non voglio fare l’hippie ma sono ottimista: i ragazzi di oggi sono molto più lucidi e preparati di quanto non fossimo noi alla loro età. Noi siamo cresciuti a pane e anti berlusconismo, come se il nemico da battere fosse solo uno. Loro no. Non hanno un solo rivale, o un capro espiatorio, e questo li rende più lucidi nelle valutazioni.
Ora però ti aspetta Call My Agent: finalmente un po’ di comedy?
Dopo aver combattuto per anni contro l’etichetta del “bello”, mi sono ritrovato incasellato come un attore impegnato quando in realtà io faccio semplicemente… l’attore. Ho preso quindi al volo la proposta di Call My Agent: sia un po’ per ricalibrare la mia immagine, sia perché è fondamentale imparare a prendersi meno sul serio. Interpreterò un nuovo agente, esterno, che entra nella CMA per ragioni di compravendita: sono il nemico da combattere. Quindi sarò un po’ dark, ma in un contesto molto leggero e ridanciano. Inoltre sarò a teatro con Scandalo, uno spettacolo sulle etichette perché racconta di un amore tra un uomo squattrinato e una donna più grande di lui (Anna Valle). Con relativi commenti della gente…

Foto: Benedetta Bressani/Getty Images
Rai 1 ha da poco trasmesso l’adattamento americano di Doc – Nelle tue mani: possiamo dire che stavolta l’Italia batte l’America?
Non ho visto il remake, ma dai commenti che ho sentito dire da amici e colleghi… sì, il vero cult è nostro.