Gianluca Zaccaria, e mi vengono i brividi | Rolling Stone Italia
Il cinema chiamò

Gianluca Zaccaria, e mi vengono i brividi

Anzi: il brivido. Quello che prova quando è a teatro o su un set. Dopo piccoli ruoli con Moretti e Bellocchio (e in attesa di nuovi grandi film) è ora in ‘Mameli’. La recitazione, la politica, gli inizi, il futuro. E il parkour: «Mi piace quando sei in volo, un attimo prima di cadere»

Gianluca Zaccaria, e mi vengono i brividi

Gianluca Zaccaria

Foto: Gianvincenzo Pugliese

Per tutti è un sacro fuoco. Ma non per Gianluca Zaccaria. Per lui l’arte è sempre stata un brivido: una fame di vita, una scossa di adrenalina, come quelle che provava, da ragazzino, quando faceva parkour e restava sospeso tra cielo e terra. Solo che sul palco quel brivido lì è amplificato: dura di più. È travolgente, viscerale, totale. E quando Gianluca Zaccaria ne parla, sembra quasi di sentirla, quella scossa di vita. Non importa quanto il ruolo che gli hanno affidato sia grande o piccolo: ogni volta per lui è un disvelamento. Una crescita. «E ho fatto solo l’1% di quello che vorrei fare», assicura. In realtà in quell’1% c’è già parecchia roba: a 29 anni l’attore, di origini bergamasche, ha esordito, con un piccolo ruolo, in Tre piani di Nanni Moretti e in Esterno notte di Marco Bellocchio, e poi lo abbiamo visto nella serie tv Il patriarca, accanto a Claudio Amendola. Probabilmente lo avrete anche incrociato in questi giorni su Rai 1, mentre stavate smaltendo la sbornia sanremese, perché è nel cast della miniserie Mameli, in onda il 12 e 13 febbraio. Qui interpreta Francesco Castiglione, un giovane altoborghese che si unisce alla causa di Mameli e prende parte all’Entelema. Prossimamente sarà in Iddu, biopic su Matteo Messina Denaro al fianco di Elio Germano e Toni Servillo, nonché nel film di Gianni Amelio Campo di battaglia, al fianco di Alessandro Borghi.

Sicuro di essere solo all’1%?
Sì, sono assolutamente all’inizio.

Di certo ora sei diventato uno dei pochi italiani che sanno cantare, correttamente, l’inno a memoria…
Guarda, se vuoi te lo intono pure al contrario! (ride) Di certo prima lo conoscevo in qualità di “tifoso da stadio”, ora invece ne ho una consapevolezza diversa.

Il tuo personaggio appartiene all’Entelema: un gruppo di giovani combattenti disposti a dare la loro stessa vita per un ideale. Oggi prevale invece un senso di disillusione rispetto al futuro del Paese?
Purtroppo sì. E non solo in Italia. A dominare, un po’ ovunque, è un generale individualismo: la persona è al centro di tutto, a discapito di discorsi comunitari. Per questo ho sposato il progetto Mameli: spero che possa essere di ispirazione per i giovani e creare una diversa coscienza collettiva. Anche perché mi fa un sacco arrabbiare quest’idea che i ragazzi di oggi siano sempre visti come inadempienti, mai pronti. Ci dicono sempre che dobbiamo aspettare, che non siamo all’altezza. Invece no, cavoli, no! Possiamo anche noi dire la nostra e cambiare il mondo. E poi sai una cosa?

Foto: Gianvincenzo Pugliese

Dimmi.
Mi piace anche questa nuova definizione di patria proposta dalla miniserie.

In che senso?
Mameli e i ragazzi dell’Entelema volevano l’Unità d’Italia, ma poi questo nuovo popolo doveva cooperare con le altre nazioni. Non scontrarsi con esse. Ecco, mi piacerebbe molto se nascesse un’idea di patriottismo nuovo: sano, come quello dell’epoca. Io, per dire, mi sento un cittadino del mondo: nutro un certo orgoglio europeo, oltre che italiano, perché sono convinto che le differenze culturali siano un arricchimento.

La politica ti appassiona?
Sì, abbastanza. Ma al di là di tutto credo che sia un dovere interessarsene. Magari da ragazzino ci sta che sei un po’ distratto, ma poi crescendo la politica investe ogni ambito della tua vita, soprattutto lavorativo.

Quindi voti?
Certo. Assolutamente.

Della serie: scelgo il meno peggio?
Questa frase la sento dire spesso, ma posso dirti la verità? È una logica sbagliata. Se è così, allora abbiamo un problema, e bello grosso. Io voto ogni volta l’esponente che mi convince di più e nel quale mi riconosco meglio. Non è facile, ma è uno sforzo doveroso.

Veniamo a te. Nasci a Bergamo, tuo papà è calabrese e tua mamma molisana. Quindi il Molise esiste? Confermi?
Confermo, confermo… esiste e resiste! (ride) È una regione piccola ma bellissima, che purtroppo è molto sottovalutata. Ho un sacco di parenti lì anche se, dopo la morte dei nonni, mi capita di andarci meno.

Che tipo di bambino eri?
Ai colloqui con i genitori, gli insegnanti dicevano ai miei: “Gianluca è un bambino simpatico ma un rompiscatole incredibile”. Ed era vero: facevo sempre il giullare. All’inizio non andavo nemmeno molto bene a scuola: sono cambiato solo quando è arrivata un’insegnante fantastica. Ricordo ancora il suo nome: Giuliana Durè. Lei era diversa: non ti considerava un numero, ma un essere umano. Grazie a lei mi sono riappassionato agli studi. Non che fossi diventato di colpo bravo, ma davo il mio massimo.

Poi, dopo il liceo?
Ho fatto subito le valigie. Intendiamoci: adoro i miei genitori, abbiamo un rapporto bellissimo, ma a 17 anni non vedevo l’ora di fare un’esperienza fuori. Pure adesso, che sto a Roma, scalpito per andare altrove, aprire nuovi orizzonti.

Nessuna remora a uscire dalla propria comfort zone?
Eh, ma è quel salto nel buio che ti permette di imparare e crescere. Bisogna buttarsi: se resti fermo impari ben poco. E poi io sono una persona che si deve sempre testare, amo quel brivido della sensazione nuova.

Gianluca Zaccaria in ‘Mameli’. Foto: Rai

Ho capito, sei un tipo da sport estremi.
Nì. Se mi dici “fai bungee jumping” non accetterò mai, però da ragazzo ero in fissa con il parkour. Passavo il tempo a saltare da una parte all’altra… mi piaceva il brivido di quella sospensione, quando sei in volo, sollevato da terra, un attimo prima di cadere.

Ti sei mai fatto male?
Una volta ero a Firenze, con i miei amici e la ragazza dell’epoca. Saltai una staccionata: roba da poco, tipo un metro. Una cazzata per i miei standard, eppure mi sono fatto malissimo, avevo tutta la gamba scorticata. Lì ho pensato: forse sto diventando vecchio. E allora sono passato all’acrobatica, con i tappetini e tutto il resto. È un po’ più safe.

Quando hai deciso di fare l’attore?
A 17 anni. Ero in crisi: lo spirito del liceo scientifico non mi apparteneva, volevo provare qualcosa di nuovo. Così mi sono iscritto a un corso di recitazione e lì ho capito. Stare sul palco è una delle situazioni più adrenaliniche che esistano… è un misto tra gioia, ansia, paura, euforia. Finito il liceo ho quindi deciso di fare il Centro Sperimentale a Roma. I miei non mi hanno ostacolato, anche perché papà è un grande appassionato di cinema, perfino più di me.

Bergamo-Roma è un bel salto: com’è andata?
Mi è cambiata la vita. Bergamo è una bellissima cittadina, con una determinata mentalità e determinati spazi. A Roma invece c’erano questi viali sconfinati, mi sembrava di essere stato catapultato in un regno. Ci ho impiegato due anni per ambientarmi. Ora ovviamente l’adoro. Di Roma mi piace in particolare il modo di interagire con l’altro che, per come sono fatto io, funziona di più: c’è molta vita da strada, puoi prenderti una birretta fuori, fumarti una sigaretta con gente nuova, ribeccarla in qualche locale…

Parli di Roma Nord o Roma Sud?
Scherzi? Piazza Vittorio state of mind!

Al Centro Sperimentale hai conosciuto Matteo Paolillo, star di Mare fuori. Siete amici?
Matteo è un grande! Ci siamo presi subito, abbiamo fatto anche le vacanze insieme. Siamo amici anche se adesso, per ragioni logistiche, ci frequentiamo meno.

Un po’ ti rosica non aver avuto un analogo successo mainstream come il suo?
No, non rosico, sono solo felice per lui. Se dovesse arrivare un exploit simile anche per me, sarebbe ovviamente molto bello, ma devo dire che sono assai felice dei progetti che mi sono stati offerti finora. È una bella onda che cavalco volentieri.

La fama è una seduzione o un male necessario di cui faresti volentieri a meno?
Non siamo ipocriti: l’attore vuole essere visto. Quindi in parte è una seduzione. Però io recito perché amo il cinema, e credo che stare sul palco sia un modo per esprimere me stesso.

Foto: Gianvincenzo Pugliese

Hai lavorato con molti registi di chiara fama: chi era il più paterno? Chi il più esigente? E il più simpatico?
Paterni e simpatici sono stati Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, registi di Iddu. Sono diventate due figure di riferimento per me. Claudio Amendola invece è un regista che sa esattamente cosa vuole e come ottenerlo nel più breve tempo possibile. Con Nanni Moretti ho fatto un ruolo molto piccolo ma è stata una gigantesca palestra: era la mia prima esperienza su un set cinematografico ed ero agitatissimo. Mi ripetevo: “Dài, Gianluca, svegliati! Dài, cazzo!”. Non riuscivo a capacitarmi di essere lì. Con Marco Bellocchio ho invece imparato ad affidarmi: mi diede delle indicazioni che io onestamente non capivo, ma che seguii. Poi, quando ho visto il film, ho colto il senso dei suoi suggerimenti, che erano – ovviamente – azzeccatissimi.

Ora ti manca solo di fare il restante 99%. Se avessi carta bianca, cosa metteresti in cima alla lista?
Ah guarda, se posso volare alto ti rispondo: un film con Martin Scorsese. Ci andrei pure gratis… anzi, lo pagherei io, ma non più di cinque, sei euro, altrimenti vado fuori budget! Battuta a parte, vorrei solo “ruoli per la vita”: quelli per i quali dai l’anima e che ti insegnano a fare questo mestiere sempre meglio. Come è successo finora.

E il brivido.
Sì, il brivido.

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