Gian Marco Tognazzi, allenarsi alla vita | Rolling Stone Italia
Interviste

Gian Marco Tognazzi, allenarsi alla vita

E al mestiere d’attore, passato da ossessione a divertimento. Vedi l’ultimo ruolo: Luciano Spalletti nella serie su Totti ‘Speravo de morì prima’. Una lunga chiacchierata con Gimbo: i pregiudizi sui ‘figli di’, la passione per il vino, il momento più importante della sua carriera. E Ugo, come lo chiama (anche) lui

Gian Marco Tognazzi, allenarsi alla vita

Gian Marco Tognazzi è Luciano Spalletti nella serie ‘Speravo de morì prima’

Foto: Sky

Mentre continua a cascare la linea – «Sono in macchina, è colpa delle gallerie, sono gli inconvenienti del vivere in campagna»: ma ci arriveremo, letteralmente, poi – sbrighiamo i convenevoli: come sei bravo, che bella Speravo de morì prima, che due palle quelli che si fermano a “gli assomiglia, non gli assomiglia”. «A me piace veramente moltissimo», mi viene dietro Gian Marco Tognazzi detto Gimbo, che nella serie su Totti ora su Sky fa Luciano Spalletti. «Ci abbiamo messo del nostro per cercare l’anima al di là dell’imitazione. Infatti mi dispiace quando sento i commenti di chi si fissa solo su quanto assomigliamo ai personaggi veri, lo trovo veramente di una superficialità… Dopo cinque minuti te ne freghi altamente se Pietro (Castellitto, nda) assomiglia o no a Totti, perché gli prende l’anima, il ritmo, il modo di parlare».

Lo fai pure tu con Spalletti.
«Anch’io non è che faccio Spalletti, è chiaro che la mia è una rivisitazione. Ci sono gli spettatori, i tifosi, gli addetti ai lavori: ognuno ha il suo tipo di aspettativa, ognuno la prende a suo modo. Chi vorrà rivelazioni di carattere puramente gossipparo, inteso come “cosa si sono detti Spalletti e Totti più di quello che già si sapeva e che c’è anche nel libro” (Un Capitano, scritto da Totti con Paolo Condò e alla base della serie, nda) non le avrà. Non è questo lo scopo. La serie sta nei rapporti interpersonali di Totti con tutto ciò che lo ha circondato in quei due anni, nel momento in cui doveva decidere se chiudere o meno la sua carriera. Il problema vero – e lo dico da romano, quindi è un’autocritica – è che molto spesso a Roma fai una cosa e va sempre bene il contrario de quello che hai fatto. La cosa bella è che Totti, attraverso il libro, ha regalato la sua intimità, e noi è quell’intimità che abbiamo cercato di riportare. Io ho cercato di trovare il senso più uniforme di quei due anni vissuti da Spalletti, e l’ho individuato nel disagio. Ma non il disagio verso Totti: il disagio nel dover accettare una nuova sfida, dopo gli ottimi risultati ottenuti, e nel dover mettere al centro Totti anche passando sopra al suo credo calcistico, che è sempre stato privilegiare il gruppo rispetto al singolo. E, poi, anche un disagio generalizzato, perché Spalletti si è trovato a gestire una squadra, un gruppo e una società che avevano tutte un problema di compattezza. Ho individuato un’incomunicabilità dove contano di più gli sguardi, i silenzi, la sofferenza nelle decisioni. Farlo solo cattivo mi sembrava un’analisi un po’ superficiale. Al di là delle scelte, giuste o sbagliate che fossero, ci si è messo anche il caso, la fatalità.

Non per tirare fuori il solito, povero Shakespeare, ma c’è questo senso della tragedia, per quanto messa in scena coi modi della commedia all’italiana.
C’è, è vero, forse anche perché tra i due c’era stato un grande amore professionale. E quando ritrovi un amore che si è chiuso con dei non detti, dei malintesi, quando lo riprendi e devi basarci tutta una nuova esperienza… Ecco, lì sta il casino. Penso di aver affrontato Spalletti molto onestamente, rispettandolo, approfondendo il suo pensiero. Poi, non essendo un tifoso della Roma, non sono stato a suo tempo coinvolto nel lacerante addio di Totti, non me la sono presa con Spalletti come quelli che lo consideravano l’uomo che aveva fatto smettere Totti, perciò l’ho affrontato in maniera molto più neutra.

Sei milanista, giusto?
Non è che sono milanista: sono un malato di Milan. So bene cos’è l’emotività di un tifoso.

Gian Marco Tognazzi/Spalletti con Pietro Castellitto/Totti. Foto: Sky

C’è stato un transfert nei confronti di Pietro, come te – permettimi l’espressione – “figlio di”? Ci hai rivisto te stesso agli inizi?
Be’, a Pietro protagonista si aggiunge il fatto che io sono l’antagonista, e quindi inevitabilmente via con la nenia stucchevole che va avanti da quarant’anni, come se ci fosse una legge non scritta, come se il figlio d’arte debba essere inquadrato solo e unicamente come un raccomandato che non ha nessun tipo di merito se non il culo di essere figlio di qualcuno che lo impone. A parte che nessun attore in Italia può imporre né il figlio né chiunque altro, pensarlo vuol dire proprio non conoscere il mondo del cinema e della televisione: le raccomandazioni, nel nostro mestiere, sono di carattere non artistico, eventualmente. Però, siccome piace sempre lo scandalo, la polemica, il post indignato, metti uno più uno più uno – cioè Castellitto più Tognazzi più il “non gli assomiglia” – e viene fuori quel giudizio preconcetto e ridicolo. Ma tanto chi leggerà dirà: “Eh certo, lui dice così perché è come quell’altro”. Ormai non mi tocca neanche.

Prima sì?
Quando mi chiedono “Quanto ti pesa essere figlio d’arte?”, ormai rispondo: “A me non pesa, anzi è un onore. Piuttosto, quanto pesa agli altri?”. Perché così mi sembra. Quando fai passare qualcosa come una verità anche se non lo è – che tutti i figli d’arte siano raccomandati: e può esserlo in alcuni casi, pure tra i medici e gli avvocati, ma non è una regola – resta così radicata nel pensiero comune che a un certo tipo di pubblico non la levi più dalla testa, e di te lo penserà di default, anche prima di guardare il film o la serie, di vedere se sei stato bravo o no. Con questa serie è successo, hanno iniziato a insultarci quando sono uscite le prime foto, ricordo un tizio sotto un post di Sky che ce l’aveva con me e Pietro, e poi ha tirato in mezzo anche Amendola e Gassmann… Sono quei luoghi comuni cavalcati da sempre. Come quelli sul cinema italiano che non è mai all’altezza. Siccome per anni lo si è detto, e in alcuni casi anche a ragione, il pregiudizio resta, e si continua a ripetere questa cosa senza mai entrare nel merito dei budget, del fatto che cinema e cultura sono stati lasciati completamente in disparte come categoria, l’abbiamo visto anche durante la pandemia… I social hanno amplificato tutto, chiunque oggi parla senza avere i titoli per farlo, fosse per me vieterei proprio la possibilità di commentare. Se t’interessa quello che pubblico, mi leggi e stop. Nessuna interazione possibile.

Il mio pregiudizio positivo nei tuoi confronti è che tu ti diverta sempre, qualsiasi cosa faccia. Quando ti si vede in un film, che il ruolo sia grande o piccolo, cazzone o delicato come in questo caso, l’impressione, almeno la mia, è sempre quella.
È così, e ti dico anche quando questa cosa è avvenuta. C’è stato un periodo in cui mi prendevo molto sul serio nella preparazione dei personaggi, non che adesso non lo faccia più, però lo facevo in maniera quasi maniacale, era proprio un problema mio. E mi è servito moltissimo, per trovare varie strade. Per esempio, per un film assolutamente piccolissimo che si chiama Cecenia – un film su Antonio Russo, freelance di Radio Radicale che venne ucciso in Cecenia nel 2002 – feci un lavoro di immedesimazione e trasformazione fisica che fu molto impegnativo, e la più grande soddisfazione fu la lettera che mi scrisse la mamma di Antonio ringraziandomi per averle fatto rivivere suo figlio, e per me quello valse più di un David di Donatello, più di una bella critica… Dicevo, prima ero molto concentrato su questo tipo di lavoro. Da quando il mio lavoro è diventato un altro – perché ormai da dieci anni sono un vinificatore, il mio amore sono il vino e La Tognazza, la mia azienda – ho iniziato a provare un certo distacco per il mestiere dell’attore, e ho iniziato ad affrontare i ruoli con più divertimento e meno, come dire, ossessione. Grazie a questa leggerezza, il lavoro d’attore è diventato quasi più un hobby, e forse anche per questo – e grazie al film di Muccino (A casa tutti bene, nda), a Non ci resta che il crimine, ai personaggi che sono venuti dopo – si è riaccesa un’attenzione su di me che mi ha portato fino a Spalletti. È una cosa che dieci anni fa sarebbe stata più difficile, per una serie di opportunità che non mi erano state date: sono le opportunità che ti permettono di affrontare ruoli diversi. Però c’entra sicuramente anche il fatto che, avendo spostato l’attenzione su un’altra passione, io oggi riesco ad affrontare il lavoro sui personaggi con un divertimento diverso da prima.

Il vino è stato prima una passione da seguire o una via di fuga dalle opportunità mancate?
Tutte e due le cose. Volevo tornare a vivere in campagna, dove ero cresciuto. E avevo questa grande passione per il vino. Però vivevo il mio lavoro con, dicevo, una certa ossessione, perché le opportunità non arrivavano nonostante i complimenti, le tournée… Il panorama del cinema e della televisione è molto cambiato, un po’ per una riduzione del lavoro, un po’ per tanti altri motivi. Esistono periodi in cui gira e poi de botto non gira più, dalla mattina alla sera. E quindi, se quello diventa il tuo unico pensiero tutto il giorno, a un certo punto non riesci a capire se il problema sei tu, se non sei fortunato, se non sei bravo. Allora o sposti la tua attenzione o rischi, come tanti colleghi, di finire in depressione, non importa l’età che hai. L’attore è al servizio delle scelte degli altri, sei scelto dalla produzione, dal regista, sei un esecutore e puoi solo essere chiamato, non sei un musicista che si mette al piano e suona. A un certo punto le cose non succedevano come speravo e allora ho detto: sai che c’è? Al centro della mia vita metto una passione che mi consente di essere protagonista delle mie scelte. Perciò ho deciso di trasformare il gioco di mio padre, di tornare nelle vigne, di mettermi al servizio di una cosa di cui ero io l’artefice, il regista e il produttore. Paradossalmente, più la mia attenzione si è spostata su questo progetto – che poi mi ha dato delle soddisfazioni non grandi: grandissime – più sono arrivate le opportunità, una su tutte il film di Muccino.

Gian Marco Tognazzi con Gabriele Muccino e Giulia Michelini sul set di ‘A casa tutti bene’. Foto: 01 Distribution

A casa tutti bene è anche il film in cui sembri omaggiare i personaggi di tuo padre quasi abbracciando e liberandoti per sempre di quell’eterno confronto. O forse è un’idea mia.
In realtà il primo a vederci qualcosa è stato proprio Gabriele. Con lui c’è sempre stata una grande simpatia. Andai a vedere il suo primo film (Ecco fatto del 1998, nda) al Quattro Fontane, alla fine lo rincorsi per via Nazionale, lo fermai e gli feci moltissimi complimenti, gli dissi che un giorno avrei voluto lavorare con lui. Ci siamo incrociati negli anni ma non è mai avvenuto, poi lui è andato in America, ha fatto i film con Will Smith… Una mattina mi manda un messaggio privato su Twitter, “Ciao, è passato un sacco di tempo, non c’ho neanche più il tuo numero”. Io stavo in mezzo alle vigne, lo chiamo e lui subito mi parla di questo film e di questo personaggio che per suggestioni, per il disagio che prova all’interno della famiglia, gli ricordava quello di Ugo in Io la conoscevo bene. Voleva assolutamente me per quel personaggio, il che mi ha messo un carico di responsabilità enorme, perché volevo ridargli indietro tutto, e insieme cogliere l’occasione di fare un personaggio meraviglioso come Riccardino. C’ho tenuto più di me stesso, ho studiato il piano, il piano era un’ossessione, Gabriele lo sa, lo sa tutto il cast, stavo su fino alle quattro di mattina a studiare le sequenze al pianoforte invece delle battute. Ma, nonostante quel riferimento, mentre recitavo non ho mai pensato di seguire Ugo. Mi faccio arrivare involontariamente quello che c’è di genetico, ma non penso mai a mio padre quando lavoro, perché rispetto la sua grandezza e perché rispetto me stesso. Pensare in modo ammiccante che sto andando in quel solco, chiedermi come farebbe lui un personaggio, ecco quella è una cosa che rifiuto da sempre, piuttosto prendo la strada opposta.

Che lo vedano gli altri, invece, ti dà noia?
No, perché mi sono sempre sentito libero. Come con La Tognazza, dove faccio quello che mi sento anche se c’è ancora dentro la filosofia di Ugo, una filosofia premonitrice negli anni ’60, un modo completamente alternativo di guardare a quello che è il mondo del vino, perché qui partiamo dalla condivisone, dalla soggettività, non ci sono regole scritte.

Riassumimi la filosofia.
L’ho autodefinita così: la cantinazienda, tutto attaccato, molto eno e poco logica, tradizionalmente innovativa.

Mi piace. Torniamo alla libertà.
Anche per ciò che riguarda il lavoro, mio padre non è mai stato quello che dà consigli, non l’ha fatto con me e non l’ha fatto con Ricky, ci ha sempre lasciati liberi di fare le nostre esperienze nel bene e nel male, di prenderci le nostre responsabilità. Ugo è sempre stato così nei confronti dei figli, non ci ha mai detto cosa fare e cosa non fare, lui stesso si è mostrato a noi nei suoi successi e nei suoi insuccessi, nelle sue vittorie e nelle sue sconfitte, e noi abbiamo appreso da lui in maniera indiretta, non grazie al tipico atteggiamento del padre che ti dà degli insegnamenti. Ugo era una persona molto discreta e molto fiduciosa nell’intelligenza e nella responsabilità soggettiva di ciascuno, compresi i suoi figli. Di mio padre ho identificato solo una cosa che abbiamo veramente in comune artisticamente: la necessità di rischiare. Fare Spalletti è un rischio? Meno male, ben venga, so che dovrò metterci un grado di difficoltà in più. Riccardino può ricordare Ugo in Io la conoscevo bene? Bene, così dovrò trovare un’altra chiave. Ugo è stato l’attore della sua generazione che si è preso in assoluto più rischi: mi viene in mente La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, che ha fatto anche se Pupi Avati non poteva permettersi un attore come lui; e ovviamente il sodalizio con Ferreri, un altro che nessuno voleva produrre: La grande bouffe (dice La grande abbuffata col titolo originale francese, nda) era ispirato alle cene di Ugo, io mi chiamo Gian Marco per Ferreri, praticamente è stato il mio padrino. Ugo passava da un film con Bertolucci a uno con Laudadio (Fatto su misura del 1984, nda) che era una scommessa: il regista giovane, il rischio… Doversi ripetere come era successo in Amici miei – Atto III o Matrimonio con vizietto era anzi la cosa che lo stimolava meno, e io ho capito che essere stimolati nel nostro lavoro è avere l’opportunità di diversificare, anche a costo di essere poco identificabile. È una cosa molto difficile nel nostro Paese, da noi purtroppo tendono a metterti in un cliché, se fai la commedia allora non puoi fare il dramma e viceversa, io invece scelgo l’opposto, e forse è stato uno dei miei limiti, ma è quello che mi dà il divertimento. Oggi ripeto un ruolo – per esempio, quello di Non ci resta che il crimine e di Ritorno al crimine: ora stiamo girando Finché c’è crimine c’è speranza – solo perché mi diverte mettere lo stesso personaggio in contesti diversi, e forse dieci anni fa non l’avrei fatto. Ma poi nel mio percorso ci metto anche film piccoli, penso a Il ministro, che ho amato e amo alla follia, o film estremamente provocatori come furono Teste rasate o Le ultime 56 ore di Claudio Fragasso. Anche perché oggi il senso dell’attore non è più quello di una volta. Una volta gli attori erano un punto di riferimento, abbattevano i tabù della società, gli veniva riconosciuto un ruolo anche elitario che però aveva un peso. Oggi riuscire a trovare un senso è difficile, l’attore è meno riconoscibile di un qualsiasi giocatore della più piccola squadra di Serie A, e allora il senso qual è? Apparire? Se è così, a me non interessa, quello dura finché sei un ragazzino, fin quando hai l’ego, poi finisce.

 

 
 
 
 
 
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Il film più importante di tuo padre, e il tuo. Non il più bello: il più importante.
Di mio padre per forza due. Uno è Il federale, e c’è un motivo preciso: è la considerazione, da parte di tutti, del fatto che Ugo non è più l’attore dei filmetti estivi con Vianello, ma quello che poi diventerà il rappresentante dei colonnelli della vera commedia all’italiana che porterà a I mostri, In nome del popolo italiano, La voglia matta, La califfa e via dicendo. È il film che cambia la carriera di Ugo. E poi c’è quello che gli dà il più grande riconoscimento che abbia mai avuto, cioè La tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci, con cui ha vinto la Palma d’oro a Cannes. Quindi ti dico questi due, ma dovrei metterci, per l’importanza che so aver avuto per Ugo, anche Ultimo minuto di Pupi Avati, che è stato l’ultimo film a cui lui ha partecipato sentendo di poter dare qualcosa di forte a livello interpretativo. Per quello che mi riguarda, non c’è un titolo cinematografico. Come dico nel libro che abbiamo scritto per Ugo con Ricky, Thomas e Maria Sole, il momento più importante della mia vita artistica paradossalmente coincide (ride) con la presentazione di Sanremo, dove raggiungo la popolarità indipendentemente da come poi vanno le cose (è la famosa e criticata edizione dei “figli di” del 1989, nda). È lì che devo decidere se voglio essere un personaggio famoso o uno che sceglie un percorso artistico. Scelgo la seconda strada, mi rimetto a fare l’assistente volontario alla regia e a studiare con Beatrice Bracco, che poi è quella che ha cambiato completamente il mio approccio recitativo. E quindi ti direi quel momento lì, il primo spettacolo a teatro dove applico quello che ho studiato, cioè Crack di Giulio Base, che l’anno successivo diventa un film. Divento un altro attore facendo prima Crack a teatro, e poi Ultrà e Crack al cinema. È un momento preciso, il 1990, che coincide con la morte di mio padre. Lui, vedendomi per la prima volta a teatro in una chiave diametralmente opposta a quello che ero prima, manifesta il suo entusiasmo davanti a tutti – era in platea in un teatro di quaranta posti – e mi dà il passaporto: “Ok, puoi fare questo mestiere seriamente”.

Sei più bravo a fare l’attore o a fare il vino?
Sinceramente, credo di essere più bravo a fare il vino. Però non lo so, sono ipercritico su tutto quello che mi riguarda, mi piacerebbe pensare di essere allo stesso livello in tutti e due i campi. Certo è che, ti dicevo, nel mondo del vino sono io l’artefice, io e tutto il team, perché siamo un team di giovani e cazzuti. Cioè: loro sono giovani, io sono solo cazzuto.