Francesco Gheghi, come una scheggia | Rolling Stone Italia
Nuovo cinema italiano

Francesco Gheghi, come una scheggia

Le sfide del nuovo film 'Mani nude' (al fianco di Alessandro Gassmann), la nomination ai David come miglior attore protagonista per 'Familia', il corpo, le preoccupazioni, ma pure la determinazione di uno dei nostri giovani interpreti migliori. Che ha pure un gran senso dell'umorismo: «Ma magari ce cascano»

Francesco Gheghi, come una scheggia

Foto: Roberta Krasnig

L’abbiamo incontrato per la prima volta nel marzo 2022, per una chiacchierata corale sulla visione che la Gen Z ha della famiglia, a partire dal film sull’omogenitorialità di Marco Simon Puccioni Il filo invisibile (la trovate qui). Francesco Gheghi, appena ventenne, aveva già all’attivo un esordio con Daniele Luchetti, arrivato a 14 anni grazie a Io sono Tempesta, dove interpretava il figlio di Elio Germano, oltre a un film da protagonista con Alessandro Gassmann, Mio fratello rincorre i dinosauri di Stefano Cipani, e al Padrenostro di Claudio Noce, accanto a Pierfrancesco Favino e Barbara Ronchi.

Dietro le quinte si parlava di lui con l’adrenalina che accompagna le nuove scoperte e la curiosità di vedere la sua prossima giocata. Si presentava come una piccola mina irrequieta dalle idee forti e una presenza scenica vorace, e sosteneva che le famiglie normali non esistono. Diceva: «Io sono così innamorato di mio padre, e lui di me, che di papà ne vorrei due». A distanza di appena tre anni, il suo sembrava quasi destino: con il ruolo ispirato alla storia vera del giovane parricida Luigi Celeste in Familia di Francesco Costabile, Gheghi ha vinto il Premio Orizzonti a Venezia 81 per la miglior interpretazione maschile e ha ottenuto la sua prima candidatura ai David di Donatello come miglior attore protagonista.

Mani nude | Trailer Ufficiale | Dal 5 giugno al cinema

Oggi torna al cinema con Mani nude, il nuovo film di Mauro Mancini basato sul romanzo omonimo di Paola Barbato (in sala dal 5 giugno) che lo vede protagonista insieme ad Alessandro Gassmann, già diretto da Mancini in Non odiare. Quando ci sentiamo, il giovane Gheghi ride del suo mal di schiena: «È questa vita spericolata…», dice lui. «Con tutte le botte che ti sei preso», rispondo io, che ho appena visto il film e mentre gli parlo fatico ancora a distinguerlo dal personaggio. Perché Mani nude racconta la storia cruda e angosciante di un ragazzino rapito da un’organizzazione criminale di combattimenti clandestini, in cui vige un’unica regola: se non vuoi morire, devi uccidere. E devi farlo a mani nude.

In un tesissimo duello con Gassmann – che li vede carceriere e prigioniero, fino a stringere un delicato rapporto padre-figlio tra due mele marce – qui scopriamo ancora un’altra versione di Francesco Gheghi. Per il ruolo ha messo 10 kg di massa muscolare, si è tinto i capelli e si è lasciato sfigurare dal trucco. Muta nel fisico e nei lineamenti, mostrandosi improvvisamente adulto ma capace di una tenerezza di cui il personaggio ha bisogno, e che destabilizza lo spettatore. Dorme e mangia come un cane tenuto in cattività, direttamente dalla ciotola, mentre impara a combattere da animale, con una furia disperata che gli attraversa lo sguardo e il corpo. A tratti fa impressione. Lotta con ferocia eppure cerca un briciolo d’umanità, è un agnello sacrificale e insieme il peggio di un essere umano, tanto credibile da risultare respingente. Se finora è stato emozionante assistere alla sua rapida evoluzione, prima con Familia e adesso con Mani nude Gheghi porta in scena lo spettacolo di un talento naturale, per certi versi indomabile, ma sempre più maturo. Tumefatto, bestiale, autentico e bellissimo. Veloce come una scheggia.

Quanto ti sei rivisto per la prima volta cosa hai pensato?
Ci sono stato male. Perché fisicamente ero davvero molto bello, quindi ci ho creduto.

Dopo il film hai mantenuto un po’ di massa?
Poca roba. Per Familia ero dimagrito, e poi è faticoso tenere il fisico sempre all’attivo. C’è stato un periodo in cui ho dovuto proprio disintossicarmi dal film e dagli allenamenti, perché ho passato due mesi e mezzo di preparazione più otto settimane di lavorazione solo a pensare ad allenarmi e mangiare. Non facevo altro, mi svegliavo la mattina “e adesso che mi mangio?”. Mangiavo “e adesso devo preparare il pranzo e la merenda”. Sempre così.

Francesco Gheghi in ‘Mani nude’. Foto: Medusa

Ad aprile 2023, pochi giorni prima di partire per la Bulgaria a girare Mani nude, mi hai detto che eri molto preoccupato.
Ed era la verità. Era un film che si giocava su dei codici che non avevo mai fatto e che avevo visto solo al cinema.

Qual era il rischio maggiore?
Di risultare una macchietta, fastidioso, poco interessante. Sarà il pubblico a dirlo, ma secondo me l’ho evitato quando ho iniziato a crederci. Avendo portato il mio fisico a quel livello lì, banalmente il mio cervello ha iniziato a convincersi che potevo essere quello che stavo facendo.

Quindi il corpo è stata la chiave?
Sì, è un po’ una metafora della prima scena: quando lui riesce a uccidere il primo uomo per sopravvivenza, anch’io ho iniziato a crederci per sopravvivenza, perché è il mestiere che voglio fare nella vita. Mi sono attaccato a tutto il mio cuore, a tutta la mia pancia, a tutta la mia impulsività.

Sempre in quell’occasione ti chiedevo se avessi mai faticato a empatizzare con un personaggio, e tu mi rispondevi: “Non ancora, ma succederà in Mani nude, perché dovrò interpretare un atto di violenza che mi disturba”. Mi ricordi Di Leva, quando parla di Franco Celeste in Familia, e infatti sembra un cerchio che si chiude.
Sì, perché questo personaggio è davvero così. Poi è anche un ragazzo che è stato abbandonato da una figura genitoriale e quindi si ritrova da solo. Non dico che vada giustificato, ma penso che magari qualcuno avrebbe dovuto aiutarlo prima che si trovasse in quella condizione. C’è comunque una rinascita, un percorso di redenzione, ma non si dimentica quello che ha fatto. D’altra parte, l’obiettivo del film è anche quello di farti affezionare a lui, non so se ti è successo vedendolo…

Purtroppo sì. E questo mi ha messo a disagio, ma credo che sia utile al dibattito.
Eh, quella era la sfida. E quello è anche l’inganno cinematografico, perché la scena te la mettono dopo un’ora e quaranta, quando ormai hai conosciuto questo ragazzo e hai iniziato a volergli bene. Quindi è ancora più disturbante.

Essere trattato da cane fino a diventare una bestia: dovevi interpretare il peggio di un essere umano, ma anche la sofferenza del suo stato di cattività. Ti trasformi scena dopo scena.
Io credo che ognuno abbia un lato oscuro, quindi ho iniziato a tirare fuori la parte più nera di me. E rispetto alla cattività, avendo un personaggio in evoluzione era interessante riuscire a fare sempre un passo in più, scena dopo scena. Penso a quel momento, secondo me molto bello, quando lui dice al personaggio di Alessandro: “Credo che oggi sia il mio compleanno”. E poi si gira e sorride.

Fra te e Gassmann c’è una tensione speciale. Vi alternate nei ruoli di vittima e carnefice ma diventate anche padre e figlio, senza mai smettere d’essere morti che camminano insieme.
Lui è un mito per me. Avevamo già lavorato insieme su Mio fratello rincorre i dinosauri ed ero un piccolo bambino che sognava di fare questo lavoro, mentre oggi lo ringrazio come un ragazzo che sa quello che vuole. Ale è stato il miglior compagno che potessi desiderare per questo film.

Su questo set ha cambiato approccio nei tuoi confronti?
Sicuramente sono cambiato io. Stavolta vedevo un rapporto tra due lavoratori, invece ricordo che, quand’ero piccolo, cercavo quel rapporto lì ma non avevo ancora i mezzi.

Francesco Gheghi in ‘Mani nude’. Foto: Medusa

Dall’annegamento sott’acqua alla boxe, fino alla lotta estrema in un corpo a corpo di altissimo livello. Diventi una scheggia impazzita, veloce, rabbiosa, disperata, tutto insieme.
Ho fatto allenamenti di lotta greco-romana, ho lavorato con gli stunt e con l’operatore atletico. Quand’ero più pischello avevo fatto solo un po’ di kick boxing. Le scene di annegamento le abbiamo girate con la macchina da presa dentro una vasca, un classicone, tutto in sicurezza. È stato complicato, ma alla fine se pò fa’. Io tenevo il polpaccio di Paolo Madonna, l’attore che interpreta Puma, e nel momento in cui arrivavo al limite glielo stringevo così lui mi tirava su.

Che rapporto hai con l’acqua?
Quando ero ragazzino non me ne fregava niente, ma crescendo sono diventato un po’ talassofobico. Il mare mi inquieta. In Padrenostro c’era una scena con Mattia Garaci che mi buttava in mare e io non sapevo nuotare. Avevo 17 anni e nel film affogavo, quella cosa un po’ mi ha segnato. Eravamo in barca da tutto il giorno, faceva caldo, c’era sempre il mare limpido e non vedevo l’ora di girare quella scena. Poi siamo arrivati a filmarla verso le cinque di pomeriggio e il mare era diventato scuro, tutta un’altra storia. Mi ha fatto impressione, da lì ho iniziato a vedere il mare in un altro modo.

Sbaglio o nelle scene di combattimento non ci sono controfigure?
Avevo lo stuntman sul set, ma non l’ho mai usato. Solo per la scena del tuffo, che purtroppo era veramente troppo alto, e per il frame del pugno sotto la pioggia. Tutti i combattimenti li ho fatti io.

“Quello è forte, ma non è veloce”, dicono del tuo avversario. Invece la velocità che hai acquisito tu è impressionante. Come ci sei arrivato?
Non lo so, io mi giudico e mi prendo sempre in giro, ma a un certo punto ho iniziato a vedere che se spingevo ci credevo. È tutta una questione di credibilità, e allora poi ci credono anche gli altri. Il resto credo sia stato allenamento e potenza esplosiva.

A un certo punto il modo in cui combatti è anche il modo in cui reciti. Guizzante, istintivo, indomabile.
Potrebbe essere. Alla fine so’ sempre io. E poi credo che il testo lavori tanto sull’attore. Aver letto la sceneggiatura, aver sentito anche banalmente quella battuta… Parole come velocità, esplosività, potenza, piano piano hanno lavorato sul mio corpo e sul mio cervello. Ma penso anche che se domani dovessi fare il ruolo di un altro lottatore, non sarei così. Magari troverei altre cose, anche in maniera naturale, perché sarebbe un altro personaggio.

Quando hai pensato di non farcela?
Mai.

Neanche all’inizio?
Mai.

Perché eri così tranquillo?
Non ero per niente tranquillo, ma sapevo di riuscirci.

Mauro Mancini che ruolo ha avuto per te, come regista e come guida?
Mauro è un regista davvero molto in gamba, mi ha seguito tanto sul set e mi ha dato una grande mano. È stato un film difficile per me, ho dei ricordi molto offuscati. L’ultimo giorno in Calabria dovevo tornare in treno e mi hanno detto: “Se vuoi dormire qua, torni domattina”. E io: “No no, fatemi tornare stasera a Roma”. Casa mi mancava troppo. Mauro mi è stato vicino ma io ero saturo, non ce la facevo più.

Francesco Gheghi, il regista Mauro Mancini e Alessandro Gassmann sul set di ‘Mani nude’. Foto:

Perché?
Perché avevo bisogno di detox. E infatti sono passato dall’allenarmi tutti i giorni e mangiare cinque volte di fila al non fare più niente, rilassarmi e mangiare due volte al giorno. È un’altra vita. È stata una crasi tra Rocky Balboa e Il giorno della marmotta. Aver avuto una persona come Mauro mi ha aiutato tantissimo, ma non ricordo in maniera lucida com’ero in quel periodo. Ho perso anche mio nonno, mentre giravo il film.

Lo so, e mi dispiace. Eravate molto legati?
Moltissimo. E neanche sono potuto andare al funerale.

È stata una tua scelta o è dipeso dal piano di lavorazione?
Entrambe le cose, anche il piano era molto fitto. È successo alla terza settimana di riprese e me ne mancavano ancora cinque. Questo lavoro è totalizzante. Puoi immaginare cosa mi è passato per la testa, ero arrivato a chiedermi: ma perché sto qua? Le cose importanti della vita so’ altre, abbracciare mio padre, stare con lui. Perché sto lavorando? Poi capisci che la vita è anche questo, ma in quel momento sei arrabbiato e pensi: devo stare qua, in Bulgaria, con mio padre che sta là, a piangere la morte del padre. È una follia a vent’anni. Era anche il primo lutto familiare che vivevo e mio nonno era un altro papà per me. È stata un’esperienza che mi ha formato molto, tant’è che credo di aver girato Familia con quella qualità perché sono arrivato sul set come un Caterpillar.

Familia | Trailer Ufficiale | Dal 2 ottobre al cinema

Com’è stato il passaggio da Mani nude a Familia?
Ho iniziato a studiare Familia e leggere il libro mentre ancora giravo Mani nude, poi ho fatto il provino appena sono tornato. Uno è finito a novembre, l’altro è partito ad aprile. Ho messo subito la testa su un’altra cosa, ne avevo bisogno.

Mi ha commosso il video in cui hai scoperto di essere in cinquina ai David. In quel momento hai pensato di meritarlo almeno un po’?
Mi sentirei un mitomane a pensare di meritarlo.

 

 
 
 
 
 
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A volte è giusto dirlo. Noi abbiamo pensato che tu lo meritassi.
Io ci speravo. Anche quando mi hanno detto che c’era la possibilità di vincere il Premio Orizzonti a Venezia. Ricordo che ero in treno con Di Leva, ne parlavamo e gli dicevo: “Ma no Fra, non me lo danno, so’ troppo giovane”. Però sotto sotto, dentro di me, sentivo che certe cose è giusto dirle anche per autodifesa. Forse si tratta di sperarci a bassa voce. Sai cosa avrei voluto dire alla grande? “Ma magari ce cascano”.

In quel video prima ti emozioni, poi esulti, e alla fine fissi il vuoto. Cos’era, un lampo di disperazione?
Diciamo che quella pre-candidatura mi aveva messo angoscia, perché forse sarebbe arrivata la possibilità di essere nella cinquina. Quindi più ci avvicinavamo, più mi preparavo alla delusione di non essere candidato. Quella disperazione che vedi, forse significa: ok, le cose sono andate come speravo. E adesso devo andare incontro alla grande delusione.

Non vincere è stata una delusione?
Be’, certo. Andando avanti la possibilità diventa sempre più concreta. Ma ti dirò una frase fatta: a quel punto avevo già vinto a stare lì, in mezzo a quei nomi. Quindi sono contento di aver vinto in quel modo, e anche di aver perso contro Elio Germano che fa Berlinguer.

Hai esordito alla regia con il cortometraggio Buona condotta, miglior opera prima ai Nastri d’Argento 2025 nella sezione Corti d’Argento. Molti attori passano alla regia dopo qualche decennio di carriera, tu hai iniziato a vent’anni. Hai un progetto in mente?
In verità ho iniziato scrivendo un film, prima il trattamento e poi la sceneggiatura, che per adesso è nel mio bollitore. Ho sempre voluto fare il regista nella vita, raccontare storie che non erano mie. Ricordo che a scuola facevo temi lunghissimi, tutti intrecciati e assurdi, non si capiva niente. Lavorando ho iniziato a capire le dinamiche del set ed era interessante mettermi dall’altra parte, perciò ho girato il primo corto e ora sto preparando il secondo.

 

 
 
 
 
 
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Domani devi scegliere tra il ruolo della vita e le riprese del tuo primo film, che fai?
Be’, faccio il ruolo della vita e chiedo ai produttori di posticipare le riprese del mio film (ride).

Il solito Gheghi. Nel corto racconti la reazione di una famiglia di fronte all’omicidio compiuto dalla figlia: ha ucciso il fidanzato per gelosia. È una narrazione controcorrente, no?
Sì, e anche un po’ furba. Il fatto è che volevo divertirmi con una commedia, ma se avessi raccontato una violenza al contrario, se l’avessi messa su un piano di realtà, sarebbe stato immediatamente inquietante. L’idea iniziale era la storia di una bambina di sette anni che uccide la fidanzata del suo babysitter, perché se n’è innamorata e impazzisce di gelosia. Poi mi sono chiesto: come potrebbe essere, rapportato a una ragazza di sedici anni?

Foto: Roberta Krasnig

Sei tra i protagonisti del prossimo film di Vincenzo Alfieri, tratto dal libro di Federica Angeli sull’omicidio di Willy Monteiro. Le riprese inizieranno tra poco. Che ti aspetti?
Iniziamo il 16 giugno. Vincenzo è un grande, già mi piace moltissimo, ma c’ho una paura di questo film… È il più difficile che farò, è molto particolare, con una sceneggiatura complicata ed estremamente corale, non c’è la classica evoluzione del personaggio, avrò determinate scene per raccontarlo. In Familia o Mani nude seguivo uno schema di evoluzione sapendo che sarei arrivato a certe scene catartiche, ma questo film racconta la morte di un ragazzo, è un’altra cosa.

Nel 2022 ti descrivevo come l’agitatore del gruppo. Ma alla fine, lo sei davvero?
Sì, assolutamente. Infatti forse dovrei fare un ruolo pacato, magari un’ameba, te che dici?

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