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Federica Torchetti: «Vietare ‘La scuola cattolica’? I ragazzini vedono di tutto su TikTok e la Storia viene censurata»

Protagonista (con Benedetta Porcaroli) della scena più cruda del film di Stefano Mordini, l’attrice parla del discusso divieto ai minori di 18 anni. «La violenza di genere è ancora attuale, questa è un’opera che può educare le nuove generazioni»

Foto: Francesco Guarnieri. Look: Gucci

«Un ragazzino di 13 anni oggi sta su TikTok, Instagram e Facebook. Su Internet vede di tutto, e mi sembra assurdo che una storia vera, che racconta dei fatti reali, venga censurata. Ma perché? Trovo tutto molto incoerente rispetto a quello che stiamo vivendo nel 2021. Peggio mi sento se questa storia parla di donne, e oggi i femminicidi sono ancora un’emergenza sociale. Ma come dovrei prenderla una decisione del genere?».

No, neanche il cast della Scuola cattolica si aspettava di veder calare la mannaia della censura (del “divieto ai minori di 18 anni”, sì, ok) sul film di Stefano Mordini tratto dal romanzo Premio Strega di Edoardo Albinati, in sala da giovedì 7 ottobre e ispirato ai fatti storici del massacro del Circeo. «A Venezia era filato tutto liscio», spiega Federica Torchetti, che nel film interpreta Rosaria Lopez, morta a 19 anni in seguito alle sevizie e poi all’annegamento nella vasca da bagno all’interno della villa in cui lei e Donatella Colasanti (sullo schermo Benedetta Porcaroli) erano state rapite.

Il resto è storia, ma non per tutti: di certo non per quel pubblico under 18 a cui è stato vietato l’accesso in sala, e che invece era proprio il target di riferimento del film. Il vero target: oltre le giornate veneziane, i pareri della stampa e i primi commenti dal Lido al gusto Aperol su un film “senz’altro necessario”. Insomma, quel pubblico di adolescenti al quale aveva senso rivolgersi anche al prezzo di un “enorme sacrificio, umano ed emotivo” dei familiari delle vittime, “legato alla rievocazione vivida, visiva e sonora” di una delle pagine più lugubri della nostra cronaca nera, come ha fatto sapere il legale Stefano Chiriatti.

Federica Torchetti ritratta da Francesco Guarnieri. Look: Gucci

Se da una parte alla stampa la polemica piace (perché ci piace), e al cinema la polemica serve (serenamente: prima del politically correct, senza un po’ di sana bufera, in sala neanche si sperava di sopravvivere), quello che viene davvero da domandarsi è se in questo caso il conflitto non dovrebbe annullarsi spontaneamente, per dovere e per rispetto, di fronte alla volontà dichiarata dai familiari di Lopez e Colasanti di “tramandare, anche in chiave di ammonimento per il futuro, la memoria della loro tragedia, soprattutto alle giovani generazioni”. È un dubbio che sfiora la soglia dell’etica, e per certi versi supera anche quella dell’arte in sé. Al di là dell’indignazione verso divieti e censura, della chiamata all’appello di vecchi sistemi medievali, -ismi vari e slogan su Instagram, e dell’intenzione espressa ad aprile dal Ministro Franceschini di abolire ogni sistema di controllo e di intervento di revisione sulle opere cinematografiche.

Nell’occhio del “ciclone Scuola cattolica “c’è un’ambigua equiparazione della vittima e del carnefice” (a detta della Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche) e poi gli ultimi 20 minuti del film, giudicati eccessivamente violenti. «Ma c’è un lunga preparazione alla storia, prima di arrivare a quei famosi ultimi 20 minuti», puntualizza Torchetti. «Sai che penso? Che ci siamo attenuti ai fatti, che sei vai a raccontare una storia del genere non puoi accennarla e basta. Io mi sento molto vicina alla visione registica di Mordini. Per esempio, ho letto il libro di Annie Ernaux da cui è tratto L’événement, il film di Audrey Diwan che ha appena vinto a Venezia (in Italia uscirà a novembre col titolo La scelta di Anne, nda). Racconta tutti i dettagli dell’aborto e di come questa ragazza sia andata in giro per Parigi e cercare una mammana che la facesse abortire. Io da un film non mi aspetto che sia crudo, ma che mi mostri com’è andata realmente. Certo, poi subentra una certa sensibilità che quasi ti urta, però le immagini ti rimangono dentro e hanno un potere enorme».

Federica Torchetti, che di anni ne ha 25, prima di interpretare il film era solo una dei tanti figli di una generazione che invece, dal massacro del Circeo, è stata segnata culturalmente. «Io lo conoscevo nei limiti in cui ne avevo sentito parlare in qualche trasmissione televisiva». Quando ha annunciato ai genitori che avrebbe interpretato Rosaria Lopez, il filo rosso tra le due generazioni ha iniziato a districarsi. Quel filo che, dal 1975 in poi, avrebbe portato sua madre a consigliarle di fare attenzione, e soprattutto a cosa fare attenzione. «Mamma ricorda benissimo che dai fatti del Circeo si è iniziato a dire alle ragazze: “Non accettare passaggi dagli sconosciuti”. C’era una paura concreta, perché per loro fu un evento epocale. I miei sono pugliesi, ma la vicenda sconvolse tutta l’Italia. Mi hanno raccontato di come gli fosse rimasta impressa l’immagine con il simbolo del Circeo, o la foto del ritrovamento di Donatella (la tragica testimonianza fotografica di Colasanti nel bagagliaio della Fiat 127 bianca, nda). Il punto è che “non accettare passaggi dagli sconosciuti” oggi è diventato: devo prendere la metro, come mi vesto di notte? Non posso mettermi i tacchi e la gonna anche se vado a ballare, devo portarmi le scarpe da ginnastica nella borsa, perché poi torno a casa e chissà chi trovo per strada. È tutta quella roba là: come corro, come scappo? Non rispondere su Facebook a chi non conosci, stai attenta agli sconosciuti che incontri su Tinder».

Federica Torchetti con Benedetta Porcaroli nel film ‘La scuola cattolica’ di Stefano Mordini. Foto: Warner Bros. Italia

«Ora che ho 25 anni, mi domando perché un evento spartiacque come questo, per l’emancipazione femminile nel nostro Paese, non mi sia stato insegnato a scuola. Perché l’ho scoperto solo dopo? Per addentrarmi in Rosaria Lopez ho dovuto studiare da zero: il contesto politico e culturale dell’epoca, e tutti gli articoli che erano usciti su di lei. Qui noi dovevamo interpretare delle persone, non dei personaggi. E per farlo, bisognava iniziare a conoscere la storia».

Il lavoro decisivo, inevitabilmente, è arrivato sul set. Otto giornate di riprese dedicate alla svolta più brutale della vicenda: i crimini avvenuti a Villa Moresca. Con la scelta di Mordini di girare le scene più delicate in ordine cronologico, senza forzare il cast, andando per gradi. «Man mano arrivava anche il nudo, che faceva salire la tensione. Ma ho capito che era una tensione giusta, che dovevo usarla. E che dovevo perfino abbracciare quella paura di non riuscire a portare rispetto alla persona, più che al personaggio. Siamo abituati a camminare vestiti, coperti. Il fatto di essere completamente svestita in quella situazione mi faceva sentire privata della mia identità. Ed era giusto, era quello che si doveva ricreare, perché è impossibile entrare in contatto con quel tipo di dolore se non l’hai vissuto. Da attore sei fuori dalla comfort zone più totale. Finché il nudo non diventa il tuo vestito: ti abitui a camminarci, perché subentrano altri pensieri. Il dolore, la rabbia, la rassegnazione».

«Con Benedetta Porcaroli c’erano molti silenzi durante quelle scene. Eravamo in un bagno piccolo e strettissimo, abbiamo cercato di riprodurre quello della vicenda reale. Stefano era sempre presente, accanto a noi con la macchina a mano. C’era una musica sotto… dava davvero l’impressione di essere in quella situazione. Fra me e Benedetta è iniziato tutto un gioco di sguardi, di empatie. Lei era il personaggio che aveva cura di me, della mia fragilità. Non ti rendi neanche conto di quello che stai facendo, in quei momenti sei in uno stato di trance. Quando c’è stato il nudo di gruppo, sul set si è creata un’energia negativa giusta, sembrava di essere in Chiesa. O in un cimitero».

Una domanda su tutte – ammette Federica – torna nelle interviste al cast, come focus incalzante del dibattito attorno al film: è valido il parallelismo tra il passato e l’emergenza attuale? Perché ovviamente il tema ancora caldo è quello della violenza di genere. Quindi se il monito per il futuro vale la pena della rievocazione del dolore, più la battaglia per portare al cinema gli under 18, in che cosa il film potrebbe davvero educarli? Ed educare quali giovani, fra tanti? «Penso che se io a 16 anni andassi a guardare un film del genere, prima di vedere la tragedia coglierei molto altro. Alla tragedia ci si arriva con una serie di segnali inquietanti. Frasi insidiose come “Guardami”, “Io decido”, “Tu fai quello che dico io”. Non necessariamente la violenza carnale, ma piccole cose, che se ci pensi sono ovunque. Anche a scuola, in classe. Il ragazzo che esce dalla sala magari potrebbe realizzare: “Vedi dove si arriva poi? Ecco da dove parte il germe della violenza”. C’è un passaggio emblematico, in cui Angelo Izzo e il fratello più piccolo incontrano una ragazza. Ma lei non saluta il fratello minore, così Angelo la blocca: “Scusami, perché non hai salutato mio fratello?”, quasi a volerle mettere paura. Devono capire che quella roba là è dappertutto. Ragazzini che diventano violenti quando una ragazza li lascia, che rispondono al rifiuto con l’affermazione di potere. Dai, che vogliamo dirci? È una storia vera degli anni Settanta interpretata da ragazzi di oggi: ti ci riconosci per forza».

«Da un lato quasi penso: forse la censura avvicinerà ancora più persone? Soprattutto i veri destinatari del film, che sono proprio i più giovani. Per assurdo il divieto potrebbe attirarli». Attirarli sì, ma dove, questi chiacchierati, sottovalutati, mal considerati adolescenti che sembrerebbero non saper distinguere il bene dal male, ma che a questo punto potrebbero davvero voler conoscere le conseguenze storiche della vicenda, oltre La scuola cattolica in sé. Torchetti mi dà la risposta più semplice: «Basta che scrivano su Internet “massacro del Circeo”. Vorrei che intanto si avvicinassero alla storia, che leggessero le interviste, su YouTube è pieno di contenuti. Perché non usare Internet per fare qualcosa di utile? I ragazzi lo fanno già, lo sanno fare meglio di chiunque altro». Che poi è pure il paradosso di tutta la questione: i ragazzi lo faranno comunque, se vorranno. Prima o poi vedranno il film a prescindere dalla sala, con o senza censura. Sì, ok, “divieto”.

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