‘Nata per te’: intervista al regista Fabio Mollo | Rolling Stone Italia
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Fabio Mollo: «Spero che ‘Nata per te’ faccia capire anche al più fervente cattolico che è meglio l’amore di qualcuno del non amore»

Il regista calabrese porta sullo schermo la storia (incredibile ma vera) di Luca Trapanese, primo single omosessuale ad adottare una bambina con sindrome di Down. «La questione delle adozioni da noi non riguarda solo le coppie gay: è un sistema obsoleto, negativo, distruttivo»

Fabio Mollo: «Spero che ‘Nata per te’ faccia capire anche al più fervente cattolico che è meglio l’amore di qualcuno del non amore»

Antonia Truppo e Pierluigi Gigante in ‘Nata per te’ di Fabio Mollo

Foto: Gianni Fiorito

Fabio Mollo aspettava da una vita di poter girare un film del genere. Dopo il coming out appena maggiorenne nella Reggio Calabria degli anni Novanta, dopo il Centro Sperimentale nella Roma dei primi anni Duemila, dove preferirono non proiettare il suo cortometraggio a tema queer. E anche dopo Il padre d’Italia, nel 2017, in cui raccontava la famiglia non tradizionale e l’omogenitorialità ispirandosi sottovoce a una storia che conosceva da vicino: quella di sua sorella adottiva.

Luca Trapanese aspettava da una vita di poter diventare genitore. Al Tribunale di Napoli era “quello che le aveva segnate tutte”: disponibile a prendersi cura di un minore con gravi patologie, di un minore HIV positivo, di un minore vittima di abusi. Niente lo spaventava abbastanza. Nel 2018 è diventato non solo il padre di Alba – neonata con sindrome di Down – ma anche il primo caso di affido e poi di adozione a un single (omosessuale) nel nostro Paese: per certi versi, è un padre d’Italia anche lui.

Prima un libro, ora un film: oggi Nata per te, nelle sale dal 5 ottobre, racconta la storia di Luca e Alba attraverso lo sguardo di Fabio. È prodotto da Cattleya e distribuito da Vision: significa che è finalmente un progetto destinato a un pubblico ampio e non solo agli outsider, nonostante parli proprio di loro, di chi prova a migliorare la legge e si sente rispondere: “Guarda che non stiamo mica in Svezia”. E invece ogni tanto succede pure che vincono i giusti. E ogni tanto c’è bisogno di un film che ce lo racconti (che se non fosse basato su una vicenda reale, diremmo che è un’opera inverosimile, poco realistica). Per Fabio Mollo questo è un auspicato ritorno alle origini, a quel suo cinema spoglio, intimo, in cui certi interpreti sembrano nati per certe storie (come Pierluigi Gigante, come Teresa Saponangelo e Antonia Truppo). Dopo un’ora finiamo l’intervista, spengo il registratore e gli dico: «Dopotutto questo film potevi farlo solo tu».

Luca Trapanese è un ex cattolico omosessuale che voleva farsi prete e che da single ha adottato una bimba con sindrome di Down: è un materiale unico per portare in campo contraddizioni e riflessioni sul tema.
Infatti abbiamo passato notti insonni a ragionarci, perché era proprio quella l’idea: raccontare le contraddizioni, non farne un santo in tutto e per tutto, fargli dire anche cose opinabili. Nel film a un certo punto si comporta perfino da codardo. Io, da attivista e persona queer che va ai Pride da ventisei anni, detesto il personaggio quando dice: “Non voglio che Alba sia la bandiera del Pride”. Ed è bello per questo, perché le contraddizioni ci rendono veri. Un po’ come succedeva con Paolo (il personaggio di Luca Marinelli, nda) nel Padre d’Italia.

Fabio Mollo e Pierluigi Gigante insieme a Luca Trapanese e alla piccola Alba. Foto: Gianni Fiorito

Cosa ti ha emozionato di più?
La prima volta che ho sentito la storia di Luca e Alba ero una persona LGBTQ+ che vive in questo Paese, ero molto scoraggiato da una serie di eventi, e il loro racconto arrivava come qualcosa di impossibile che diventava possibile. Emozione ancora più forte l’ho provata quando Cattleya mi ha proposto il film: era tanto tempo che aspettavo un film del genere, sono vent’anni di carriera che provo a parlare di diritti. Ricordo il mio primo corto al Centro Sperimentale, a tematica gay: non venne proiettato al saggio di diploma “per non urtare la sensibilità delle famiglie”.

Che premurosi. In che anno eravamo?
2006.

Un attimo fa, se ci pensi.
Incredibile. Io questa difficoltà l’ho vissuta non solo nella vita, ma anche nel mondo del cinema. (Silenzio) Vogliamo parlare di discriminazione? Di mancanza di coraggio? Non lo so, ma è durata tanto. Con Il sud è niente e Il padre d’Italia avevo provato a scardinare determinate mentalità, ma avevo anche sbattuto la testa: acclamato da festival, critica e pubblico ristretto, però non ero riuscito ad arrivare veramente in sala. Questa proposta l’ho vissuta anche un po’ come una ricompensa: Cattleya e Vision mi fanno fare un film dichiaratamente politico che può arrivare a un pubblico largo. È un bellissimo segnale, in un momento in cui dicono che il cinema è in crisi e c’è un governo che non definirei il più aperto in tema di diritti civili. Ecco perché stavolta volevo fare un film onesto ma non troppo intimo.

Nel mezzo ci sono i tuoi esperimenti più mainstream, My Soul Summer e Anni da cane. Ti hanno criticato e hai comunque dimostrato di poter girare qualsiasi storia, usando linguaggi diversi.
Naturalmente se sei Sorrentino o Guadagnino fai un film per la piattaforma e detti tu le regole, se sei Fabio Mollo lavori anche su commissione. “Commissione”, questa parola che sembra un insulto ma che fa parte del nostro lavoro. L’importante per me è sempre stato trovare uno sguardo che potesse essere il più vicino possibile al mio. My Soul Summer ha uno sguardo da outsider perché la protagonista è un’outsider.

Forse quei film ti servivano a trovare un nuovo equilibrio. Avevi bisogno di arrivare a questo punto?
Io credo di sì. E io vedo tutto, non sono spocchioso. Per me Anni da cane è stata una sfida, quando Amazon me l’ha proposto ho risposto: “Ma siete sicuri che volete me? Io ho fatto Il sud è niente. Faccio film con due dialoghi, un primo piano e la povertà attorno”. Sicuramente mi ha aiutato a capire delle cose del mio linguaggio che su Nata per te son tornate utilissime, come tu dici, anche nella scrittura. La commedia che era un po’ accennata nel Padre d’Italia, qui nel personaggio di Teresa (Saponangelo, grande colonna del film, nda) riesce a trovare degli appuntamenti in scrittura in cui si avvicina davvero al mio sguardo, e che parlano a un pubblico più ampio.

Pierluigi Gigante e Teresa Saponangelo in una scena del film. Foto: Gianni Fiorito

Hai detto che girare a Napoli ti metteva timore. Perché?
Be’, perché i registi che stimo di più hanno girato a Napoli. Quindi per me è un luogo sacro del cinema. Con Il padre d’Italia l’avevo sfiorata, ma in Nata per te è centrale, è un personaggio protagonista della storia. Io penso sempre che a Napoli qualsiasi cosa succeda, bella o brutta, l’istinto alla vita resta più forte di tutto il resto. Era perfetto per Nata per te.

Tra l’altro qui Napoli è il personaggio più all’avanguardia della storia.
Da morire. Ne ho parlato proprio con Luca: il fatto che questa storia sia successa a Napoli – che per me, essendo del Sud, è un po’ una capitale culturale – è qualcosa che mi riempie di orgoglio. Il Tribunale di Napoli è stato più all’avanguardia di tanti altri e continua ad esserlo, così come il lavoro che Luca fa con i disabili.

Spesso le rivoluzioni prendono forma proprio dove nessuno sta guardando, no?
Questa è una bellissima frase: credo sia quello che ha fatto Luca. Ha costretto le persone a guardare la disabilità, che per me è il più grande tabù sociale di oggi, ormai più dell’omosessualità o della transessualità. Ci giriamo dall’altra parte, non vogliamo guardarla, abbiamo difficoltà a toccarla con mano. La prima cosa che abbiamo fatto con Pierluigi Gigante è stato andare in uno dei centri che Luca ha costruito e vivere un po’ con loro, lavorando come operatori.

A proposito di Pierluigi Gigante: è perfetto per questo ruolo. Cos’ha negli occhi? Dove si nascondeva? Come l’hai trovato?
(Ride) Con un semplicissimo provino. So che il cinema italiano è un sistema in cui il film o lo fai con l’attore noto o rischia di non essere visto, e chiunque per un personaggio così importante avrebbe preso un attore importante. Però un giorno ai provini è arrivato questo Pierluigi Gigante che nessuno conosceva, un gigante di un metro e novanta, barbone e capelli lunghi, perché in quel momento stava girando una serie Netflix in cui faceva il brigante. Si è seduto, ha fatto la scena in cui parla con la giudice e dice che l’affido è temporaneo ma l’affetto no. È uscito dalla stanza e noi ci siamo guardati: “Ma questo chi cavolo è? Da dove viene?”. Pierluigi ha questo sguardo puro ma anche alieno, come se non appartenesse a questa Terra. Un po’ come Luca che vuole bene alla sua famiglia, ma appena adotta Alba la porta al centro disabili: è come se stesse più a suo agio lì che altrove, nella vita che tutti conduciamo.

Hai notato che con questo film passi dal dire “il miracolo è contro natura” (Il padre d’Italia) a “dobbiamo costruire un pezzo alla volta fino a Marte”?
Mi ricordo quando ho scritto quella battuta, è il genere di frase che mi ha fatto capire tante cose del film. La verità? Io sono molto sfiduciato. Ho 43 anni, non so ancora quanti governi dovranno esserci prima di arrivare a una legge che sia veramente inclusiva. So che ci arriveremo, come fu per il divorzio o l’aborto, ma ho paura che la mia vita non ce la farà a vedere quel momento. O, quantomeno, che se lo vedrò non sarò più nell’età giusta per poter adottare.

Fabio Mollo sul set con Pierluigi Gigante. Foto: Gianni Fiorito

Posso chiederti se l’adozione è un tuo desiderio?
Io ho vissuto a Londra e per un periodo a New York, per un master. Quando ho conosciuto il mio compagno abbiamo scelto di restare a vivere qua, lui insegna all’università di Roma. Sono grato al Centro Sperimentale perché è l’unica scuola in Europa ancora accessibile alle persone comuni: altrimenti non avrei fatto questo mestiere. Ma ti dico la verità, sono anche rimasto un po’ incastrato. A differenza dall’Inghilterra da cui venivo o da New York dove mi sono sposato, speravo che anche in Italia fosse una questione di quattro, cinque, sei anni. Non quindici. Da attivista quale penso di essere, a questo punto anziché andare via preferisco restare qua e combattere per la causa, sperando di arrivare a vedere quel giorno.

Girare questo film non ti ha fatto venir voglia di compiere gesti assoluti, come quello di Luca Trapanese?
Il momento più bello della mia infanzia è stato l’adozione di mia sorella. Io da adulto volevo diventare genitore allo stesso modo, l’adozione è il tipo di genitorialità che vorrei vivere. L’ho vista con i miei occhi di bambino: i miei genitori che a 27 anni, a Reggio Calabria, hanno fatto questo gesto bellissimo. Io e il mio compagno abbiamo cercato una strada, qualche anno fa, ma ci hanno detto che come coppia era impossibile: avremmo dovuto divorziare. Che è un paradosso assurdo, no?

È un paradosso umiliante.
Ci siamo sentiti anche umiliati, infatti. Lo diceva anche Teresa in conferenza stampa: una persona, quando si propone di diventare genitore di un bambino affidato a un ospedale o a un istituto, dovrebbe essere incoraggiata e non umiliata. La questione non riguarda solo le coppie gay. È un sistema obsoleto, negativo, distruttivo. All’epoca i miei genitori hanno aspettato per sette anni. Mia sorella poteva essere adottata dal primo momento in cui è nata, ma ci ha messo due anni per trovare una famiglia. Che è successo in quei due anni? Stavamo tutti lì a Reggio Calabria.

Nel film ci si domanda se scelte come quella di Luca Trapanese non dipendano anche dal fatto di essere “una riserva, un cittadino di serie B” che si “accontenta” di quello che per gli altri è uno “scarto”. È una riflessione che non accontenta nessuno, no?
È esattamente questo, perché c’è una contraddizione di fondo terribile nel sistema. Non si discrimina solo il potenziale genitore affidatario, ma principalmente il bambino, perché lo si considera in un certo senso non desiderabile dai genitori “surclassé”. Solo a quel punto può essere non adottato, ma affidato temporaneamente. Io mi sono chiesto molte volte, anche andando in questi centri: farei la stessa cosa che ha fatto Luca? Sarei pronto a farlo?

Saresti pronto a farlo?
Devo dirti che no, non sarei pronto. Luca ha passato tutta la sua vita a contatto con la disabilità, quindi era pronto per Alba, ma non era pronto per essere genitore. Nessun genitore lo è. Però questa rimane una possibilità, per me: potrei riuscire a comprendere la scelta di Luca e farne una simile, ma non da solo. Come genitore single io non ce la farei.

Infatti crei anche un altro contraddittorio, quando Luca dice: “In realtà io pure penso che una mamma e un papà siano la soluzione migliore per Alba. La famiglia è sacra”. È solo Luca a parlare?
(Ride) Lì è Luca a parlare, ma è una riflessione che tocca molte persone. Non è il mio caso, perché i miei genitori oltre ad aver adottato hanno anche divorziato e conosciuto altri compagni, continuando a crescere me e mia sorella con lo stesso amore. Se ci penso, i miei genitori hanno fatto la rivoluzione. La cosa bella è che la storia di Luca e Alba, anche di fronte a chi continua a pensare che sia meglio avere un padre e una madre anziché un single gay, nella realtà dei fatti dimostra la cosa più ovvia: che è meglio l’amore di qualcuno del non amore. Io spero che il più fervente cattolico pro-famiglia tradizionale, guardando Nata per te, possa capirlo.

Nata per te (2023) - Trailer ufficiale

Non c’è un tuo film in cui l’amore non passi per il sacrificio. E intendo il sacrificio come l’idea di non meritarselo di diritto, l’amore. Ci hai fatto caso?
(Pausa) Lettura interessante… (Silenzio)

Zan zan.
(Ride) Proporrò questa riflessione al mio analista. Proviamo: quando vedo dei film in cui l’amore viene dato per scontato, io un po’ mi arrabbio. Sai, quei film in cui, siccome lei è bella, lui si innamora subito. L’amore è una cosa molto complicata da riconoscere, e forse non passa necessariamente dal sacrificio, ma ha bisogno di un percorso. Forse ci metto anche il fatto che crescere negli anni Novanta da omosessuale ha contribuito: ricordiamoci com’era il nostro Paese in quegli anni. Mi emozionano tantissimo le generazioni di oggi che vanno a scuola, sono così libere nei loro amori, nei loro baci, nel riconoscere cosa gli piace. Ma la nostra adolescenza non è stata così: io mi ricordo i nostri baci nascosti, che dovevano essere veramente nascosti perché rischiavi qualcosa di brutto. A 18 anni sono scappato, ma forse è rimasta quella traccia in me. E trovo che le storie più vere siano queste.

Giorgia Meloni è stata invitata alla prima del film ma ha chiesto a Luca di poterlo vedere in forma privata. Lo ha già fatto o pensi che lo farà?
Non ancora. Sono molto curioso di vedere come continuerà il dialogo tra Luca e Giorgia Meloni, perché è un dialogo che va avanti da un anno e mezzo. Onestamente credo sia anche bello che ci sia questo dialogo tra loro.

Del film mi rimane una battuta su tutte: credi che per cambiare il mondo sia più importante essere entusiasti che avventati?
(Sogghigna) Io da ragazzo sono stato molto avventato. Volevo rompere gli schemi, andavo in giro sul corso di Reggio Calabria tenendomi per mano con il mio fidanzato, ho fatto coming out con tutta la mia famiglia a 18 anni. Oggi forse è cambiato qualcosa, per la situazione in cui siamo e per quello che mi hanno insegnato Luca e Alba, cioè la bellezza della pazienza e dell’entusiasmo. Prima ero più nutrito dalla rabbia, ed ero arrabbiato con il mondo perché mi sentivo discriminato. Sai che penso? È un regalo bellissimo che Cattleya e Vision abbiano voluto fare un film mainstream su un tema di cui tutti hanno un po’ paura. La prima settimana di riprese abbiamo girato la scena in cui l’avvocata porta alla giudice (interpretata da Barbora Bobulova, nda) la domanda di adozione e dice una frase semplicissima: “È assurdo vivere in un Paese che non consente ai single e alle coppie omosessuali di adottare”. Io mi sono commosso perché ho pensato: finalmente riesco a far dire a un personaggio di un mio film una battuta del genere. Eccolo l’entusiasmo. Ecco cosa è cambiato.