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Eugenio Mastrandrea, mangia recita ama

Suo padre «è un figo», ed è proprio grazie a lui che è diventato attore. Chiacchierata con il nuovo volto italiano che si sta guadagnando la fama internazionale: c'entrano la miniserie Netflix 'From Scratch' (accanto a Zoe Saldana) e un ruolo in 'The Equalizer 3'

Foto: Azzurra Primavera

Suo padre «è un figo». Ma non è imparentato con Valerio Mastandrea. Il suo nome è Carlo Mastrandrea (con la “r”), fa l’imprenditore ed è probabilmente l’unico genitore sul pianeta Terra ad aver detto al proprio figlio: «Senti, lascia stare con quest’università e iscriviti all’accademia di recitazione». Ed ecco spiegato perché, per parlare di Eugenio Mastrandrea, l’abbiamo presa così larga: senza suo padre lui ora non farebbe l’attore. Eugenio ha ragione da vendere quando dice «mio padre è un figo», e comunque questa storia era troppo singolare per non essere riportata. Da lì poi è iniziato tutto e, peraltro, molto velocemente. La trafila provino-“ti faremo sapere”-altro provino è stata infatti discretamente fulminea per Eugenio, se è vero che, dopo il successo di La fuggitiva, ha inanellato già due produzioni internazionali. La prima è la serie tv From Scratch – La forza di un amore, la miniserie Netflix che lo vede nel ruolo del protagonista chef Lino accanto a Zoe Saldana; la seconda è il film The Equalizer 3, che si sta girando in questi giorni in Costiera Amalfitana.

Be’, hai dovuto pagare la “tassa” della fiction generalista solo una volta, e poi hai subito fatto il salto internazionale. Ti pare poco?
In realtà non credo di essere così invidiato, ma è anche vero che, comunque, non potrei saperlo perché frequento molto poco il giro degli attori: tutti i miei affetti e le mie frequentazioni non sono dell’ambiente.

Zoe Saldana ed Eugenio Mastrandrea in ‘From Scratch – La forza di un amore’. Foto: Netflix

Per lo meno la gavetta è stata dura e penosa?
Ah, quello sì! In pieno! Mi sono laureato in accademia nel 2017 e per due anni ho penato tra i provini, i “ti faremo sapere”, la trafila di spettacoli che fai con i tuoi compagni di studio e i festival indipendenti. E la situazione mica migliorava quando imbroccavi il grande spettacolo teatrale: se andava bene mi pagavano due euro e mezzo, quando andava male prendevo zero, perché “già ti stiamo facendo recitare, mo’ vuoi pure essere pagato?!?”. Per due anni abbondanti è andata avanti così: direi che ho dato.

Recitare è sempre stato il tuo sogno?
In realtà da bambino volevo fare il dottore. Non so perché: non ho nemmeno medici in famiglia ma, va’ a capire, avevo questa fissazione. A chiunque mi domandasse “Cosa vuoi fare da grande?”, rispondevo prontamente: “Il medico”. Finite le superiori ho quindi tentato il test di Medicina ma niente, non riuscii a entrare. Mi sono allora buttato su Biologia, ma mi veniva malissimo ed ero infelice. Sono riuscito a fare due esami in croce. Dopo quello di Chimica generale, ho chiamato mio padre dicendo: “Ho preso un 18 che puzza”. Ed è stato lì, allora, che lui mi ha detto di lasciare stare con l’università e tentare l’accademia per fare l’attore. Lo abbiamo già detto che mio padre è un figo?

Ma come mai proprio l’accademia?
Alle superiori, per hobby, facevo teatro: mi veniva bene, ma non avevo mai preso in considerazione di farlo per davvero… mio papà ci ha visto lungo. Aveva ragione lui. Con il senno del poi, credo che mi sarebbe stata stretta una routine da ufficio: della vita dell’attore mi piace tutto, anche – o soprattutto – l’incertezza che la caratterizza.

Veniamo a From Scratch: la miniserie si ispira all’omonima autobiografia di Tembi Locke. Come hai lavorato sul personaggio?
Sono un attore di formazione classica, quindi per me prima di tutto viene lo studio della sceneggiatura. Lì c’è quello che serve per entrare nel personaggio. Poi naturalmente ho parlato con Tembi, lasciandomi influenzare dai suoi ricordi. Lei sul set ci ripeteva spesso: “Voi state dando corpo ai miei ricordi, state mettendo in scena la mia vita”.

Non metteva un filo d’ansia?
Be’, un po’ sì. Ho incontrato moltissime persone, sul set ma anche fuori, che conoscevano direttamente Lino, ossia il personaggio che interpreto. Per esempio, un giorno in piazza a Cefalù noto che un signore mi fissa insistentemente. Dopo un po’ mi avvicino: “Salve, mi dica”, e lì scopro che lui era il cugino di Lino. Ho sentito quindi una certa responsabilità, soprattutto nei confronti di Tembi, ma a un certo punto ho cercato di mettermi semplicemente al servizio della storia.

Foto: Netflix

Le piattaforme sono zeppe di storie d’amore dove uno dei due si ammala e muore. Qual è la marcia in più di From Scratch?
Prima di tutto, come dicevamo, è la storia di una vita, nelle cui emozioni possiamo riconoscerci tutti. Quello che conta non è andare dal punto A al punto B, ma il viaggio. Inoltre la serie affronta il tema dell’integrazione e lo fa con grande onestà. Al centro ci sono due culture che si incontrano e cercano di coesistere: hanno lingue e suoni diversi, cibi differenti, due punti di vista sul mondo. I protagonisti si amano al punto da dialogare per cercare di incontrarsi nonostante le differenze.

La vera leva dell’inclusività è l’amore?
Il cemento dell’inclusività è il rispetto che, sì, è una forma di affetto, perché vuol dire riconoscere – e riconoscerci – che siamo tutti quanti essere umani, con gli stessi desideri e paure. Posso farti un esempio un po’ provocatorio?

Vai.
Un giorno, al liceo, un mio insegnante di Lettere ci disse che non è che Dante amasse Beatrice più di quanto il ragazzetto di 15 anni amasse la sua fidanzatina. Solo che uno scrive “Tanto gentile e tanto onesta pare”, l’altro “Amore te amo” con la bomboletta sul muro. Cambiano quindi le modalità, ma i desideri del cuore dell’uomo sono gli stessi. Per tutti quanti.

Foto: Netflix

La serie dice anche un’altra grande verità, ossia che la cucina migliore al mondo non è quella francese i cui pasti (cito le parole del tuo personaggio) “iniziano e finiscono con burro e patate”. Ci siamo levati un bel sassolino dalla scarpa?
Non sono un esperto di cucina francese ma, da buon italiano, non posso che essere di parte e sottoscrivere! (ride, nda) Tra l’altro io adoro la cucina popolare: sono un fan della cucina italiana, quella buona, mediterranea.

Non sei quindi di quelli che dicono: “Il cibo è un’esperienza, stasera andiamo a mangiare turco”?
Il cibo è indubbiamente cultura commestibile, come sostiene Paride Benassai. Però, ecco… a mangiare sushi mi ci hanno praticamente trascinato! Mi è piaciuto, sia chiaro, ma… i bucatini all’amatriciana so’ mejo.

Tu come te la cavi in cucina?
Bene. Sia mia nonna che mia mamma erano molto brave. Io sono forte nei piatti tipici della tradizione: per esempio il ragù mi riesce molto bene, e pure l’arrosto o il sauté di cozze. Non so fare la cucina gourmet.

Per dirla alla romana, la cucina cafona è quella che dà più soddisfazione.
Eccome! Alla fine si mangia con la pancia, non con il cervello.

Ora sei sul set di The Equalizer 3: quale sarà il tuo ruolo?
Purtroppo non posso ancora svelare nulla, altrimenti mi preleva la CIA con un drone…

Com’è però condividere il set con Denzel Washington e Dakota Fanning?
Con Dakota non ho ancora avuto modo di lavorare. Con Denzel è stato invece molto bello ascoltare tutte le osservazioni che muove. È un grandissimo attore e vederlo all’opera è meraviglioso. Cerco di rubare il più possibile con gli occhi.

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