C’è una Mercedes spider color aragosta, in Fuori di Mario Martone. La guida Albert (Antonio Gerardi), un uomo che “vuole bene” a Roberta, il personaggio di Matilda De Angelis, e che lei usa come taxi. Come una spider, appunto. Quell’auto, in realtà, apparteneva a quello che sarà il compagno di Barbara, il personaggio di Elodie, che nella vita reale si chiama Patrizia.
È solo un esempio di come il reale e il fantastico si mischiano, nel film che parte da Goliarda Sapienza (sullo schermo vediamo Valeria Golino), arriva a Rebibbia e spazia, portandoci in sala più del solito (e meno male, e che sollievo) e poi, come al solito, a girare con la fantasia. Ma chi erano, queste tre donne? Con i loro sguardi di intesa, i loro passati che ci rimangono segreti e, be’, le cose che potrebbero essere in quel futuro irreale che ci si apre davanti ogni volta che le luci si accendono in sala, e siamo costretti a lasciare andare i personaggi.
«Goliarda ha frequentato mia madre dopo Rebibbia, con la macchina di mio padre giravano insieme, facevano le corse, andavano al mare insieme. Roberta nella vita reale si chiama Renata, veniva dal mondo della politica, era un carattere diverso. Mia madre frequentò molto più Goliarda. Posso dirti questo: tra di loro c’era molta sorellanza, ma i rapporti saffici mostrati nel film sono stati aggiunti, l’energia femminile del carcere non è mai sfociata in niente di fisico».

Foto cortesia di Valerio Motta
Così ha raccontato Patrizia al figlio, Valerio Motta, che incontriamo telefonicamente per accedere a quel reame di solito proibito, la realtà dietro la finzione. Il 22 maggio, giorno dell’uscita in sala del film, Valerio ha pubblicato un post sul suo profilo Instagram. Ci sono alcune foto della madre, un frame del trailer di Fuori, e parole che gli abbiamo chiesto di ampliare.
«Patrizia era venticinquenne, bella, spigliata, astuta. Con Goliarda venivano da mondi diversi, poi lei aveva cinquant’anni, quindi c’era un rapporto quasi materno. Nella libreria di casa avevamo i libri di Goliarda con delle dediche meravigliose a mia madre. Comunque non c’è mai stato segreto tra noi circa il suo passato in carcere».
Patrizia viene da un’estrazione piccolo-borghese. Famiglia di laureati, lei è la pecora nera, così dice Valerio. Rapporti turbolenti con la famiglia, dal film non sappiamo che cosa abbia portato Barbara in prigione. Il padre di Valerio era nella delinquenza, «stettero insieme venti, venticinque anni». Venne ritrovata della refurtiva a casa loro, fu incastrata Patrizia perché scelse di coprire il compagno. Si fece un anno e mezzo dentro per non aggravare la situazione penale dell’uomo. «È una cosa old school, di un altro romanticismo. Non lo vedo molto come un discorso di genere, è stata una scelta libera di mia madre. Che peraltro nella sua vita si è trovata a compiere scelte femministe anche suo malgrado».
Una relazione «borderline», tradimenti, prendersi e lasciarsi, «unici amori delle rispettive vite». Il padre di Valerio si chiama Salvatore, tutti lo chiamavano Toto. È proprio il Toto a cui fa riferimento Elodie nel film. Era nato negli anni Quaranta, era molto più grande di Patrizia. Infatti è anni che se n’è andato.
Valerio e Patrizia non sono stati consultati dalla produzione di Fuori durante la lavorazione del film. Dunque, la scena ora la lasciamo a lui. [Introduzione di Elisa Teneggi]

Foto: Mario Spada
Il 22 maggio è uscito Fuori, un film di Mario Martone tratto dal libro autobiografico di Goliarda Sapienza, L’università di Rebibbia. La scrittrice racconta una sua esperienza realmente vissuta: una parentesi apparentemente infelice in carcere, durante la quale si confronta – attraverso le storie delle sue compagne di cella – con una realtà opposta a quella borghese, da cui era assuefatta ed esasperata.
Le protagoniste del libro, come anche del film, oltre alla scrittrice stessa, sono una serie di donne dalle storie diverse. Tra queste c’è Barbara, personaggio ispirato a mia madre, il cui vero nome è Patrizia. Il suo ruolo è interpretato da Elodie, eroina moderna per bellezza e autenticità, molto affine a mia madre.
Per anni ho ascoltato aneddoti legati a quel momento storico: storie che hanno alimentato le fantasie di me bambino, sospese tra il trauma e la delizia. Al momento, il mio stato d’animo è agrodolce: diviso tra l’enorme tenerezza che provo per la mia mamma – obnubilata da una perenne depressione, conseguenza delle sue scelte; prima rabbiosa, poi più mite con l’età, ma sempre con una nota di infelicità che le serpeggia negli occhi – e l’amarezza di non essere riuscito a includerla in quel circolo di energia che un avvenimento del genere può generare.

Foto cortesia di Valerio Motta
Fino a oggi mi sono impegnato, attraverso una rete di contatti, a farle arrivare almeno un riflesso di quel riflettore, per celebrarla un po’, per farle pensare che anche quelle che lei considera scelte sbagliate abbiano, in realtà, prodotto esiti positivi. Qualcosa che ha un valore.
Nonostante qualche piccola soddisfazione telefonica, ho ottenuto ben poco. Eppure, l’idea di vederla risorgere un po’ – magari fasciata in un bell’abito e celebrata come una sopravvissuta a sé stessa – non mi abbandona.
Intanto ho goduto del film. Quella Mercedes spider color aragosta di mio padre, che si intravede nel trailer, e quelle fasce sulle braccia che nascondevano cicatrici di cui mi è stata celata l’origine per anni, sono state parte di un’emozione che già conoscevo.
Tenera è stata mia madre, che ha voluto andare al cinema da sola, come se avesse bisogno di vivere quell’esperienza in intimità.
Quando ne abbiamo parlato, ho notato come minimizzasse certe scene dolci tra le protagoniste, quasi a giustificare una bellezza che per lei è forse fonte di imbarazzo.. Ma poi, con un’aria da vera diva, piena d’aria in petto ha sbottato: “Comunque, so’ stata sempre la più fregna!”.

Foto: Mario Spada
Questo suo modo di essere, tanto infantile quanto narcisista, mi ha fatto sempre sorridere. È come se nel suo cuore ci fosse sempre ancora la ragazza che voleva brillare, che desiderava essere al centro dell’attenzione, la più bella di tutte.
Sono stato un figlio traumatizzato, confuso, affascinato, pieno di vergogna a causa della sua presenza ingombrante, oggi sono un adulto orgoglioso di lei, nonostante tutto. La sua fedeltà all’amore, all’amicizia e alla vita stessa è ciò che la rende la più carnale forma del concetto di coraggio.
Riflettendo sul film, emergono differenze significative rispetto al libro. Mentre L’università di Rebibbia è un racconto più crudo e politico, radicato nel mondo carcerario e nelle sue ingiustizie, il film di Martone ha scelto di seguire una storia d’amore che, pur avendo il suo fascino, rischia di sminuire l’importanza di un messaggio più profondo. La narrazione del film, pur bella, evidenzia parzialmente l’essenza corale e complessa delle vite delle protagoniste.
In un certo senso, la distanza tra il mondo del cinema e le storie reali che lo ispirano solleva interrogativi su un’eventuale appropriazione culturale. Ci si può chiedere se queste narrazioni, pur belle e toccanti, riescano davvero a restituire la verità di chi ha vissuto quelle esperienze.
Fuori rimane comunque un film che invita a riflettere su storie di vita e su come il passato plasmi il presente. La visione ha riaperto ferite e ricordi, ma ha anche rinvigorito il mio orgoglio per una madre che, nonostante le difficoltà, ha sempre trovato la forza di resistere.
E, sì, Patrizia aveva davvero un negozio di profumi.