Lo avevamo già scritto (qui): El Jockey è stato il (magnifico) cavallo pazzo (pardon) di Venezia 81, il must see della Mostra dello scorso anno, di cui qui vi mostriamo anche una clip in esclusiva. E ora che sta per arrivare nei cinema italiani (dal 17 luglio con Lucky Red) abbiamo chiacchierato con Luis Ortega, una delle voci più libere e spiazzanti del cinema contemporaneo. Un autore che mette in scena tossicodipendenti e corse all’ippodromo, travestimenti e redenzione, balletti estemporanei e visioni metafisiche, semplicemente perché “that’s life“. E non c’è niente di più cinematografico. La storia di un fantino rockstar (Nahuel Pérez Biscayart, quello di 120 battiti al minuto) che, dopo un terribile incidente in pista, scopre un altro sé mescola gangster movie e melodramma sportivo, dramedy surreale e character study queer, Buster Keaton e Kaurismäki, e riesce a farlo senza mai sembrare programmatico. Ortega non ama i generi, né i confini. E anche questa intervista, come il suo film, è una corsa senza briglie.
Partiamo dal nome del tuo protagonista, Remo Manfredini, perché è – uso una brutta parola – iconico. Sembra uno che ha vinto il Palio di Siena o il membro di una band post-punk degli anni ’80. Come ti è venuto in mente? E quanto di Remo avevi già in testa prima di lavorare sul personaggio con l’attore?
Be’, per quanto cerchiamo di evitare questo argomento, penso che in un certo senso tu stia sempre parlando di te stesso, che il tuo personaggio sia una donna, un uomo o un bambino. È molto difficile non rappresentare la propria esperienza. Sì, ho vissuto situazioni molto simili a quelle di Remo Manfredini.
Hai avuto una vita impegnativa.
Sì. Non corro con i cavalli e non ho ucciso nessuno, per ora (ride). Ma ho un amico che fa musica punk e ama le corse. Stavo scrivendo la sceneggiatura, lui non dormiva da 15 giorni, più o meno, e veniva a trovarmi in ufficio. Così gli ho chiesto: “Come potrebbe chiamarsi il fantino?”. E lui ha risposto: “Remo Manfredini”.
E ti è rimasto in testa.
Sì, è un nome perfetto. Ed è arrivato così, è più autobiografico di quanto vorrei.
Questo film non parla tanto di fantini, né di cavalli. Parla di cambiare pelle, di rinascita, di identità…
Non so di cosa parli, in realtà. Ma penso che tratti, in un certo senso, di quando nasci, sei un bambino, poi un adolescente e infine diventi adulto. Ma non hai mai, mai, mai idea di cosa stia succedendo. Ti limiti a fare quello che devi, ma nel profondo, a livello spirituale, non sai davvero cosa stia accadendo. La vita è come un trucco di magia talmente perfetto che è impossibile da capire. I fili e il mago scompaiono, vedi solo il trucco: una specie di miracolo. Ma non sai come funziona. Alcune persone forse si buttano nell’introspezione, nella droga, in una situazione di vagabondaggio, o provano a essere qualcun altro. Diventi un senzatetto, un tossicodipendente, una donna. E poi combini un gran casino e vai in prigione. Fai cose disperate per vedere se accade qualcosa che riveli chi sei. Ma quel “te stesso” forse nemmeno esiste.
In un certo senso questo film è stato catartico per te?
Be’, sì. Perché, mentre scrivevo il film, la mia compagna era incinta. E dovevo capire come cambiare la mia vita per diventare padre. Quindi ho dovuto modificare me stesso per essere una figura paterna sana, per esserci davvero. E, allo stesso tempo, ho pensato di rinunciare a cercare un significato alla vita. Di vivere e basta.

Úrsula Corberó (Abril) e Nahuel Pérez Biscayart (Remo Manfredini). Foto: Lucky Red
Di lasciarti trasportare…
Esatto, seguire la corrente. E non cercare più di scoprire il senso della vita, perché chissà… Ma mi interessava questo punto di vista speciale, quella consapevolezza acutissima che ha il personaggio. Sta in un angolo, osserva la gente passare e capisce che la vita è una specie di miracolo. Dio è lì, ma non c’è. Non puoi vedere i fili. Assisti solo al miracolo. E tutto questo avviene dopo che Remo cade da cavallo. Perché finché sei in gara, non riesci a capire nulla, devi allontanarti dal meccanismo sociale. Solo quando cadi da cavallo, prendi una bella botta in testa e non sei più nella corsa, allora puoi davvero vedere quel miracolo.
Come hai scelto Nahuel Pérez Biscayart?
Eravamo vicini di casa da adolescenti. E abbiamo fatto un altro film insieme, Lulú, che è stato in programmazione qui alla Cineteca di Milano. Secondo me Nahuel è uno dei migliori attori al mondo. All’inizio volevo prendere un ragazzo dalla strada per questo ruolo, ma era davvero troppo “fuori”. Mi ha detto che recitare era un lavoro stupido. Così ho pensato: “Chiamo Nahuel, perché può interpretare benissimo una donna, un senzatetto, un tossicodipendente”.

Daniel Giménez Cacho (Rubén Sirena) e Nahuel Pérez Biscayart (Dolores). Foto: Lucky Red
In lui ho rivisto un po’ di Buster Keaton, perché parla pochissimo ed è molto fisico. E poi anche un personaggio di Almodóvar. È molto vulnerabile sia nei panni di Remo che in quelli di Dolores.
Sì, è un attore meraviglioso. Non ci vedo molto Almodóvar, però vado decisamente matto per Buster Keaton.
Invece come sei arrivato a Úrsula Corberó? L’hai vista nella Casa di carta? E cosa simboleggia per te il suo personaggio, Abril?
Non avevo mai guardato La casa di carta, né avevo mai visto Úrsula recitare. L’ho incontrata perché è la fidanzata di un mio amico (Chino Darín, nda). Ci siamo conosciuti per caso e ho sentito la sua energia. Ho pensato che fosse potente, magnetica. Poi l’ho cercata su YouTube, ballava molto bene. Aveva questo dono misterioso, che forse nemmeno lei sapeva di avere. Nella mia esperienza, le donne sono sempre state più oneste nei sentimenti, più forti in questo. Non sono sempre alla ricerca di un obiettivo, sono innamorate del destino. Coinvolte dal mistero della vita e del dare la vita. Non tutte, certo. Ma ho avuto la fortuna di incontrare donne molto generose e brutali al tempo stesso. Ti mettono uno specchio davanti e ti mostrano chi sei davvero. Non so se funzioni anche per loro, è sempre più facile leggere qualcun altro. Ma ho avuto compagne fantastiche. Senza la loro visione, affrontare la vita sarebbe stato impossibile.

Nahuel Pérez Biscayart (Dolores) e Úrsula Corberó (Abril). Foto: Lucky Red
Abril ha anche una grande apertura mentale.
Sì, le donne sono davvero in contatto con i loro sentimenti. È come se la loro missione fosse più grande della vita stessa. E magari l’altro è ossessionato dal girare il suo prossimo film, ma ci sono cose più importanti. Forse non per me. Ma è incredibile che esista chi guarda alla vita così profondamente, senza puntare per forza a un traguardo. Abril è un fantino, è competitiva, non si fa mettere i piedi in testa. Ma unisce tutto questo a una tenerezza rara: la capacità di occuparsi e preoccuparsi per gli altri pur restando fortissima.
Nahuel e Úrsula sono anche protagonisti di una scena di ballo instant cult. Ce l’avevi in mente fin dall’inizio?
Sì, ma non l’abbiamo mai provata. Avevamo ballato un po’, ma senza nessuna coreografia. Avevo fatto un altro film, L’angelo del crimine (El ángel), dove avevo scelto un ragazzo preso dalla strada. Non piaceva ai produttori, non piaceva a nessuno. Così ha vissuto con me per sei mesi. A un certo punto gli ho detto: “Ora vieni a casa mia a rubare, entri da una finestra, poi metto un po’ di musica e balliamo”. Abbiamo ballato per mesi. Amo le scene di danza: spezzano la narrazione lineare, quel bisogno di spiegare tutto. In quest’ultimo film, quel ballo dice tutto sul rapporto tra i due protagonisti, senza bisogno di parole.
Ho pensato anche a Kaurismäki, ovviamente: qui lavori con il suo direttore della fotografia, Timo Salminen. C’è quell’umorismo impassibile, l’amore per i perdenti, che però fai tuo: il tuo film è più caldo, più “disordinato”. Traduci tutto in un modo “latino” di fare cinema.
C’è una tradizione, sì. Buster Keaton, Ozu, Bresson. E poi Kaurismäki, certo, ma anche Jarmusch. Registi che usano una recitazione non “costumbrista”. E mi piace. Penso che sia un modo economico di esprimersi. Ma sì, sono latinoamericano, e noi siamo appassionati, estroversi. Indubbiamente c’è Kaurismäki, perché il direttore della fotografia è praticamente inseparabile da lui, ha fatto ogni suo film. Quando vedi un’inquadratura con la luce di Timo Salminen, la riconosci.
Come mi hai detto prima, c’è qualcosa di molto punk nel modo in cui il tuo film si rifiuta di essere definito. È tante cose, ma con una sua unicità assoluta. Come si fa a piegare i generi così?
Cerco solo di essere il più onesto possibile. Vivo orrore e commedia quasi nello stesso momento. Magari qualcuno ti vuole uccidere, ma succede anche qualcosa di buffo. E poi diventerai padre, ti ritrovi a vagare per strada e pensi: “Non so nemmeno prendermi cura di una pianta, come farò con un essere umano?”. E l’industria del cinema è piena di pressione. È come se a gestirla ci fossero dei gangster che cercano solo di vincere, vincere, vincere, vincere. Di nuovo: non tutti, ovviamente. Ma ho avuto incontri con alcuni produttori che mi dicevano: “Dobbiamo vincere, dobbiamo vincere”. Così l’ho inserito nel film. Poi mio fratello ha iniziato a mandarmi foto alle quattro del mattino vestito da donna, non l’avevo mai visto così in tutti questi anni. E ho un amico che si trovava in una situazione pericolosissima e violenta, ha finito per uccidere un tizio e poi è andato in prigione. Tutto questo succedeva mentre giravo il film. Mio fratello, io che divento padre, il mio amico in carcere, i produttori che vogliono vincere… E poi, una volta, ho sognato che mio figlio era nero. Così nel sogno ho chiesto a sua madre: “Cosa è successo? Perché è nero?”, e lei ha risposto: “Non preoccuparti. Diventano così con il tempo”. Così ho preso quel sogno e l’ho inserito nel film. È un mix di esperienze che si trasformano in commedia, horror, romance…

Foto: Lucky Red
Com’è la situazione dell’industria cinematografica in Argentina dopo i tagli di Milei?
È orribile. Questo presidente è contro ogni forma di espressione artistica. Odia la cultura. Non vuole che nessuno dica nulla, nemmeno a suo favore. È un pazzo, dovrebbe stare in un istituto psichiatrico. È talmente ovvio che basta guardarlo in faccia. Da quando è al potere, non si è fatto nemmeno l’1% dei film con sostegno statale. Non vuole che si facciano film, non vuole che nessun artista si esprima. E questo è molto stupido da parte sua. Ma penso che proprio per questo sia un buon momento per continuare a creare.
Tralasciando i tagli, artisticamente com’è il cinema in Argentina oggi? Ci sono autori che apprezzi?
Non lo so. Dall’esterno magari si può dire “com’è il cinema argentino”, ma da dentro no. Non abbiamo un sistema. Non ho amici registi, solo uno. Non ci incontriamo con gli altri, non parliamo. Ognuno vive la sua esperienza.
Quindi non conosci le idee degli altri, né loro conoscono le tue.
Esatto. E poi penso che la maggior parte dei film in giro per il mondo oggi siano narrazioni piatte, stupide. Non si avvicinano per niente all’esperienza della vita. Sono algoritmi narrativi. Dopo Kubrick tutti sanno come fare un’inquadratura. Basta avere i tecnici giusti. Ma non c’è niente di viscerale, niente di folle che somigli davvero alla vita. Ecco: non ci sono film così.








