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Edoardo, Eduardo: come da tradizione

De Angelis, consacrato al cinema da ‘Indivisibili’, dirige per Rai 1 una personale (ma classicissima) versione di ‘Natale in casa Cupiello’ di De Filippo, con Sergio Castellitto. Dialogo tra libertà e verità

Foto: Elio Di Pace

Eduardo, Edoardo. Il giochino è facile ma inevitabile, e c’è pure l’aggravante del “De” nel cognome, De Filippo contro De Angelis. Ma non è uno scontro, semplicemente son passati i decenni e, dopo la commedia a teatro (1931) e i suoi adattamenti televisivi (1962 e 1977), è il nuovo Edoardo, già regista al cinema di Indivisibili e Il vizio della speranza, a portare su Rai 1, il 22 dicembre in prima serata, Natale in casa Cupiello del vecchio Eduardo. Una versione fedelissima e insieme libera (il finale appena appena riveduto, forse corretto), magnificamente recitata (Sergio Castellitto al posto di De Filippo, ma anche Marina Confalone, Tony Laudadio, Adriano Pantaleo, Pina Turco, Alessio Lapice, Antonio Milo), visivamente e musicalmente (splendida colonna sonora di Enzo Avitabile) ricchissima, davvero festosa.

Guardi questo nuovo Cupiello e pensi: viva la Rai.
Cercavo di fare una cosa mia, ma su un testo non mio. E poi mi ha sempre stuzzicato l’idea di portare un certo linguaggio, che io ho usato nel cinema di ricerca, al pubblico generalista. Adesso vedremo se questa cosa genererà un corto circuito o un abbraccio. Ma devo ammettere che tutta la dirigenza Rai ha lavorato con me con grande rispetto, mi ha permesso di girarlo come avrei girato un film. Non ho mai pensato a interventi di natura estetica che fossero riferiti allo specifico della destinazione televisiva. Che poi è la riflessione che si sta facendo in questi anni rispetto alle barriere estetiche tra cinema e televisione, che si stanno sgretolando.

A un ragazzetto di oggi farà poco effetto, ma per noi nati a cavallo degli anni ’70 e ’80 la prima serata su Rai 1, per giunta sotto Natale, resta una roba grossa.
Mi emoziona molto, sì. Anche perché, quando fai i film che faccio io, hai sempre la sensazione di una certa lontananza dalle persone con cui sei cresciuto, dai tuoi famigliari. Invece la Rai è un territorio condiviso, comune. Grazie a questo film, forse tanti che mi sono vicini potranno veramente scoprire che mestiere faccio. Non che non sia successo con gli altri miei film. Ma di base si sentono ancora distanti da un certo tipo di prodotto cinematografico, l’idea della Rai mette meno a disagio.

Marina Confalone. Foto: Gianni Fiorito

Dicevi “un testo non mio”, ma Eduardo è una cosa più grande ancora.
Ma sai, non è nemmeno corretto dire “un testo non mio”. È un testo così bello che appartiene all’umanità, e quindi appartiene anche a me. Se invece che raccontatori ci definiamo gente che tramanda le storie della tradizione, allora ogni volta che le tramandiamo usiamo sì la nostra voce specifica, ma stiamo sempre riportando una storia la cui origine si perde nella notte dei tempi. Lo stesso Eduardo tramandava le storie della sua famiglia. Avendo influenzato così tanto il nostro modo di vedere i rapporti sociali, Eduardo è diventato una sorta di persona di famiglia: per questo tramandiamo le sue storie, e altri le tramanderanno ancora nel futuro.

Per un artista napoletano il confronto con De Filippo è obbligatorio, a un certo punto della carriera? Penso al teatro di Toni Servillo, al recente Il sindaco del rione Sanità di Mario Martone…
Io con Eduardo ho una relazione viscerale, il modo in cui ho girato i miei film non può prescindere dal suo insegnamento. C’è un elemento che vale per tutti: lui è riuscito nella magia di scrivere commedie che sono state percepite come racconti allegri, ma che tecnicamente sono tragedie. Se analizzi Natale in casa Cupiello, è una tragedia. Ha tutti gli elementi tipici della tragedia, compresa la morte del protagonista sul finale. Eppure, Eduardo ha innestato sulla tragedia l’attitudine alla risata. E questo è anche il centro della mia indagine sul cinema. Cerco di far convivere, addirittura nello stresso fotogramma, la disperazione più profonda e l’attaccamento gioviale alla vita. Perciò non è stata una chiamata: è stato come lavorare su qualcosa che faceva già parte di me.

Sai cosa m’è piaciuto moltissimo? Tutte quelle inquadrature del pavimento e dal pavimento. Non si vedono quasi mai i pavimenti delle case, nei film.
Questo è un racconto di incontri, di abbracci, di scambi di fiati. Ma il pavimento non lo inquadro per questione ornamentale. Il testo deve vivere di relazione tra l’elemento sognante e trasognato, che in questo caso è rappresentato dal presepe o dalle aperture verso l’esterno, e la terra su cui posiamo i piedi. E, in una casa, la terra è il pavimento. Per me è una novità, mi sono spostato da drammi lontani dalla dimensione borghese alla dimensione squisitamente borghese dell’opera di Eduardo. Ma non ho voluto perdere la terra.

Sergio Castellitto, eccellente Luca Cupiello, è l’unico non napoletano. Mi piace che, da napoletano, tu te ne sia fregato dell’appropriazione culturale, come si dice oggi.
La mia prima intenzione era quella di fare tabula rasa del ricordo di Eduardo attore, perché l’interpretazione è qualcosa che non si può rimettere in scena. I film devono assomigliare alla vita, non ad altri film, ad altre esperienze artistiche. Per fare questo, ho lavorato sul testo come avrei lavorato su un qualunque copione cinematografico: gustandone la bellezza, ma consapevole del fatto che quel copione, come diceva Pasolini, si sarebbe eclissato, sarebbe diventato altro da sé. Sarebbe diventato cinema. Castellitto e tutti questi altri magnifici esseri umani, con i loro corpi e le loro voci, hanno realizzato questo scarto incredibile tra la carta e la vita. Ho un’attitudine molto maniacale, nell’organizzazione delle riprese. Ma questa attenzione ad ogni minimo particolare è finalizzata solamente a generare un meraviglioso imprevisto che nessuno aveva considerato, ma che è ciò che poi rappresenta l’anello di congiunzione tra l’arte e la vita. Provo un senso di appagamento nel relazionarmi a storie come Natale in casa Cupiello, che mettono in ordine quello che nella vita è disordinato.

Sergio Castellitto e Adriano Pantaleo. Foto: Gianni Fiorito

Questo è il Natale che molte famiglie non potranno passare insieme. Ci lamentiamo sempre del pranzo coi parenti, ma poi improvvisamente ci manca. È una questione di tradizione? Come, del resto, sulla tradizione poggia il tuo film.
Questo è un tema che attrae continuamente la nostra attenzione, ma di difficile risoluzione. Luca Cupiello vede nel presepe il luogo in cui tutti stanno al proprio posto: se sposti un pastore, cambia tutto il significato. Il presepe è un po’ la celebrazione del concetto di libertà, declinato come esperienza che però ha dei limiti. Mentre altri personaggi – uno fra tutti Ninuccia (la figlia del protagonista interpretata da Pina Turco, nda), il motore che fa deflagrare questo mondo – vengono spinti da un sentimento di libertà tout court, un sentimento che porta a distruggere tutto quello che c’è attorno, anche il buono. Questo scontro tra ordine e libertà è un conflitto insanabile. La visione del mondo di Eduardo mi lascia sempre sgomento: anche se non dà una soluzione, in qualche modo ti appaga, perché individua una possibilità.

Il conflitto tra ordine e libertà – vedi i Dpcm e le loro clausole su cui un popolo come il nostro può esercitare pazzamente la propria fantasia – mi pare alla base di questo infausto 2020.
C’è un intero capitolo del Colibrì di Sandro Veronesi dedicato alla diatriba tra verità e libertà. Dice, più o meno, che negli ultimi anni abbiamo fatto di tutto in nome della libertà, come se la libertà fosse il valore assoluto; e in nome di questa libertà possiamo azzerare, incenerire tutti gli altri valori. Ma ci siamo chiesti se non fosse più importante la verità? La verità è un concetto che prevede dei limiti: ha il limite di essere vera. Ma a volte è più importante della libertà. Lo faccio dire a Marina Confalone (che in Natale in casa Cupiello interpreta Concetta, la moglie di Luca, nda) nel Vizio della speranza: la libertà è un campo vuoto, senza niente, che te ne fai? Il cinema è la meravigliosa sintesi di questo rapporto tra libertà e verità, perché è un luogo dove, all’interno di una serie di gabbie, l’attore è libero. Noi esseri umani siamo tutti concatenati, Eduardo lo dice benissimo in un’altra meravigliosa commedia che è Mia famiglia. Dice: voi siete fissati con questa libertà, ma non vi rendete conto che in una famiglia siamo come una catena; se una maglia si allenta, tutte le altre maglie poi cadono. Perciò non ci può essere libertà. La libertà intesa in senso assoluto è ’na strunzata.

Un autore come te, nato in un certo tipo di cinema, oggi sente per forza di cose il richiamo della tv, delle piattaforme, dei nuovi cosiddetti player?
Io penso che, al di là del momento di grave sofferenza che sta vivendo questo settore, l’essere umano desidererà sempre tornare in una sala buia insieme ad altri esseri umani e assistere a uno spettacolo tutti insieme. Detto questo, io racconto storie: che siano sul grande schermo o sullo schermo di casa, o su un telefono scassato, o su un muro, questo per me è rilevante solo nella misura in cui mi devo rendere conto di come adeguare il mio linguaggio al mezzo. Ma non sono mai stato un appassionato di tecnologia, conta solo se la storia ti emoziona. La mia natura da autore non viene violentata, la mia esigenza viscerale è raccontare delle storie, poi i mezzi possono essere i più disparati. E se prima potevo dirlo in teoria, adesso posso farlo con cognizione di causa. Parlo di cinema solo per abitudine linguistica, non sono un purista della rappresentazione solo ed esclusivamente nelle sale. Mi ricordo un’intervista a Umberto Eco negli anni ’90, quando si cominciavano a mettere i libri sui cd rom. Gli chiesero se quello avrebbe segnato la morte del libro, e lui rispose che il libro di carta avrebbe continuato a esistere, perché è insostituibile. Dopo vent’anni, ci troviamo coi libri di carta che si vendono ancora, magari pochi, ma sicuramente più di quelli digitali. La stessa cosa riguarda il cinema: non può morire perché è un’esperienza insostituibile, ma al tempo stesso non esiste una battaglia con un altro tipo di esperienza. Possono convivere.

Alessio Lapice e Pina Turco. Foto: Gianni Fiorito

Che storie hai visto e letto durante i vari lockdown?
Intanto, ho fatto montare l’antenna tv, che non avevo: una volta che in televisione ci vado io… Ciclicamente rileggo certi classici. Non c’è anno in cui non rilegga Il giocatore di Dostoevskij. Non lo so perché, in quell’opera lì c’è proprio il bilico tra la vita e la morte, in quel caso rappresentata dal gioco: la sconfitta somiglia alla morte e la vittoria alla vita. Ho letto con piacere Il colibrì. Insieme a Veronesi stiamo scrivendo il suo prossimo libro e il mio prossimo film per il cinema, Il comandante, la storia vera di Salvatore Todaro, sommergibilista durante la Seconda guerra mondiale. È un progetto esaltante. Quanto ai film, non so. Non sono un grande cinefilo, vedo pochi film tantissime volte.

E quei film sono…
Sono due quelli che ho visto di più in assoluto. Un film che rivedo sempre è Underground di Kusturica, che è un po’ il mio maestro, mi ha aiutato a fare il mio primo film (Mozzarella Stories, 2011, nda). L’altro è Over the Top, con Sylvester Stallone che fa gare di braccio di ferro e si porta il figlio appresso. Lo vedevo da bambino e sognavo che mio padre portasse anche me in giro a fare gare.

Un’immagine che, a pensarci, torna in Indivisibili.
Quando fai film, hai mescolato tante di quelle esperienze dirette o indirette che da qualche parte le devi mettere. Io, dicevo, faccio film perché tento di mettere in ordine quello che nella vita è disordinato. Siccome non ci capisco un cazzo, cerco di fare film ordinati. Se osservi, c’è sempre un’unità di luogo, o luoghi che ritornano: mi aiuta nella mia assenza di orientamento. Il film stesso, con la sua geografia ristretta, aiuta a orientarti. Il mondo è uno spazio troppo grande, nel quale ti perdi.

Quindi la verità sta nell’ordine.
Sì, io la trovo nel mettere insieme le cose. Nell’unire i puntini.

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