È stata la mano di Daria D’Antonio | Rolling Stone Italia
E luce fu

È stata la mano di Daria D’Antonio

Il film di Sorrentino per cui è stata la prima donna a vincere il David per la fotografia («Sì, ma ex aequo con un uomo»), il lavoro e l'amicizia con «Paolo», l'empatia come mantra, ma anche la cerimonia di qualche sera fa e il trattamento di solito riservato delle maestranze. Fino al premio a La Settima Arte di Rimini. E poi chi le ha insegnato a "vedere", come dice Silvio Orlando in 'Parthenope'

È stata la mano di Daria D’Antonio

Daria D’Antonio con Paolo Sorrentino sul set di ‘Parthenope’

Foto: Gianni Fiorito

Il titolo di questo pezzo, ça va sans dire, è una licenza poetica dal film di Paolo Sorrentino per cui, nel 2024, Daria D’Antonio è stata la prima donna a vincere il David per la fotografia («Sì, ma ex aequo con un uomo», sottolineerà giustamente lei). Quando ci sentiamo al telefono è il famigerato day after i David di Donatello 2025 (a cui era nominata per Parthenope) ed è ancora a Roma: «Oggi sono quasi tranquilla, anche perché ho finito di lavorare». Due giorni prima, mi racconterà infatti, si sono concluse le riprese della sua terza collaborazione con Sorrentino, La grazia. Nel weekend poi sarebbe stata ospite del festival La Settima Arte Cinema e Industria a Rimini, manifestazione dedicata ai tanti “mestieri” del cinema, per ritirare il premio alla fotografia: «Sono contentissima! Ho un marito emiliano e scherzavamo che alla fine la sua regione mi ha premiato prima della mia», ridiamo. «Ma davvero, mi fa piacere perché sono implicate persone che stimo molto – Farinelli, Avati, Menarini, Sesti – ed è un riconoscimento in qualche modo diverso, dove non c’è una competizione con altri. Poi mi inorgoglisce anche per il mio gruppo di lavoro, gioiamo sempre tutti insieme, per me è sempre come vincerlo con loro».

Partiamo dall’attualità: come è andata ai David? Al di là di tutto, immagino vi aspettaste di più.
No, no. Secondo me è anche sbagliato aspettarsi le cose, nel senso che è imponderabile, ci sono tante persone che votano e che hanno gusti diversi, per cui il film se arriva è un piacere, se non arriva pazienza.

Invece come hai vissuto la cerimonia?
Io sono un po’ provata, ti dico la verità, ero stanca e mi è sembrata lunghissima. In generale sono molto d’accordo con Pupi Avati, c’è un’opulenza che non corrisponde al momento storico che attraversa il nostro settore. Però sono stata molto felice che, a differenza degli altri anni, ci sia stato anche qualche intervento politico.

Tanti, rispetto alla media.
Ma era ora! Negli ultimi due anni ho sperato che qualcuno parlasse di quello che ci riguarda più da vicino – e quindi la crisi del settore – ma anche delle scelte del governo sulla cultura, l’istruzione. Sono d’accordissimo con Margherita [Vicario], se fossi dovuta salire sul palco avevo scritto un foglietto con gli stessi concetti. Le uniche armi di cui abbiamo bisogno adesso sono l’educazione alla bellezza, l’empatia, l’altruismo, l’istruzione e la cultura. Non certo il riarmo. Non è questa la guerra che dobbiamo combattere.

Daria D’Antonio sul palco. Foto: Riccardo Gallini/GRPhoto

Ma te li aspettavi questi discorsi?

Da alcuni sì, tipo Elio [Germano]: lo conosco e so che è una persona estremamente coerente, quello che dice pubblicamente poi lo applica nel privato. Lui, Michele Riondino… sono militanti. Gli interventi poi hanno alleviato la pena di questo spettacolo che, onestamente…

Ecco, parliamone.
Io non trovo che si debba fare per forza uno spettacolo. Poi sono anche abbastanza contro le competizioni in generale, penso che ci sia bisogno di attenzione e di omaggiare lo sforzo, il talento di tutti. Sono anche molto dispiaciuta che diversi colleghi per me meritevoli non fossero nemmeno in cinquina, però è quello che succede quando c’è una gara: ovviamente rimane fuori anche un sacco di cinema di qualità. Invece sono molto favorevole allo scambio di opinioni, al dibattito culturale, alla critica costruttiva, secondo me si potrebbe fare non solo un David di Donatello, ma vari incontri in cui la gente si confronta, parla del lavoro. Lo troverei più interessante, nel mio mondo ideale. Poi ci sta pure che una sera uno fa una festa, si mette il vestito e si trucca bene. Però sono convinta che poi si debbano fare delle cose di sostanza per rimettere al centro la cultura, che è un bene primario, non una cosa accessoria. E, prima ancora della cultura, l’istruzione.

Va bene celebrare, se però poi non ci sono più soldi non resta niente da celebrare.
Sì, è chiaro che la cerimonia vuole dare un’allure a un ambito che, adesso come adesso, non vive esattamente questo gran momento. Quindi mi è piaciuta l’attenzione al “nostro” e anche a quello che c’è fuori. Che poi è quello che amo del mio lavoro: il privilegio, la possibilità che mi dà di guardarmi continuamente intorno e di andare oltre me stessa, di poter cambiare il punto di vista e raccontare storie. Abbiamo il dovere morale di rivolgere lo sguardo anche oltre noi, più lontano. Per me è molto importante che si sia parlato di Gaza, perché io non posso pensare di vivere in un mondo così atroce.

Daria D’Antonio con Pupi Avati a La Settima Arte: Foto: Riccardo Gallini/GRPhoto

Non avrei potuto dirlo meglio. Un’ultima cosa sui David: cosa ne pensi del trattamento delle maestranze? Sembra sempre un po’ una patata bollente e non si capisce perché. Quest’anno finalmente i premi sono stati assegnati in teatro e non più dietro le quinte, però a un certo punto c’è stata una specie di accelerazione, quando toccava alle cinquine “tecniche”.
Se vogliamo parlare della facciata, dell’aspetto più glamour, ovviamente ci sono i registi, gli attori. Però il regista o l’attore da soli non possono fare un film, per cui è anche un pensiero stupido. Io credo davvero che le tante persone implicate, anche quelle con responsabilità minori, tutte indistintamente collaborino alla realizzazione di un film. Perché è lo sforzo di tutti che rende concreta l’idea di alcuni. Rivolgere l’attenzione o la cura che meritano anche ai gesti più piccoli è una cosa che dovremmo fare nella vita in generale. E dunque io non voglio vivere in questo mondo atroce, però capisco perché poi questo mondo è atroce. Bisogna dare a tutti il valore che meritano. Perciò, boh, lo capisco fino a un certo punto, poi – sai – non succede solo nei momenti di festa, anche sul set c’è sempre un atteggiamento non paritario tra alcuni ruoli. Che va bene, ci sta, è anche una questione di protezione, magari dipende anche da cosa metti in campo di te. Questo per me è un mestiere artigianale ed è un lavoro di gruppo, che è anche il motivo per cui lo faccio. E un gruppo che crea insieme ha un valore politico, ha un significato che va oltre la professione. Se tutto questo poi non viene valorizzato, penso che sia un peccato anche per chi non lo capisce.

Nei prossimi giorni esce L’infinito, esordio alla regia un po’ kaurismakiano di Umberto Contarello: com’è stato lavorare a un’opera prima di un debuttante che ha 65 anni?
Per me è stato divertentissimo lavorare con Umberto. Noi abbiamo due carissimi amici in comune: uno purtroppo non c’è più ed era Carlo Mazzacurati, l’altro è Paolo [Sorrentino], che, per quanto sia un regista con cui collaboro da tanto, è anche un amico molto caro. Umberto ed io ci siamo sempre sfiorati, ma mai conosciuti a fondo come quando abbiamo preparato e girato questo film. È una persona molto intelligente, sagace, ironica, e ho apprezzato molto questo tentativo di mettersi così a nudo, la sua necessità di raccontarsi, di raccontare un momento preciso della sua esistenza. E trovo che sia anche un grandissimo attore.

L'infinito | Trailer Ufficiale

Sì, perché poi è un doppio esordio: alla regia e come interprete.
Spericolato! Infatti gli ho detto: “Sei proprio un megalomone” (ride). Poi devo dire che il film ci ha legato, ci vogliamo bene, ci siamo compresi. A me piace cercare sempre di capire, entrare in forte empatia con il racconto e con chi racconta. Per cui è stata una bella esperienza di amicizia. E quando lui mi raccontava le cose, le visualizzavo abbastanza in bianco e nero.

Quindi quella del bianco e nero è stata una proposta che gli hai fatto tu?
Sì, perché c’era qualcosa tra Kaurismäki, Jarmusch, la mente di Pazienza… insomma, io non vedevo tanto colore. Ma nemmeno un bianco e nero troppo contrastato, l’idea era fermarsi un attimo prima del colore, ecco. E poi devo dire che il risultato non è un film di maniera. Sono onesta, desideravo prima o poi fermarmi un attimo prima del colore, e questa mi è sembrata davvero la storia giusta. Quando gliel’ho proposto, lui si è veramente entusiasmato e ha risposto: “Io non osavo, ma era esattamente quello che avevo in testa”. Poi lui è un grande oratore, essendo un bravo scrittore usa molto bene le parole. Non è facilissimo da comprendere, però è interessante da seguire. Per cui alimentava la mia fantasia in bianco e nero. E allora ci siamo ritrovati proprio in quel punto prima del colore.

Il cinema italiano ha sempre avuto una tradizione legata a direttori della fotografia che sono quasi delle figure mitiche. Penso a Vittorio Storaro, che si è battuto per essere riconosciuto come autore e ora, anche ai David, la definizione è proprio “autore della fotografia”. Tu come la vedi? Ti senti riconosciuta come autrice del tuo lavoro o pensi che ancora oggi ci sia una certa resistenza a considerare la fotografia un atto di scrittura?
Sì, però è sempre è un atto di scrittura coadiuvato e sostenuto da un’idea di chi il film lo ha scritto, lo ha ideato e lo immagina. A me piace pensarla così, sarà forse anche per attitudine caratteriale, e non credo che questo sminuisca nulla. Credo che invece il mio lavoro sia proprio quello di cercare di comprendere, di essere di sostegno, di ispirazione, di aiuto, ma non di imposizione. Di completare la visione di un altro. Poi non so se questa si chiami autorialità o meno.

Tu dici: a me non importa che mi chiamino direttrice o autrice della fotografia, perché quello che faccio non cambia.
No, sai cosa mi importa? Che uno provi un’emozione o che riconosca qualcosa, lo sforzo che faccio per seguire quel racconto. E, se c’è bisogno, per andare in opposizione, ma sempre perché è richiesto da quel racconto. Il mio sguardo deve essere di completamento, di appoggio a una visione che però è quella. Anzi, penso di poter dare il meglio quando ho delle registe e dei registi molto forti e consapevoli con cui collaborare.

Sei anche però una delle pochissime autrici della fotografia italiane a cui viene anche riconosciuto un tocco. Come ci si riesce a, come dici tu, essere di sostegno, ma allo stesso tempo avere una personalità che poi si vede?
Eh, non lo so, bisognerebbe chiederlo a chi lo riconosce. Non penso di avere uno stile, ma penso di avere un’attitudine. Che è proprio di comportamento, di come io sto nelle cose.

È bellissimo come torni sempre all’empatia, all’essere persona più che professionista.
È fondamentale, non posso prescindere da come sono, soprattutto in quello che faccio. È una capacità che poi si affina, ma già c’è una buona predisposizione all’ascolto, a cercare di indagare la visione, l’intenzione, l’idea, il pensiero di un altro. Che poi è un’altra cosa che mi piace tanto del lavoro che faccio.

A proposito di tocco, com’è lavorare con Paolo Sorrentino?
Molto bello, perché è anche un regista molto visivo, con un buon gusto. Ci capiamo molto, c’è molta stima, c’è grande fiducia. E poi, anche se non ce lo siamo mai detti, penso che ci sia una cosa che lui sente: e cioè che io non penso soltanto al mio lavoro. Sono molto vigile e in ascolto di tutto quello che accade nel fotogramma, sulla scena. Per cui lui sa che sono una collaboratrice, da questo punto di vista, profondamente sincera, leale e attenta. Che mi interessa che quello che succede… non posso dire “funzioni”, dopo che abbiamo visto Contarello non si può più usare il verbo “funzionare”. Ma che, insomma, restituisca un senso.

Parthenope di Paolo Sorrentino | Trailer Ufficiale

Ma com’è il vostro metodo? Paolo ti racconta e tu in qualche modo vedi?
No, lui non è uno che racconta perché non parla molto e poi anche io, adesso magari ti sembro loquace, ma in realtà non sono molto chiacchierona. Però questo ce lo possiamo pure permettere, perché sono tanti anni che ci conosciamo. Le sceneggiature di Paolo sono già molto descrittive, dense di immagini. E poi, ovviamente, quando entri in un posto ed è già arredato in un certo modo, perché c’è un pensiero condiviso con la scenografia, con i costumi, per cui i personaggi si muovono in uno spazio in un certo modo, si crea già un mondo. E andando dietro a quel mondo, ti trovi a “stare” in quell’esperienza. Poi mi piace perché Paolo è deciso, ci diciamo poche cose all’inizio del film, o almeno: lui mi dice poche cose, io faccio le mie riflessioni e propongo le mie idee, e poi si parte, subito. Non ci sono tante elucubrazioni, siamo belli diretti. Adesso abbiamo appena finito di girare ed è stata un’altra bella esperienza. Ci sono due momenti molto belli, quando lavori con i registi e ci lavori bene.

Quali?
Il primo è quando ti abbracci alla fine del film e senti che in quell’abbraccio c’è veramente l’affetto e la riconoscenza reciproca per essersi appoggiati l’uno all’altro. E il secondo quando finisce la color correction, il regista ti guarda e dice: “È esattamente come me lo immaginavo”. Con Paolo è andata così tutte e tre le volte. No, aspetta, due, perché del terzo film abbiamo appena finito le riprese, manca la color… però anche a questo giro è stata una bella esperienza umana e creativa.

La Napoli di È stata la mano di Dio con una luce più realistica e quella di Parthenope con le esplosioni di sole sul mare, le penombre dei rioni, gli interni ecclesiastici. Cosa c’è di diverso nella luce di Napoli per una che a Napoli ci è nata e con la luce ci lavora?
In È stata la mano di Dio c’è una luce più reale, anche rivisitata perché legata a dei ricordi, soprattutto di Paolo, e a un momento storico. In Parthenope invece c’è stata una ricerca diversa: quando devi fotografare la tua città, le cose che conosci, è molto difficile non essere ovvi, non perché tu debba essere per forza originale, ma ti devi dare la possibilità di esplorare anche strade che non conosci. E quindi per me Parthenope è stata proprio la bellissima possibilità di guardare Napoli in un altro modo, cercando, più che la realtà della luce, la poesia, quello che per me e per lo scritto di Paolo suggeriva…

Cos’è che ti ispira?
Mi piace molto leggere, prima ci riuscivo di più, ma credo che la lettura tenda a dare più suggestioni rispetto a guardare un film o un quadro. La letteratura e la musica sono due grandi portatrici sane di idee. Parthenope è un film sul mistero, sulla libertà, e io ho cercato di assecondare tutto questo. Penso alle chiese in cui ho fatto delle luci che potevano essere giorno, potevano essere notte, non erano per forza plausibili, mentre invece di solito tendo a una luce abbastanza naturalistica, quindi per me è stata un’occasione, mi sono sentita libera di fare cose che non avessero per forza una verosimiglianza o una coerenza. E poi questa sospensione, il blu del cielo… Non ci diciamo tante cose con Paolo, però ce ne sono alcune che aprono i mondi. Quello che mi ha chiesto su Parthenope è stato: dev’essere come un’estate interminabile. Per me è una stagione che rimanda molto alla giovinezza, quindi ho pensato a qualcosa che rimane sospeso, impalpabile.

Foto: Riccardo Gallini/GRPhoto

Ma nella tua carriera c’è qualcosa o qualcuno che, magari soprattutto all’inizio, ti ha insegnato in qualche modo a “vedere”, come direbbe il personaggio di Silvio Orlando?
Mi hanno invitata al Cinema Troisi per una proiezione di Parthenope e mi hanno detto: “Scegli una persona con cui moderare”. Ho invitato Luca Bigazzi, che per me è come il professor Marotta. E prima di tutti ho avuto mio padre, che mi ha insegnato a guardare perché era un uomo molto intelligente… aspetta, mi sto commuovendo. Sono due figure di riferimento, entrambe maschili, forti, che mi hanno aiutata.

Il tuo lavoro è prevalentemente ancora maschile, però sei stata la prima donna a vincere il David per la fotografia nel 2022.
Ex aequo con un uomo, però (Michele D’Attanasio per Freaks Out, nda).

Ecco, sottolineiamolo, giusto. Ma c’è stato un momento in cui appunto, da donna, hai pensato “non ce la faccio”? E uno in cui hai pensato “ce la sto facendo”?
Non ho mai pensato “non ce la faccio” e non mai pensato “ce la sto facendo”, forse anche un po’ per naïveté. Magari se fossi stata a Roma, con l’industria, sarebbe stato diverso, ma ho iniziato a Napoli in una forma più spontanea, anarchica, libera. Mi ci si sono ritrovata perché mi piaceva la fotografia, e qui torno a mio padre, che fotografava, aveva la camera oscura. Io mi sono appassionata e ho capito che fotografare, guardare, mi piaceva molto più che fare altro. Avrò avuto 14 o 15 anni quando ho iniziato a scattare, a stampare. E il cinema è stato una casualità, una possibilità di poter fare quello che mi piaceva e insieme di sostentamento. E poi ho iniziato a guardarlo e ad amarlo in modo diverso. Insomma, non ho mai pensato “voglio diventare” o “voglio essere”, tutte le cose le ho sempre fatte facendole, al meglio delle mie possibilità e capacità. Sono contenta dei risultati, soprattutto perché mi danno la possibilità di scegliere, di poter fare quello che preferisco, che è un grandissimo privilegio. Anche sulla cosa di sentirsi, no? Le persone ti percepiscono un po’ come ti manifesti. E secondo me poi dipende da come sei, quello che senti intorno: io, anche se ci fosse stata ostilità, comunque non ci avrei dato un peso. Ero troppo curiosa, impegnata a guardare altro. Ho iniziato presto, mi sono ritrovata nei contesti giusti con persone stimolanti che mi hanno insegnato tanto. Sui primi lavori che ho fatto – Teatro di guerra, Martone, Pasquale Mari – c’era tanta gente, attori stupendi che mi regalavano libri. Io leggevo, capivo, imparavo, non mi sono fatta tante domande.

Ma invece, a parte l’importanza delle persone, c’è un film che ti ha fatto realizzare che volevi fare questo lavoro?
Sicuramente L’Atalante di Jean Vigo. Anche Il conformista è un film a cui sono molto legata. E ce n’è uno che incredibilmente ho sempre avuto paura di rivedere: Delicatessen. Poi ci sono tanti film a cui sono legata, però non so se c’è stato proprio un titolo, perché nel mio caso non è stato un film che ha scatenato questa curiosità.

Foto: Riccardo Gallini/GRPhoto

Ci pensi mai che adesso c’è qualche ragazza che magari sogna di fare questo lavoro e di diventare come Daria D’Antonio?
Ci penso sempre! E tra l’altro ne ho tante di giovani amiche che cerco di seguire, di supportare. Poi sono quattro anni che partecipo a questo progetto di mentoring con l’Accademia del Cinema Italiano e Netflix, Becoming Maestre, in cui i mentori siamo Bigazzi ed io. Per me è divertente, perché ci possiamo vedere, scambiarci opinioni, stare un po’ insieme. Mi piace l’idea di essere diventata un po’ il riferimento delle più giovani e sono contenta se posso essere d’aiuto: spesso le coinvolgo, ho già un po’ di ragazze in squadra, perché sono molto brave, capaci, affidabili. E parlo nello specifico delle ragazze che conosco.

Quindi non è una questione di genere.
A me non piace fare troppo il discorso di genere. Da una parte credo che andasse fatto per come siamo state trattate nei secoli, però sono anche convinta che adesso sia il momento di non farlo, perché non c’è nulla di particolare nel fatto che una donna sappia fare il nostro mestiere. È molto speciale se una scimmia sa fare il direttore della fotografia… penso che la differenza sia solo un punto a favore, perché è un altro sguardo, un altro insieme, anche tra gli uomini. La bellezza è proprio la diversità di sguardo, di esperienza, chi siamo, da dove veniamo, il contesto culturale in cui ci siamo formati, quello in cui ci formeremo ancora. È quello che ci rende unici e speciali, tutti.