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David Fincher e la reinvenzione di Hollywood

Con ‘Mank’, il regista di ‘The Social Network’ e ‘Fight Club’ ricostruisce la tormentata lavorazione di ‘Quarto potere’ di Orson Welles. L’interpretazione di Gary Oldman, il sontuoso bianco e nero e il décor d’epoca più vero del vero ne fanno uno dei film Netflix di punta per gli Oscar 2021. Ma questa è anche la storia di un’ossessione: Fincher ha impiegato quasi trent’anni per realizzarlo. E di un papà (letteralmente) speciale

Foto: Netflix

Mank è l’appassionante storia della mente geniale e tormentata dietro Quarto potere, quasi sempre considerato il più grande film mai realizzato. Ma non è dedicato al suo regista, Orson Welles. Mette invece al centro Herman J. Mankiewicz, lo sceneggiatore col vizio dell’alcol che fu il vero responsabile di quel ritratto della ricchezza e del potere, e della struttura narrativa non lineare e rivoluzionaria del film. «È una delle voci che hanno davvero tracciato la strada», dice David Fincher, che per portare Mank alla luce ha impiegato quasi trent’anni. «La mia speranza è che gli spettatori si divertano di fronte a quest’uomo così brillante e spesso dimenticato: non gli è stato mai abbastanza riconosciuto il peso che merita».

Mank, che arriverà su Netflix il 4 dicembre, dovrebbe anche riaccendere il dibattito sulla “paternità” delle opere. Se il film è il mezzo attraverso cui si esprime il regista, chi si prende il merito di fronte a un capolavoro? Il quesito su chi sia il vero autore di un’opera ha avvolto Quarto potere fin dalla sua uscita al cinema nel 1941. Dipende molto dal fatto che Welles non era solo protagonista del film: l’aveva anche diretto, prodotto e co-sceneggiato quando era un wunderkind di 24 anni appena. Alcuni dissentono sull’entità del contributo dato da Welles a Quarto potere. Come Pauline Kael aveva scritto nel suo controverso saggio del 1971 Raising Kane (Citizen Kane è il titolo originale del film, ndt) e come Mank rende oggi ancora più evidente, Quarto potere è stato influenzato principalmente dall’amicizia di Mankiewicz con William Randolph Hearst (il magnate dell’editoria che ha ispirato il personaggio di Kane), ma anche dalla sua esperienza personale con i media e la politica.

Potreste pensare che Fincher – uno dei più acclamati artisti del cinema, il cui perfezionismo spinge sempre la sua troupe e i suoi attori a dare il massimo – sia uno dei sostenitori della cosiddetta teorie dell’auteurism, cioè dell’idea secondo cui alcuni talenti sono così ingombranti da permeare ogni fotogramma di un film. Non potreste andare più errati. «Non conosco nessuno, tra quelli che fanno film, che si preoccupi di essere un autore», dice il regista cinquantottenne. «“Siamo un po’ tutti colpevoli di questo” è sempre stata la mia filosofia. Penso che la regia debba di più alle gare tra auto che alla neurochirurgia. È un miracolo quando il risultato si avvicina a quello che avevi in mente. La maggior parte delle volte non succede».

David Fincher sul set di ‘Mank’. Foto: Netflix

È anche una specie di miracolo che a un progetto stravagante come Mank sia stato dato il via libera. Il film sembrava destinato a non arrivare mai sullo schermo. Basato su un copione scritto da Jack Fincher, il padre del regista, Mank inizialmente avrebbe dovuto vedere la luce nel 1990, prodotto dalla Polygram. A un certo punto Kevin Spacey, ben prima dello scandalo sessuale che l’ha travolto, era in trattativa per il ruolo del titolo, mentre a Jodie Foster era stato offerto quello di Marion Davies, l’amante di Hearst. Ma la casa di produzione si tirò indietro davanti all’insistenza di Fincher riguardo al fatto che il film avrebbe dovuto essere girato in bianco e nero come omaggio a Gregg Toland, il direttore della fotografia “espressionista” di Quarto potere. «Per un po’ si è pensato di girare il film a colori e poi trasferirlo in bianco e nero», ricorda Fincher. «Ma sarebbe stato infattibile, dunque il progetto si è completamente arenato».

Perciò Fincher passò ad altri progetti, arrivando ad ottenere due nomination agli Oscar per The Social Network e Il curioso caso di Benjamin Button e poi facendo diventare bestseller come L’amore bugiardo – Gone Girl dei film di grande successo. Mank riaffiorò in superficie quando si mise al lavoro su Mindhunter, la serie Netflix sulle origini dello studio psicologico dei serial killer da parte dell’FBI. La serie fu accolta con entusiasmo dalla critica, ma non incontrò un grande successo popolare. Inoltre, la produzione della seconda stagione fu motivo di grande frustrazione per Fincher, che aveva sperato di non doversi più occupare così da vicino dal progetto. Invece, dopo aver liquidato il nuovo showrunner e aver rifiutato tutte le sceneggiature proposte, si ritrovò a gestire in prima persona il progetto e a trasferirsi a Pittsburgh per dedicarsi alle riprese. «Mi serviva molto tempo», osserva Fincher, che conferma che Mindhunter è stata messa in pausa per un periodo al momento indefinito. «Era una serie molto costosa. Ha trovato un pubblico molto appassionato, ma non ha mai raggiunto numeri che potessero giustificare quei costi».

In una riunione con il co-CEO Ted Sarandos e la vicepresidente delle produzioni originali Cindy Holland, che da qualche tempo non ricopre più quella carica, Fincher confessò che non avrebbe voluto «passare altri due anni di passione» dietro alla terza stagione di Mindhunter. Sarandos gli chiese allora a quali altri progetti avrebbe voluto dedicarsi. Con grande stupore del regista, Netflix non solo accettò il soggetto di Mank, ma gli consentì anche di girare il film in bianco e nero. «Non avevamo nessun timore al riguardo», assicura Scott Stuber, vicepresidente del dipartimento film originali di Netflix. «Perché parliamo di David Fincher, uno dei migliori in circolazione. E perché sapevamo quanto tempo avesse dedicato a questo film, e quanto di personale ci avesse messo dentro. Tutto questo ci stimolava moltissimo».

Gary Oldman nei panni di Herman J. Mankiewicz. Foto: Netflix

Nel novembre del 2019, le cineprese hanno finalmente cominciato a riprendere Gary Oldman nei panni di Mankiewicz, Amanda Seyfried in quelli di Davies e Charles Dance nel ruolo di Hearst. Le riprese sono partite con l’assenza di una delle figure chiave del progetto. Jack Fincher è morto a 72 anni nel 2003, più di dieci anni prima che il set di Mank riuscisse a partire. L’ex capo della redazione di San Francisco di Life era un grande cinefilo, nonché colui che instillò nel figlio David la passione per il cinema. Lo portava a vedere, nelle tante sale della Bay Area che proiettavano vecchi film, capolavori come 2001: Odissea nello spazio, La finestra sul cortile e, ovviamente, Quarto potere. «A otto anni avevo già deciso che avrei voluto passare la mia vita a fare film, e fu mio padre la mia massima fonte: “Devi vedere questo, devi vedere quello”, mi diceva». Fincher cominciò la sua carriera come regista di videoclip, tra cui quello di Express Yourself di Madonna nel 1989 e quello di Vogue due anni dopo, prima di esordire al cinema nel 1992 con Alien³.

Quando Fincher Senior andò in pensione, cominciò a scrivere sceneggiature. Una raccontava la storia del produttore Howard Hughes, un’altra quella dell’artista Margaret Keane e del marito-falsario Walter, ovvero la storia che avrebbe più tardi ispirato Big Eyes di Tim Burton (2014). Ma fu il copione sulla lavorazione di Quarto potere ad attirare l’interesse del figlio, anche se i suoi sforzi iniziali non andarono a buon fine. Era incentrato sulla battaglia di Mankiewicz per la paternità di Quarto potere, nonostante avesse consegnato solo la prima stesura e avesse poi avuto ben poco a che fare con la composizione della sceneggiatura definitiva. «Mi parlò di suo questo lungo papiro che aveva scritto per avere quel riconoscimento e che fu trovato dopo la sua morte», racconta Fincher. «Gli dissi che mi sembrava ci fosse molto materiale, ma che al tempo stesso al pubblico sarebbe fregato ben poco di tutta questa vicenda. Non c’era sufficiente peso drammatico».

Le stesure successive piacquero di più al giovane regista. Si focalizzavano sul passato di Mankiewicz come membro del prestigioso circolo letterario noto come Tavola rotonda dell’Algonquin, e sulla sua scelta di stabilirsi a Hollywood per tirare su un po’ di soldi facendo il “dottore” che correggeva le sceneggiature “malate” per conto degli Studios. Nel frattempo, veniva illustrata anche la complicata amicizia di Mankiewicz con Hearst, attraverso il ritratto delle feste principesche allestite dal magnate nella sua villa di San Simeon. Lo sceneggiatore era uno degli invitati di punta, apprezzato per le sue opinioni acute e però, alla fine, scaricato per i suoi eccessi alcolici. Fincher non lo ammette, ma il tema al cuore di Mank deve averlo stuzzicato come regista: questo, dopotutto, è un film sulla ricerca estenuante e, in definitiva, frustrante della perfezione. Fincher è il regista che, per fare un esempio, ha costretto Robert Downey Jr. a rifare la stessa scena decine di volte sul set di Zodiac, facendo ironicamente paragonare all’attore quell’esperienza ai gulag, come metafora della sofferenza subita. «È un capo che può diventare spietato», osserva Peter Mavromates, co-produttore di Mank e collaboratore di Fincher dai tempi di The Game – Nessuna regola. «È molto esigente. Spinge l’asticella sempre più in alto, ma, una volta che arriva alla fine, tutto è molto migliore di quanto non fosse in partenza. È per questo che chiunque abbia lavorato con lui lo rifarebbe di nuovo».

Foto: Netflix

Inizialmente, Fincher non era convinto di una sola storyline nel copione di suo padre. E cioè la corsa del 1934 per il ruolo di governatore della California tra Frank Merriam e il socialdemocratico Upton Sinclair, colui su cui il produttore Irving Thalberg creò forse la prima pubblicità negativa nella storia di Hollywood, su richiesta di Louis B. Mayer. Il boss della Metro-Goldwyn-Mayer andò su tutte le furie, di fronte alla proposta di Sinclair di aumentare le tasse alle compagnie cinematografiche e di ripristinare una grande casa di produzione statale. Perciò Thalberg usò i talenti sotto contratto con la MGM per realizzare dei corti che demonizzassero Sinclair. Nel film, Mankiewicz inorridisce di fronte a questa scelta dell’industria hollywoodiana di scendere a un livello così basso del dibattito, il che compromette la sua amicizia con Hearst e Mayer. Alla fine degli anni ’90, quando Fox News era ancora agli albori e Donald Trump era un semplice palazzinaro, Fincher non capiva il punto della questione. «Non lo vedevo proprio», confessa oggi. «L’idea delle fake news era così bizzarra. Pensavo: “A chi frega di queste bassezze avvenute nel 1934?”». Ora, cioè nel 2020, il regista ammette che parte del film potrà invece toccare i nervi ancora scoperti degli spettatori che vengono da un’altra ferocissima tornata elettorale. «Quando Jack ha finito la prima stesura, la sua descrizione sembrava quasi moralista. Venticinque anni dopo, suona invece provocatoria», dice Fincher. «Coloro che ignorano la storia finiscono sempre per ripeterla».

Fincher ha girato Mank usando camere digitali, ma il regista e il suo team creativo si sono dannati per riprodurre l’effetto della celluloide di una volta, facendo saltare i fotogrammi così che sembrasse che fossero stampati su pellicola. «La pellicola non è un mezzo sicuro su cui lavorare, se vuoi un risultato costante», dice Erik Messerschmidt, il direttore della fotografia. «La scelta è stata chiara da subito, non ci siamo neanche posti il dubbio sul fatto che fosse meglio girare in digitale». Fincher ha anche chiesto al sound designer di includere quei crepitii che si sentivano nel film prodotti durante la Seconda guerra mondiale. «Doveva sembrare di essere in una sala in cui avevi appena visto Quarto potere e subito dopo ti trovavi davanti a Mank», nota lo scenografo Donald Graham Burt. «Voleva che facesse l’effetto di un film realizzato in quello stesso periodo. Non voleva che gli spettatori capissero chiaramente che era stato girato oggi». Fincher è stato un vero pignolo, in quanto ad accuratezza. Se Burt gli mostrava la macchina da scrivere che avrebbe voluto usare per una scena, il regista lo inondava di domande su quando fosse stata prodotta, se veniva utilizzata nelle case o negli uffici, il tutto per essere il più fedele possibile all’epoca rappresentata.

Questo sistema non è stato adottato per la caratterizzazione che Oldman dà di Mankiewicz. L’attore, che aveva 61 anni quando il film è stato girato, è di vent’anni più vecchio di Mankiewicz quando scrisse Quarto potere. Oldman, abituato a camuffarsi sotto un pesante make-up per interpretare chiunque, dal Conte Dracula a Winston Churchill, aveva chiesto di indossare un naso finto e una cuffia che lo rendesse calvo come il vero Mank. «Ho obiettato: “No, dobbiamo vedere che sei proprio tu a incarnare questo personaggio, non ci dev’essere nessun artificio tra lui e noi”», dice Fincher. «Avevo bisogno di qualcuno che entrasse in una stanza e facesse pensare a tutti: “È lui”. Mi serviva un attore con un grande carisma. Non puoi ingaggiare qualcuno solo perché è calvo o ha lo stesso peso del personaggio che deve interpretare».

Amanda Seyfried è Marion Davies. Foto: Netflix


Mank rappresenta una sorta di ripartenza per Fincher, noto per aver spesso scandagliato i più oscuri recessi dell’animo umano in film come Zodiac o Seven. Invece di sequenze violente e disturbanti, qui ci sono i fratelli Marx che abbrustoliscono hot dog nel camino di Thalberg. E c’è Mankiewicz che sputa acutissime sentenze mentre tracanna whisky, come fosse un Oscar Wilde dell’età del jazz. C’è moltissimo humour in questa storia, e “ironico” non è esattamente il primo aggettivo che ti salta in mente, quando pensi all’opera di Fincher. Anche se i suoi collaboratori di vecchia data non sono d’accordo. «Penso che ci sia moltissimo humour nei film di David», sostiene il montatore Kirk Baxter. «David è un tipo divertentissimo». Fincher è stato sedotto dalla franchezza di Mankiewicz, e dal modo in cui usa le battute come meccanismo di difesa contro un mondo ingiusto. È stato anche affascinato dal ruolo cruciale che Mankiewicz e altri sceneggiatori degli albori come Ben Hecht e Edwin Justus Mayer hanno esercitato nel traghettare l’industria del cinema dall’era del muto a quella del sonoro. Il loro spirito metropolitano, la loro eleganza affinata grazie al lavoro sulla East Coast per riviste come il New Yorker sono stati determinanti per creare un nuovo stile, nei dialoghi che si sentivano nei film. Grazie a loro, il cinema non sarebbe stato più lo stesso.

Un cambiamento simile, e non meno rilevante, sta avvenendo nell’industria dell’intrattenimento ora che servizi di streaming come Netflix stanno oscurando i distributori della filiera tradizionale. Alcuni registi, che amano l’idea che i loro film siano proiettati sugli schermi più grandi possibile, si oppongono a questo cambiamento. Fincher lo abbraccia. «Siamo realisti. L’esperienza della sala non è l’elemento più rilevante della catena, in questo momento», dice il regista, che osserva anche quanto gli schermi dei televisori siano diventati progressivamente più grandi, rendendo la distinzione tra cinema e televisione sempre meno stridente. Inoltre, Fincher crede che il valore aggiunto sia non dipendere più soltanto dai risultati positivi o negativi del box office. Alcuni dei suoi film più amati, come Zodiac e Fight Club, sono stati dei flop nelle sale, e sono stati riscoperti negli anni della Cable Tv o, adesso, delle nuove piattaforme. «Non sono mai stato più felice di lavorare con qualcuno di ora che collaboro con Netflix», dice Fincher. «È come se stessero costruendo un grande magazzino di titoli. È bello che ci sia un posto in cui i film esisteranno sempre, non solo nella stagione estiva o nel più difficile periodo invernale. Ed è un luogo in cui trovi prodotti di ogni tipo. Puoi beccare un cupo film tedesco accanto a una buffa serie israeliana. Loro accettano qualsiasi cosa».

Da quando a Hollywood è esplosa l’ossessione per i supereroi, registi più costosi da finanziare come Fincher, Martin Scorsese (The Irishman) e Spike Lee (Da 5 Bloods – Come fratelli) sono passati a Netflix, in cerca di una più ampia libertà creativa e di un maggiore supporto economico. «So che con me non è una passeggiata», confessa Fincher. «Ma loro cercando persone intraprendenti. Persone che vogliano provare cose nuove, che possano cambiare il sistema». Mank, che negli Stati Uniti verrà distribuito a novembre in alcune delle poche sale rimaste aperte durante il lockdown, sarà protagonista di un’importante campagna per i prossimi Oscar. «È un film straordinario», dice Stuber. «Crediamo moltissimo in Mank, lo spingeremo in tutte le categorie».

Courtesy of Variety

Col suo sguardo alla Hollywood del passato, Mank è il primo titolo di una tornata di nuovi film dedicati alla realizzazione di grandi classici del cinema. Ben Affleck dirigerà The Big Goodbye, che racconterà il making of di Chinatown; mentre Barry Levinson e Oscar Isaac collaboreranno a un film sulla tormentatissima lavorazione del Padrino. Fincher scherza sul fatto che stia creando un nuovo genere, che presto avrà su Netflix una sezione tutta sua. «Ci sono così tante storie incredibile sui dietro le quinte di Hollywood, e ora c’è uno spazio per raccontarle. Mi intrigano entrambe le idee, adoro sia Ben sia Barry, sono curioso di vedere che cosa faranno». Quanto a Mank, aver faticato così a lungo per portare in vita questa storia fa pensare, persino a un artigiano instancabile come Fincher, che è tempo di lasciare il set per un po’. «Voglio solo dormire per i prossimi sei mesi», scherza. «Mia moglie l’altro giorno mi ha detto: “È da troppo che stai dietro a questo film”».

Questa intervista è stata pubblicata su Variety

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