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Cos’hanno imparato Ethan e Maya Hawke lavorando al loro primo film insieme

Si intitola ‘Wildcat’, è appena uscito negli USA, è la storia della scrittrice Flannery O’Connor. Lui l’ha diretto, lei è la protagonista. Li abbiamo incontrati per parlare di dinamiche familiari, eredità, processo creativo. E anche di zuppe e Meryl Streep

Foto: Steve Squall/Oscilloscope Laboratories

Seduti a tavola con la famiglia Hawke, è praticamente impossibile non parlare della prossima stagione di Stranger Things con Maya o di come è stato il set dell’ultimo videoclip di Taylor Swift, in cui Ethan ha fatto un cameo. Ma per il duo padre-figlia, il fatto di aver recitato in un bel po’ di serie e film diventati iconici è l’ultima cosa a cui pensano mentre fanno il punto alla fine di una lunga giornata.

«In questo momento, nella nostra famiglia, mio fratello e le mie due sorelle sono ancora a scuola. E quindi credo che molte delle nostre domande riguardino spesso le loro vicende scolastiche», dice Maya. «Mi sembra del tutto normale».

Ma c’è un film che ultimamente Maya e Ethan non possono fare a meno di citare mentre si passano le patate l’un l’altra: Wildcat. È il loro primo lavoro insieme, con Ethan alla regia e Maya, figlia dell’attore e di Uma Thurman, nel ruolo della protagonista.

«Avevamo un sacco di idee diverse sulle cose a cui volevamo lavorare insieme», dice Maya. «Questo è quello che è successo».

Il biopic, appena uscito nelle sale statunitensi, segue la celebre scrittrice Flannery O’Connor (Maya) mentre lotta per pubblicare il suo primo romanzo e contemporaneamente affronta una diagnosi di lupus.

«Ci sentiamo fortemente in debito con gli altri collaboratori perché abbiamo ricevuto il dono di poter lavorare insieme», dice Ethan. «Gli siamo debitori perché abbiamo dovuto lavorare più duramente di quanto avremmo pensato, abbiamo dovuto prepararci moltissimo».

In vista dell’uscita americana del film, Rolling Stone ha parlato con Ethan e Maya Hawke su Zoom di tutto, dalle dinamiche familiari dentro e fuori dal set al motivo per cui lavorare a un film è molto simile a cucinare una zuppa, oltre a un aneddoto sorprendente sulla tre volte premio Oscar Meryl Streep.

Maya, quando hai preso coscienza del fatto che entrambi i tuoi genitori sono attori di serie A?
Maya: Non so se ne sono consapevole nemmeno adesso (ridono entrambi). Ricordo che da bambina ero su uno scuolabus e dicevo a delle compagne che volevo fare la contadina, e loro mi dicevano: “Perché non vuoi fare l’attrice? I tuoi genitori sono attori!”. E ricordo che crescendo, in quell’età in cui si comincia a fare gossip, sentivo dire che le madri dei miei compagni avevano letto questo o quell’altro [a proposito dei miei genitori] su una rivista. Ricordo cose del genere. A volte sono stata dietro le quinte di spettacoli come The Coast of Utopia (opera teatrale di Tom Stoppard, ndt) e ho toccato l’oceano che era fatto di una gigantesca coperta di seta. Sono andata con mia madre sul set della Mia super ex-ragazza, mi hanno messo l’imbracatura e ho fatto finta di volare. Ma credo che la tua domanda sia rivolta più a una consapevolezza del loro peso e posizionamento culturale. E questo non lo so. Credo che sia qualcosa di cui si diventa consapevoli molto, molto lentamente nel tempo, senza accorgersene.

Probabilmente ti è sembrato normale.
Maya: È questo il punto. Ci sono volute molte interazioni sociali per capire che non era normale, soprattutto crescendo a New York e frequentando le scuole che ho frequentato io. C’erano molti ragazzi che vivevano vite simili alla mia. Ero amica di Cal Freundlich, il figlio di Julianne Moore. Non c’era la sensazione di essere così strani, così fuori dalla norma. Credo che ci sia voluto un po’ di tempo, dopo aver lasciato la scuola, per rendermi conto che: “Oh, in qualsiasi altro posto del mondo sarei andata, questa cosa è rilevante”.

Ethan, quando invece tu hai capito per la prima volta che Maya non solo voleva fare l’attrice, ma che aveva davvero le carte in regola per diventarlo?
Ethan: Be’, caspita, direi – e credo che molti genitori sarebbero d’accordo con me su questo punto – che si ha la percezione di chi sono i nostri figli quando sono molto piccoli. Mi sono sempre sentito in sintonia con Maya. Dal momento in cui ha iniziato a parlare, ho avuto la sensazione di conoscere questa persona e ho pensato che fossimo stranamente simili. Il suo interesse per le arti non mi ha mai sorpreso. Ci sono bambini a cui dici: “Vuoi andare in un museo?”, e loro rispondono: “Per favore, no”. Maya invece rispondeva: “Oh, sì, andiamo al Frick!”. Non sapevo come questo amore per le arti si sarebbe manifestato, perché è sempre stata un’ottima poetessa e una bravissima performer, e le è sempre piaciuto molto stare con persone più grandi di lei. Ed era molto brava a stare in mezzo agli adulti. Aveva una grande abilità in questo senso. Comunque, pensavo che mi avresti chiesto quando ho notato per la prima volta il suo peso culturale. Il fatto che la gente dica: “Ecco il padre di Maya!”. E questo, ti assicuro, succede sempre.
Maya: Solo per una certa età e per una certa fascia demografica. Per le ragazze tra gli 11 e i 15 anni potrei avere il controllo del mercato globale (entrambi ridono).

Avendo tu stesso sperimentato sia i lati positivi che quelli negativi di Hollywood, ti metteva ansia l’idea che Maya entrasse nel mondo dello spettacolo?
Ethan: In tutta onestà, non avevo nessuna ansia. Sentivo che era davvero brava. Lo penso anche mentre facciamo quest’intervista su Zoom. Mi piace il modo in cui risponde alle domande. Mi sorprende, trovo che abbia sempre molto da dire. Penso che il nostro sia un mestiere difficile, certamente, ma non sono mai stato preoccupata per Maya. Francamente, ad essere sinceri, non pensavo che fosse brava in altri campi… (Maya ride). Quindi ho pensato che fosse meglio così.
Maya: In ogni settore ci si trova di fronte a delle sfide, non importa che lavoro fai. Penso che ogni professione abbia i suoi lati positivi e negativi, e che migliori quanto più raggiungi dei risultati e quanto migliore è la comunità che ti circonda. Ogni settore ha i suoi problemi. Sono sicura che anche tu, come giornalista, sarai d’accordo.

Questo mestiere è l’unico che ho sempre voluto fare, quindi posso capire benissimo quello che dici.
Ethan: Ma io credo in quell’impulso. Penso che sia così che il mondo ti parla. Se eccelli davvero in qualcosa, continua a farlo.

Flannery O’Connor in una scena di ‘Wildcat’. Foto: Steve Squall/Oscilloscope Laboratories

Com’è nato Wildcat? Ho letto che tu, Maya, hai portato il progetto a tuo padre. È vero?
Maya: Be’, è il nostro progetto. Mi sono messa in testa che volevo interpretare questo personaggio (la scrittrice Flannery O’Connor, ndt), e ne ho parlato molto anche nelle interviste. Ne parlavo perché stavo cercando Joe Goodman, che aveva i diritti di tutte le sue lettere e i suoi racconti. Poi sono riuscita a metterlo in contatto con Ethan, con la speranza che mio padre volesse scrivere e dirigere una sceneggiatura per me. Il mio insegnante di Letteratura inglese mi aveva assegnato Flannery O’Connor, e io ho deciso di fare qualche lettura in più. Ho trovato il suo Diario di preghiera, l’ho letto e l’ho adorato. E sapevo che mio padre era sempre stato estremamente incuriosito dalle persone intelligenti e interessate a Dio. Il Diario di preghiera è l’opera di una giovane donna intelligente che era davvero, davvero interessata alla sua fede e a Dio. Ho pensato che sarebbe stato un terreno fantastico per entrare in contatto con lui e la sua sensibilità. Mi sembrava qualcosa che gli sarebbe potuta piacere molto. E sapevo che aveva già letto i suoi racconti quand’era bambino, perché glieli aveva regalati sua madre. Abbiamo condiviso questa passione comune per molti, molti anni. Wildcat ha iniziato a manifestarsi quando finalmente ho scoperto chi ne deteneva i diritti. È nato in un modo che non ci saremmo mai aspettati.

C’era qualche timore nel lavorare insieme?
Ethan: Rispondo io perché abbiamo la stessa risposta. Poco prima di iniziare le riprese, abbiamo avuto una conversazione a cuore aperto in cui ci siamo resi conto che tutti ci avevano chiesto: “Vi mette ansia il fatto di lavorare insieme?”. Ed entrambi, forse stupidamente, non ci avevamo mai pensato. Molte persone che ti vogliono bene ti chiedono: “Ti fa paura questa cosa?”. E tu allora ti domandi: forse sono in pericolo? Non sto vedendo delle luci rosse lampeggianti o qualcosa del genere? Abbiamo riso perché tutto questo divertiva moltissimo entrambi. Non c’era bisogno che qualcuno mi dicesse che Maya è testarda, appassionata e che ha un sacco di idee. So che è così, ed è per questo che l’ammiro così tanto. Il mio punto di forza come regista, se ne ho uno, è che mi piacciono molto gli attori e mi piace dare loro spazio creativo, permettergli di fare quello che vogliono. Sono cresciuto recitando, e mi dà fastidio quando sento che ci sono dei paletti alla mia creatività e alla mia capacità di esprimermi. Mi piace sorprendere i registi, mi piace dare loro cose che non avevano previsto ed essere un’estensione della loro immaginazione. Vedo il mio ruolo come quello del… Maya, come si chiama quello che su una nave che sta accanto al capitano?
Maya: Primo ufficiale?
Ethan: Primo ufficiale! Quello che dice: “Ehi, amico, stiamo navigando attraverso l’oceano. Ti guardo le spalle, capitano”. Sai, come Starbuck in Moby Dick. Ero semplicemente felice di cominciare, e la verità è che è stato esattamente come pensavo sarebbe stato. Non c’era nulla da temere. Una delle cose più intelligenti che abbiamo fatto io e Maya è stata quella di convincere Laura Linney a lavorare con noi: è un’altra attrice che arriva sul set con tante idee e che non fa nulla per cui non nutra una grande passione. È stato un elemento molto importante da inserire nella collaborazione tra me e Maya, perché ha cambiato la nostra dinamica. Volevamo entrambi fare la migliore figura possibile con lei. Lo stesso vale per il nostro direttore della fotografia (Steve Cosens, ndt) e per gli altri collaboratori che sono a mano a mano arrivati.

A proposito della vostra dinamica familiare, avete deciso di metterla da parte mentre eravate sul set oppure pensate che abbia effettivamente aiutato la collaborazione tra voi?
Maya: Fare un film è come cucinare una zuppa con un grande gruppo di persone che si riuniscono tutte insieme. L’amore per la famiglia entra in gioco e arricchisce questo processo. Penso che questo set abbia fatto sentire le persone a proprio agio: si sono sentite parte di qualcosa che aveva un senso, che aveva un’organizzazione familiare. La mia matrigna (Ryan Shawhughes, ndt) era anche produttrice del film. Se si cerca di fingere che questa dinamica familiare non sia presente, come dire ai propri collaboratori che non si indossa una parrucca quando invece la si indossa, questa piccola bugia entra nella zuppa e la influenza. Non ha senso fingere che qualcosa che tutti hanno sotto gli occhi non sia vera. Se fossi arrivata sul set urlando: “Voglio che tutti mi trattino come se questo non fosse un progetto di famiglia”, sarebbe stata ridicolo! Bisogna lasciare che le cose siano quello che sono.
Ethan: Una volta stavo facendo uno spettacolo con Josh Hamilton, con cui avevo fondato una compagnia teatrale quando avevo 19 anni. Meryl Streep è venuta dietro le quinte e ci ha fatto un sacco di domande sulle prove, sul processo che ci aveva portati a quel risultato. Le ho detto: “Be’, sai, siamo amici da vent’anni”. E lei: “Oh, allora ci avete imbrogliato”. Cercava di capire come avessimo fatto a raggiungere un tale livello di intimità sul palco. L’intimità è spesso un presupposto per poter creare un ottimo lavoro. Si basa su codici e segreti. Crea stratificazioni, se le persone prendono sul serio il loro lavoro e non sono indulgenti con sé stesse e con gli altri. Uno dei più grandi contributi al teatro americano è lo Steppenwolf (compagnia teatrale fondata a Chicago nel 1974 da Terry Kinney, Jeff Perry e Gary Sinise, ndt): quei ragazzi erano andati tutti al liceo insieme. Facevano parte di una band e stavano creando qualcosa. Credo che io e Maya sperassimo che il nostro comune amore per questo film fosse contagioso.
Maya: Penso che questo livello di conoscenza e intimità coi tuoi colleghi sia qualcosa che speri in qualsiasi ambiente, e che sul set di Wildcat siamo stati abbastanza fortunati da creare anche grazie alla forza della nostra storia.

Ethan e Maya Hawke durante la lavorazione del film. Foto: Steve Squall/Oscilloscope Laboratories

Nel film, Flannery dice di capire che tipo di narrazione sta costruendo solo quando inizia a scrivere. È simile al vostro approccio alla recitazione?
Ethan: Non so se anche tu la pensi così, Maya, ma a volte io mi siedo e memorizzo le miei battute, e penso a come potrei recitarle… e poi tutto cambia quando guardi in faccia l’attore che hai di fronti, o arrivi sul set con indosso i costumi, o vedi com’è illuminata la scena. Mi piace la metafora della zuppa che Maya ha usato. È come se tu stessi preparando la tua parte di zuppa, e poi venissi di colpo gettato in quel pentolone: tutto cambia. E se non si è preparati, si può perdere il senso di sé. È importante essere preparati, soprattutto per avere qualcosa a cui aggrapparsi quando tutto finisce.
Maya: In Stranger Things interpreto lo stesso personaggio da quando avevo 19 anni. È il periodo più lungo che ho trascorso interpretando un personaggio, e ancora non so cosa farò ogni volta che entro in scena. Sono totalmente influenzata da ciò che fanno i miei colleghi. Ci sono anche momenti in cui lascio il set e mi chiedo: “Oggi ho interpretato il mio personaggio o ne ho appena inventato uno nuovo?”. È una cosa che a volte mi mette un po’ di ansia, ma penso sia un problema di molti [che fanno questo mestiere]. Se si lavora con un buon regista, uno che riesce a prendere delle decisione e ad assicurarsi che quello che fai abbia senso, allora tutto funziona. Le persone sono diverse in ogni situazione in cui le si incontra: ora siamo qui fare quest’intervista e ci trovi in un certo modo, ma se venissi a cena a casa nostra, la sensazione sarebbe sicuramente diversa.

Maya, hai anche un nuovo album in uscita il 31 maggio. Ti sei ispirata a Flannery durante la realizzazione di Chaos Angel?
Maya: Ho finito l’album mentre stavo girando il film: appena le riprese sono finite, sono andata a registrarlo. Il titolo dell’album deriva proprio dalla lavorazione del film. Ero davvero ispirata da Flannery e dall’idea che stesse combattendo contro il suo angelo custode. Mi piaceva quest’immagine, e per me è diventata un significato nascosto nell’intero film. E poi un altro significato del mio disco è che, molto spesso, combattiamo i nostri istinti migliori, tutte le cose che ci vengono in mente e ci dicono chi sei e cosa vuoi. Pensi: “Forse dovrei andare a casa, dovrei lasciare la festa”. E poi ti dici: “No, va bene così. Rimango”. È un’altra versione, molto più quotidiana, di questa lotta contro il tuo angelo custode. Volevo fare un disco su questo concetto e sui modi in cui resistiamo al nostro Io più profondo. [Questo album è] una sorta di appello a voler accogliere quell’Io.

Che cosa fa la musica per te che la recitazione invece non fa? E Ethan, la regia soddisfa qualcosa di diverso dalla recitazione?
Maya: Per me è come una presa di corrente sul muro. Musica, recitazione, scrittura, regia: sono solo lampade diverse da collegare a quella presa, la fonte di energia è la stessa. A volte ci si stanca della luce di una lampada, perciò è bello collegarne una nuova per dare più energia. La musica nasce dal desiderio di creare e di dialogare con l’immaginazione. Quello che la musica mi dà e che la recitazione non mi dà è che non devo chiedere il permesso a nessuno per farla. È una cosa più facile da fare e da portare a termine.
Ethan: Penso che Maya l’abbia spiegato molto bene. Io, quando sono dietro la macchina da presa e guardo Maya e Laura che girano una scena, sento una gran voglia di partecipare. Ed è una sensazione così bella sapere di avere ancora quello slancio. A volte, quando si recita, si può essere demoralizzati nei confronti dei produttori e dei registi perché sembra che siano loro a comandare. E, se lo fai per un po’, ti potrebbe venire da dire: “Maledizione, voglio essere io a comandare”. E poi sei tu a comandare, e pensi: “No, sono gli attori a comandare, perché se non fanno funzionare la scena non importa cosa hanno fatto tutti gli altri” (Maya ride). È davvero bello cambiare posto anche se si è sempre seduti allo stesso tavolo: alimenta il motore della curiosità.
Maya: È verissimo. Una cosa che si impara ricoprendo diversi ruoli è che la cosa straordinaria delle forme d’arte di gruppo, per così dire, è che nessuno è al comando: tutti devono presentarsi al completo per far sì che qualcosa si realizzi. E anche per quanto riguarda la luce, i costumi e le acconciature, ognuno deve presentarsi con tutto se stesso, altrimenti non succede nulla. È solo un’illusione che qualcuno sia al comando.
Ethan: Niente rovina la tua performance più di un cappotto sbagliato. Puoi anche essere Daniel Day-Lewis, fare il miglior lavoro della tua vita, e se la giacca è sbagliata tutti pensano solo a quello: la scena non funziona. Non viviamo nel vuoto. Viviamo in questo tessuto connettivo.

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