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Come ‘Il silenzio degli innocenti’ ha scritto la storia del cinema

A 30 anni dall'uscita del film con Anthony Hopkins e Jodie Foster, lo sceneggiatore premio Oscar Ted Tally racconta i segreti e il dietro le quinte di Hannibal e soci

Foto: Photofest

«Agli Oscar ero terrorizzato», attacca lo sceneggiatore Ted Tally. «Non riesco a descrivere quanto sia snervante. Vai nei bagni e la gente beve, fuma, tira coca. Non avevo mai visto tante persone famose tutte così nervose».

Trent’anni anni fa a San Valentino Il silenzio degli innocenti è uscito nelle sale cinematografiche. Odissea criminale intensa e cruda, in cui una recluta dell’FBI (Jodie Foster alias Clarice Starling) dà la caccia a un serial killer (Ted Levine nei panni di Jame “Buffalo Bill” Gumb) con l’aiuto di un altro serial killer più lascivo (Anthony Hopkins, aka Hannibal Lecter), il film è stato un capolavoro di suspense del regista Jonathan Demme, pieno di primi piani scomodi e dialoghi da pelle d’oca. Grazie al suo mix di performance straordinarie e una sensazione claustrofobica di terrore, è diventato un instant classic.

Anche se Tally, un drammaturgo nato nella Carolina del Nord, aveva già scritto per il cinema, Il silenzio degli innocenti ha definito la sua carriera. Il 30 marzo 1992 agli Academy Awards è uno dei tre film nella storia del cinema a vincere nelle cinque categorie principali: Hopkins e Foster per la recitazione, Demme per la regia, Tally per la sceneggiatura più la statuetta come miglior film: «Non sono mai tornato agli Oscar», dice Tally. «Penso che sarebbe divertente tornarci se non sei tra i nominati, ma dovresti essere Meryl Streep per essere in grado di prenderlo con la giusta calma».

Abbiamo chiacchierato con Tally per scoprire i segreti dietro uno dei film più celebri di tutti i tempi che sono spesso affascinanti quanto il film stesso, dall’interesse iniziale di Gene Hackman per la realizzazione del film alle intuizioni sulla misteriosa performance di Hopkins. L’ultima volta che lo sceneggiatore l’ha visto è stato nel 2014 al London Screenwriters Festival. «Ho pensato: “Wow, regge ancora abbastanza bene”», spiega.

Cosa ti viene in mente quando ripensi a Il silenzio degli innocenti?
Non ero mai stato su un set cinematografico prima. Eravamo a Pittsburgh in una fabbrica di turbine per jet. Era l’edificio più grande in cui fossi mai stato. Avresti potuto farci atterrare un aereo dentro. All’interno era in costruzione un set di tre o quattro piani: la prigione di Lecter. Anche se c’erano solo uno o due inquadrature con la telecamera che scendeva dalle ringhiere e dalle scale, volevano avere tutto a disposizione. Quando l’ho visto sono rimasto a bocca aperta. C’erano centinaia di persone che andavano avanti e indietro nella struttura, dipingendo letteralmente la polvere su pietre finte. Gente che lavorava, personale del caterign. Stavo lì a fissate tutto sotto shock. Ed Saxon, il produttore, mi guardò ridendo e disse: «Che succede Ted?».

Il film corrispondeva alla tua visione?
Tutto corrispondeva a livello sorprendente. Da allora ho fatto molti altri film, ma nessun copione che ho scritto è uscito esattamente così, com’era mia testa. Pazzesco: Jonathan (Demme) ed io eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Ci siamo canalizzati a vicenda.

Ted Tully agli Oscar

Parliamo dell’adattamento del libro. Quanto è stato coinvolto l’autore, Thomas Harris, nel processo?
Conoscevo un pochino Tom Harris, lo vedevo in giro a New York. Era un cliente della galleria d’arte dove lavorava mia moglie. Così l’avevo incontrato e avevo cenato con lui una o due volte. Sapeva che ero un fan dei suoi libri. Mi detto: «Sto lavorando a uno nuovo, forse ti piacerebbe leggerlo». Ho pensato: «Sì!», ma non pensavo che ne sarebbe venuto fuori nulla. Qualche settimana dopo, ho ricevuto una copia in anteprima del Silenzio degli innocenti. L’ho divorato in uno o due giorni ripetendo: «È incredibile. Ha superato se stesso, di nuovo».

L’anteprima ti è piaciuta.
Mi ha sconvolto. Questo era il tipo di libro che esce una volta ogni 10 o 20 anni. È come Il Padrino. È una storia così intelligente e ben realizzata che i critici la ammireranna e c’è un’eccitazione dentro a cui anche un pubblico di massa risponderà. Ha una trama intricata, personaggi incredibili, grandi colpi di scena. Mi dicevo: «Questo è un sogno». Mia moglie mi ha svegliato: «William Goldman (lo sceneggiatore) o qualcun altro deve già averlo adattato. Chiama il tuo agente». Ancora oggi si prende il merito per l’intera faccenda. Ho scopertoche Orion Pictures stava acquistando i diritti per Gene Hackman, che avrebbe dovuto scrivere, dirigere e intepretare il film.

Come sei stato coinvolto?
Ricordo di aver avuto una conversazione con il co-fondatore di Orion Mike Medavoy: «Gene pensa di scriverlo, ma non preoccuparti, scoprirà quanto è difficile e ci faremo sentire». Poi ha chiamato il mio agente: «Gene ha scritto 50 pagine della sceneggiatura ed è a pagina 50 del libro. Se puoi incontrarlo e fargli capire che sei la persona giusta per scriverlo, avrai il lavoro». Quindi ho dovuto convincere Gene Hackman.

E com’è andata?
Era un tipo intelligente, molto eccentrico. L’ho incontrato in vacanza nella sua casa di Santa Fe e ce l’ho messa tutta. Lui: «Ci penserò. Incontriamoci di nuovo a Chicago», dove stava girando un film con Tommy Lee Jones. Sono dovuto tornare con una presentazione ancora più dettagliata settimane dopo quella in una stanza d’albergo di Chicago; rimase sdraiato sul pavimento per l’intera riunione perché gli faceva male la schiena. Aveva alcune idee strane su come visualizzare le cose nel film con le quali non ero d’accordo, ma mi sono morso il labbro. Alla fine ha detto: «Il lavoro è tuo».

Che tipo di strane idee aveva Gene?
Aveva un’immagine particolare di Clarice Starling del tipo: «La vedremo attraverso il cielo». E ho pensato: «Ok, Gene, prendi dell’altro antidolorifico». Non aveva ancora deciso se avrebbe interpretato Lecter o meno; era anche il regista, quindi forse avrebbe interpretato Crawford. Non gli ho più parlato dopo. Si è ritirato mentre stavo scrivendo la prima bozza senza dirmi una parola. Non ho incontrato Jonathan Demme finché non avevo quasi finito con la sceneggiatura iniziale.

Riesci a immaginare Hackman nei panni di Hannibal Lecter?
No, ma sarebbe stato un ottimo Crawford. La cosa strana di questo film è che ho immaginato Anthony Hopkins fin dall’inizio. E lo stesso vale per Jodie Foster.

Perché hai sempre pensato ad Anthony Hopkins come Hannibal?
L’ho sempre ammirato come attore. Il suo monologo è semplicemente da teatro. Non riuscivo a pensare a un attore americano che potesse davvero farlo senza che vedessimo virgolette attorno a tutto ciò che diceva. Si è parlato di Dustin Hoffman, Robert Duvall, De Niro, ma ho pensato che Anthony Hopkins fosse sexy nel modo in cui il personaggio è inquietantemente sensuale. Ed è molto, molto intelligente. Non puoi fingere quell’intelligenza sul grande schermo. Quando si è trattato del casting, c’è stato un po’ di avanti e indietro con lo studio. Jonathan in realtà è volato a Londra per offrire preventivamente la parte ad Anthony Hopkins: «È tua», gli ha detto. O almeno, questa è la versione di Jonathan, quella di Mike Medavoy è diversa. Sostiene che la frase è stata: «Ok, puoi avere Anthony Hopkins se c’è anche Jodie Foster”. Ma in un modo o nell’altro ha funzionato.

Michelle Pfeiffer era tra le candidate per intepretare Clarice Starling, giusto?
Sì, Demme la voleva perché i registi spesso vogliono l’ultima attrice con cui hanno lavorato. (L’aveva diretta in Una vedova allegra… ma non troppo nel 1988.) Michelle, che è un’artista meravigliosa, ha deciso che era troppo violento per lei. E lo stesso ha concluso Gene Hackman. Io invece sempre pensato che non fosse violento sullo schermo: è psicologicamente sconvolgente e inquietante, ma in questo film c’è davvero poca violenza. Ha cose orribili, ma in realtà non le vediamo. È profondamente inquietante però, questo devo ammetterlo.

Com’è arrivata Jodie Foster?
Mi ha chiamato mentre scrivevo la prima bozza. Non ci eravamo mai incontrati. Aveva appena vinto un Oscar per Sotto accusa e mi aveva rintracciato in un ufficio che mi avevano prestato per lavorare. Ho sentito qualcuno dire: «C’è Jodie Foster è al telefono». Abbiamo chiacchierato un po’, mi ha detto: «Forse un giorno scriverai una bella parte per me», io ho risposto «Penso di aver già scritto un grande ruolo per te». E lei: «Sì, lo so che lo sei». Stava facendo una campagna a suo favore con parecchio anticipo. Jonathan inizialmente l’ha rifiutata. Abbiamo parlato di lei nel primo incontro e per fortuna si è ricreduto. A quanto pare poi lei lo ha contattato per convincerlo: «So di non essere la tua prima scelta, ma interpreterà questa parte». È una molto tosta.

Jodie Foster nei panni di Clarice Starling

Cosa hai provato quando hai sentito Hopkins pronunciare le parole di Hannibal?
È stato emozionante e pure divertente. Una volta gli ho chiesto come si era inventato quella voce e mi ha dato una risposta bizzarra, che però ha perfettamente senso per il tipo che è.: «Beh, pensavo che fosse un incrocio tra Katharine Hepburn e il computer Hal di 2001: Odissea nello spazio». Gli attori… che puoi replicare a una roba così?

Ti è piaciuta la sua performance?
Sì. Ero preoccupato che potesse essere troppo gigionesco. Quando sono iniziate le riprese, mi sono imbattuto in lui mentre cenava in albergo a Pittsburgh, da solo. In realtà ho avuto l’ardire di chiedergli come avrebbe interpretato la parte: «Credi che ci saranno momenti in cui la sua follia si manifesta?». Mi guardò e disse: «No no, penso che se sei pazzo, lo sei sempre e comunque». Non l’ho trovato rassicurante, dal punto di vista delle prestazioni. Ma ha ragione. Non puoi scegliere quando sei pazzo o sano di mente.

Quando hai adattato il libro, hai deciso di raccontare la storia principalmente dal punto di vista di Clarice Starling. Perché?
Dovevo fare qualcosa. È un libro di 370 pagine e non contiene nulla che non potresti mettere in scena in modo entusiasmante. Ma entra nella testa di tutti i personaggi separatamente. Il libro ha un’intera sottotrama con Crawford e sua moglie che sta morendo, a cui ho cercato di aggrapparmi durante la prima o la seconda bozza, ma ho capito che l’unico modo per adattarlo era concentrarmi sul personaggio di Clarice e sul suo punto di vista. Non puoi farlo in maniera esclusiva, perché devi allontanarti per il rapimento di Catherine Martin e devi lasciare Clarice Starling per la fuga di Lecter. Ma sembrava funzionare come principio guida. Sicuramente mi ha aiutato a organizzare la storia.

Era anche una novità vedere una donna così forte e audace come protagonista.
Sì, era insolito all’epoca. Da allora è successo man mano più spesso. Ho avuto una conversazione con Jonathan anni fa su come questo film abbia infranto così tante regole su come realizzare un thriller hollywoodiano efficace. È molto chiacchierato, è molto intellettuale. Non ci sono inseguimenti in auto o esplosioni. Il personaggio principale è una donna. Non c’è mai un pericolo fisico diretto fino alla fine del film. Questo film ha destabilizzato tutto.

Tornando alla sceneggiatura, Thomas Harris è stato coinvolto?
Tom Harris è stato molto gentile sin dall’inizio. Quando ho avuto il lavoro si è congratulato: «Fantastico, se hai bisogno di dare un’ulteriore occhiata ai dossier dei personaggi, fammelo sapere». Era molto accomodante e generoso per essere un autore. Gli ho risposto: «Sai cosa? Hai messo tutto nel libro. Non ho bisogno di nient’altro e mi sento più a mio agio se non lo vedi finché non è finito». In effetti poi non ha visto il film per altri 10 anni: «Non voglio che la visione di questi personaggi sia nella mia testa mentre sto ancora cercando di scriverne in altri lavori», affermava.

Jonathan ti ha chiesto delle revisioni mentre stavi lavorando alle bozze?
Mi spingeva molto: «Pensi che questo aggiunga qualcosa alla storia di una donna che ha visto uccidere degli innocenti senza poterli salvare quando era giovane? Sarà deludente? È davvero sufficiente che non sia riuscita a salvare un innocente?», mi chiedeva. E io: «Non mi interessa degli innocenti, ma lei sì, e io ci tengo a lei». Quando Lecter incontra il senatore al terminal dell’aeroporto, Jonathan ha commentato: «Lecter sarebbe molto più cattivo. Ha un senatore degli Stati Uniti in suo potere». Ho dovuto provare a pensare a cose orribili che lui avrebbe potuto dire, ma che non erano nel libro.

Come hai adattato la parte della storia su Jame Gumb e Catherine Martin?
Amo Catherine Martin, perché rifiuta di essere solo un’altra vittima. Thomas Harris l’ha scritta in modo brillante per come reagisce: non aspetta solo di essere uccisa o graziata, prova a salvarsi. Ed è interpretata splendidamente da Brooke Smith.
Jame Gumb è stato difficile da affrontare, perché una volta deciso che il punto di vista sarebbe stato principalmente quello di Clarice, questo limitava quanto potevo mostrarlo. Quindi mi ha impedito di poterlo drammatizzare di più. Non avrei potuto spiegare perché era così senza entrare nella sua testa, o far vedere i flashback della sua infanzia violenta, sarebbe stato un enigma. E poi sono stato salvato dalla performance di Ted Levine e da Jonathan Demme. Dicevano: «Lo mostriamo. Deve fare qualcosa. Come si veste? Che tipo di gioielli indossa? Com’è truccato? Che musica gli piace?». Hanno costruito tutto sul set. È stato molto coraggioso da parte di Ted.

La scena in cui Buffalo Bill balla nudo era nella tua sceneggiatura?
Non credo proprio. Sono rimasto scioccato come tutti gli altri quando l’ho visto infilare i genitali tra le gambe e posare. «Oddio», mi sono detto. E quando Jodie l’ha visto per la prima volta, ha affermato: «È davvero inquietante». E questa era l’idea. Certamente l’anello al capezzolo e cose del genere non erano nella sceneggiatura.

Com’era l’atmosfera sul set?
Jonathan faceva scherzi agli attori. Vuole che il set sembri una famiglia, quindi inserisce tutti nel film. Ci sono io che faccio uno dei poliziotti SWAT che entra nell’edificio sbagliato. Ed Saxon è a capo del team. E uno degli assistenti ha interpretato un impiegato del noleggio auto in una scena che è stata tagliata. In quella sequenza Jodie Foster prendeva una macchina e diceva: «Clarice Starling, hai un’auto per me». Tutto qui. Ma Jonathan ha detto all’assistente: «Rendile le cose difficili», come su Candid Camera. Quindi Jodie entra in fretta furia presentandosi: «Ciao, sono Clarice Starling», lui replica: «Posso vedere un documento d’identità?». E ovviamente Jodie non esce dal personaggio anche se deve improvvisare. E l’assistente: «Sai, avrò bisogno di vedere anche una patente di guida…Hai una registrazione in hotel?». E alla fine Jodie Foster si è sciolta in una risata. È così che Jonathan ha mantenuto l’atmosfera leggera in questo film così cupo.

Anthony Hopkins e Jodie Foster

Come ti senti quando alcuni descrivono Il silenzio degli innocenti come un film horror?
Bene, è stato accolto nel corso degli anni dalla comunità dell’orrore, il che per me ci sta. A loro piace dire che è l’unico horror ad aver mai vinto l’Oscar come miglior film. Ma l’ho sempre pensato come un poliziesco o un thriller. Non ho niente contro i film dell’orrore. Ma per me quel genere ha a che vedere anche con il soprannaturale. Lecter può rasentarlo, ma è un’altra cosa.
L’American Film Institute ha fatto un sondaggio anni fa, “Chi sono i più grandi cattivi del cinema?” e “Chi sono i più grandi eroi del cinema?”. Gli elettori decisero che il più grande cattivo nella storia del cinema era Hannibal Lecter e l’eroina Clarice Starling. Significa che qualcuno trova sempre un modo di rigirare queste cose.

Perché hai deciso di non lavorare al sequel Hannibal nel 2001?
Abbiamo rifiutato tutti tranne Hopkins, che non ha resistito a impersonare il personaggio del titolo. Abbiamo pensato che dopo anni di lotta con questa storia, Tom avesse cambiato ciò che ci piaceva della sua visione dei personaggi. Non potevamo accettare che Clarice Starling fosse attratta da Hannibal Lecter nel modo in cui lo era in quel libro. Ci è sembrato un tradimento del suo personaggio. Non che avessimo il diritto di criticare, perché tutti gli dobbiamo tanto. È stato doloroso quando abbiamo deciso che non potevamo farlo, lo stavamo aspettando da 10 anni. Ma, sai, Tom ha lottato con quel libro e il suo finale, e siamo stati felici per lui che sia riuscito a superare quel viaggio. Non aveva la magnanimità che volevamo in quel personaggio. È andato troppo dritto sul lato oscuro. Ma Tom Harris non porta rancore ed è stato splendido con me quando abbiamo fatto Red Dragon più tardi.

Hai guardato la serie tv Hannibal?
No. Adesso sembra l’industry di Hannibal Lecter. Penso: «Buon per loro e per Thomas Harris». La mia sensazione, però, risale a quando anche il compianto Dino De Laurentiis ha cercato di convincermi ad adattare il libro Hannibal Rising. E gli ho risposto: «Dino, più spieghi questo personaggio, meno è iconico». Non voglio sapere se qualcuno ha ferito il suo cagnolino quando aveva 8 anni, non voglio che sia analizzato e motivato in modo convenzionale. Less is more con Hannibal. Ma non puoi scoraggiare nessuno quando c’è un profitto vero in ballo.

Di cosa sei più orgoglioso quando pensi a Il silenzio degli innocenti oggi?
Quella serata agli Oscar, vincere tutte le categorie principali è roba grossa. Accadeva per la terza volta nella storia e non è più successo neanche negli ultimi 30 anni. Jodie una volta disse qualcosa tipo: «Nessuno di noi era mai stato tanto bravo prima e non lo siamo più stati da allora. È semplicemente andata così». Era il momento perfetto nelle carriere di tutti.

Da Rolling Stone USA.

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