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Come Ginevra Nervi in mezzo ai suoni

Dalla nuova serialità (‘Il cacciatore’, ‘SKAM Italia’, ‘Prisma’) al film ‘Come pecore in mezzo ai lupi’, la compositrice genovese è una delle giovani voci più interessanti del nostro panorama. Una chiacchierata che guarda al futuro della musica per il cinema italiano, senza esterofilia

Foto: Gioele Vettraino

Quando si discute di quali potrebbero essere le nuove voci del cinema italiano si finisce sempre nel parlare di nomi già preesistenti, apparentemente innovativi, oppure della mancanza effettiva di una vera alternativa a ciò che già compone il nostro panorama. Fondamentalmente ci si lamenta senza mai realmente osservare che quello che cerchiamo può essere veramente a pochi passi da noi.

Questo è sicuramente il caso di Ginevra Nervi, classe 1994, compositrice già affermata nel panorama cinematografico italiano e internazionale che solamente negli ultimi tre anni ha lavorato in diverse produzioni per serie tv Rai, Mediaset, Netflix e Prime Video (tra le altre: L’ispettore Coliandro, Il commissario Rex, Il cacciatore, Il processo, SKAM Italia 4, Prisma, Shake). Inoltre, nel 2020 la sua attività di compositrice di colonne sonore ha trovato anche il riconoscimento alla 77esima Mostra di Venezia, grazie alle composizioni originali per il documentario Fuoco sacro di Antonio Maria Castaldo e il film Non odiare di Mauro Mancini.

Partendo dal suo ultimo lavoro, Come pecore in mezzo ai lupi – esordio nel lungometraggio di Lyda Patitucci con Isabella Ragonese e Andrea Arcangeli ora disponibile su Netflix, di cui è stata rilasciata la colonna sonora originale il 27 ottobre per FM Records –, abbiamo tracciato il profilo di ciò che dovrebbe essere oggi il ruolo del compositore nel panorama italiano, la sua valorizzazione e tutela, la nascita apposita dell’ACFM (Associazione Compositori Musica da Film), e come partendo dal passato florido che ci ha contraddistinto si possa creare una nuova scuola, con idee e funzioni differenti, che facciano ritornare il ruolo del compositore in auge mediante anche una formazione apposita.

Foto: Gioele Vettraino

Vorrei cominciare chiedendoti com’è stato lavorare a Come pecore in mezzo ai lupi, un film che riscopre gli elementi del cinema di genere che furono, negli anni ’70, un vero e proprio trampolino di lancio per molti compositori. Penso ad esempio ad Ennio Morricone con Dario Argento nell’Uccello dalle piume di cristallo, che nel 1970 riscrisse completamente la forma del giallo all’italiana.
Per quanto riguarda il mercato prettamente italiano, penso che ci sia stato un ritorno di fiamma nei confronti del cinema di genere, il che è un bene perché secondo me venivamo da un periodo abbastanza recente in cui l’industria cinematografica si era un po’ troppo cristallizzata su una certa tipologia di serialità, più vicina alla fiction, e di un cinema d’intrattenimento decisamene monotematico. C’era effettivamente una zona grigia che non veniva esplorata. Penso che con l’avvento delle piattaforme ci sia stato un vero cambiamento in questo senso, abbiamo iniziato a correre anche noi su questa autostrada. Da questo punto di vista il film di Lyda ricorda molto i colori di un cinema di genere legato a un linguaggio francofono. Tornando alla tua domanda, penso che i film di genere possano effettivamente aiutare giovani compositori ad inserirsi nel mondo della musica per il cinema: essendo un tipo di proposta più fresco, ti può permettere di apportare delle scelte musicali fuori dai generi. Hai un ampio spettro di possibilità, non devi necessariamente appoggiarti a una specifica scrittura tematica. Attingendo a tutta quella che è la scena underground dei compositori di oggi puoi trovare dei linguaggi molto interessanti, che possono addirittura dare uno sguardo diverso al determinato film. Sicuramente dare spazio a delle penne esordienti ti permette di poter svecchiare il panorama, di renderlo più interessante. Può effettivamente dare la possibilità a tanti nuovi giovani compositori di mettersi in gioco.

Partendo da questo presupposto, credi che si possa effettivamente ricreare una sorta di scuola di compositori così come si sviluppò negli anni ’70 con il loro cinema di rottura?
In qualche modo è sempre questa la speranza, che si crei un circolo virtuoso per cui più produzioni hai, più diventa semplice coinvolgere nomi nuovi e permettere che si ampli lo spettro musicale di cui si dispone. Più la proposta è varia, più si riesce a offrire al pubblico qualcosa a cui non era abituato. Dovrebbe essere questo il meccanismo della cultura: se crei una cultura monotematica, illudi il pubblico che ci sia solo quella via. Soprattutto in un periodo come questo di iper-produttività, si dovrebbe attingere a quel sottobosco di teste incredibile a cui dare il giusto spazio.

Allo stesso tempo, pensi che la categoria dei compositori per il cinema faccia abbastanza per essere valorizzata oppure rimane una critica unicamente interna al settore?
Quello che a me dispiace è che vedo molto spesso un forte senso di frustrazione da parte della nostra categoria. Nonostante viviamo in un momento storico molto complesso, non credo che non ci sia del tutto una via di uscita: è solo una questione di volontà collettiva, ed è anche per questo che nel 2017 è nata l’ACMF (Associazione Compositori Musica da Film, nda). Secondo me, a livello globale, siamo arrivati effettivamente a un punto di non ritorno, dove la musica è stata talmente tanto mercificata che il nostro ruolo è stato relegato alla stregua di un jukebox. Senza entrare nel merito delle scelte artistiche, la nostra categoria ha bisogno sicuramente di più tutele anche a livello contrattuale. Ad esempio, non è una cosa scontata che il compositore faccia parte della promozione del film per cui ha composto la musica originale, e questo è sicuramente penalizzante in un mondo che già di per sé è passivo a livello sonoro. Avere la possibilità di parlare del lavoro che si è svolto potrebbe incuriosire gli spettatori. Come categoria, ci battiamo molto nel sottolineare che i compositori sono co-autori dell’opera cinematografica: noi firmiamo dei contratti di co-autorialità, e in questo modo dobbiamo essere considerati. Nella migliore delle ipotesi questa cosa accade, in altri casi puoi imbatterti in personalità che sono totalmente all’oscuro di questo, e questo deriva da una cattiva narrazione. Se ad esempio io fossi una regista esordiente alla mia opera prima e avessi lavorato pensando che la musica sia l’ultima cosa da inserire, quando salirò di livello continuerò a pensarla in questo modo? Dipende da te, ma anche dall’apparato produttivo che ti circonda. Se non vieni supportato nel comprendere la centralità della musica, si arriverà al montaggio finale di un film senza una composizione che si sposi con quel progetto. Questo è il modo peggiore per fare un film, in quanto non avrai mai un lavoro organico.

Quindi secondo te si tratta principalmente di un problema legato alla formazione?
È assolutamente un discorso di formazione. Sono abbastanza certa nel dire che in quasi tutte le accademie cinematografiche sono veramente poche le classi di composizione di musica da film, perché storicamente il ruolo del compositore era relegato a un solo ambiente, quello conservatoriale. Con questo non voglio dire che oggi nei conservatori non sia possibile avere un insegnamento valido, ma manca oggettivamente qualcosa rispetto all’approccio verso la scrittura per immagini, a partire dalla presenza degli addetti ai lavori con cui poi ti troverai a lavorare e a interfacciarti. Dovrebbero essere le accademie cinematografiche a sviluppare dei corsi appositi dove conoscere la strutturazione di una colonna sonora, la sua storia ed evoluzione nel tempo, perché è proprio all’interno di contesti di questo genere che hai effettivamente la possibilità di interagire con tutti quelli che saranno i tuoi colleghi del futuro. Io stessa quando ho iniziato ad approcciarmi alla scrittura per le immagini al Conservatorio Niccolò Paganini di Genova tante cose non le conoscevo, le sto imparando ancora oggi. Ad esempio, adesso sto lavorando a un film internazionale dove sono presenti delle problematiche a livello procedurale che non possono ripetersi più. Non voglio più ritrovarmi a ricevere il montaggio finale con una musica “appoggiata” che è ormai cristallizzata nella testa di un regista, perché questo nuoce al mio processo creativo. Ci ho messo un bel po’ di anni per maturare questa consapevolezza e non c’è nessuno che ti insegni come comportarti in questo senso, fa tutto parte dell’esperienza.

Partendo da questa tua risposta, penso che molto spesso si tenda erroneamente ad avere come punto di riferimento compositori esteri, quando loro stessi vedono come punto di riferimento moltissimi compositori italiani. Secondo te il cinema italiano ha compreso che si può tornare ai fasti del passato evitando di replicare qualcosa che musicalmente avviene già oltreoceano?
Sposo in pieno quello che dici, e non è questione di essere nostalgici. Non possiamo tornare a quella golden age che hai appena nominato, ma potremmo sicuramente crearne una nuova. Viviamo in un’epoca estremamente scura, c’è un clima politico non propriamente meraviglioso.

Foto: Gioele Vettraino

Per assurdo, potrebbe essere quasi il momento più adatto proprio perché quel gruppo di geni di cui parlavamo si formò in un periodo storico-politico molto oscuro per l’Italia, gli anni di piombo.
Quello che infatti potremmo fare è sfruttare questo periodo per proporre qualcosa di diverso, cercare veramente di trovare la nostra originalità e innovazione a livello di linguaggio. Siamo talmente dentro a questa tempesta che non ci rendiamo conto di tutti i mezzi che abbiano a disposizione. Allora forse la vera voce la puoi trovare se ti fermi un attimo e rifletti su chi sei, da dove arrivi e dove vuoi arrivare. Sicuramente spendere meno energie nel domandarsi a chi voglio assomigliare, chi voglio emulare, e anche auto-illudersi di poter essere qualcuno artisticamente, porterà effettivamente a ritrovare la propria voce. Bisognerebbe togliersi questa benda dagli occhi per cui tutto quello che arriva dagli Stati Uniti è migliore di quello che noi stessi produciamo. Credo che forse gli stessi Stati Uniti stiano vivendo un periodo di decadenza rispetto all’Europa: arrivano proposte cinematografiche decisamente più ambiziose e interessanti dall’est e Nord Europa, per non parlare poi del mercato orientale, della Corea, anche musicalmente parlando.

Questo penso sia un esempio perfetto, perché anche il cinema orientale può subire una sorta di “esterofilia”, ma quando vedi un film come Parasite, con la colonna sonora Jung Jae-il fortemente identitaria ma allo stesso tempo esportabile, allora capisci che si è arrivati a uno standard di industria che può essere realmente fruibile in tutto il mondo. Pensi che l’Italia abbia fatto lo stesso in questo senso?
Sì, ci sono stati dei titoli molto importanti, che hanno girato i festival di tutto il mondo, ma continuano ad essere pochi.

Penso ad esempio a Disco Boy di Giacomo Abbruzzese, che è andato decisamente molto bene a livello internazionale: alla Berlinale ha vinto l’Orso d’argento per la fotografia di Hélène Louvart. Anche se il regista ha scelto di fare un film esteticamente internazionale, coinvolgendo un bravissimo musicista e producer come Vitalic, penso che avrebbe forse potuto affidarsi a un compositore italiano. Perché secondo te spesso i nostri autori scelgono di affidarsi a compositori stranieri? Credi che si abbia la convinzione di non poter essere in grado di “sonorizzare” certi film?
Penso che nel nostro immaginario abbiamo cristallizzato questa mitologia per cui tutto quello che arriva dall’estero sia di conseguenza più valido. Quando queste cose si radicano talmente tanto nel tuo background culturale è difficile sfuggire da questi paradossi, diventa come uno specchio che distorce l’immagine. Il motivo rispetto a quanto mi chiedevi è proprio quello, secondo me: crediamo poco in noi stessi e nelle nostre potenzialità, perché in Italia c’è letteralmente una tonnellata di musica validissima, ed è ridicolo non voler vedere quanto accade. Manca la volontà di cercare una valida alternativa, preferendo una scelta più facile da gestire. Non necessariamente bussare alla porta di un nome internazionale è la scelta vincente. Con questo non voglio dire che dobbiamo fare un cinema nazionalista, ma ricercare una nuova via anche attraverso le penne nazionali è sicuramente importante, soprattutto per immergersi con più profondità in quello che è il nostro spettro musicale. In passato, molti compositori sono stati ancorati a progetti che avevano sempre gli stessi colori, quando invece un compositore può avere al suo interno molteplici voci, e anche da questo punto di vista ci deve essere la curiosità di stimolarlo, così come il compositore, allo stesso tempo, deve avere il dovere morale di stimolare un regista. È nostro compito sentirci attivi all’interno del processo.

Se guardo alle uscite cinematografiche più recenti, mi viene da pensare che i registi più “anziani” abbiano quasi più voglia di sperimentare con la musica rispetto ai giovani. Penso a Esterno notte e Rapito di Marco Bellocchio, in cui è stato coinvolto Fabio Massimo Capogrosso, compositore eccelso ma ancora poco conosciuto in campo cinematografico. Credi che ci sia una diversa cultura musicale?
Assolutamente. Un esempio speculare lo si potrebbe fare parlando del rapporto tra regista e attore. Ci sono dei registi che storicamente lasciano molto campo d’azione agli attori e vogliono essere da loro stimolati, avere uno scambio diretto e attivo. Allo stesso tempo, ci sono dei registi che hanno una visione più “chiusa”, che non chiedono all’attore un approccio creativo e personale. Quello che io noto, anche attraverso la mia esperienza con registi e registe di età molto diverse, è che questa differenza non nasce principalmente dalla scarsa esperienza o da una convinzione personale, ma dalla narrazione distorta di quello che dovrebbe essere il lavoro con la musica. Un regista della generazione di Marco Bellocchio è sicuramente un professionista che arriva da una scuola di pensiero, da un modo di fare cinema, in cui la figura del compositore era molto più centrale. È difficile fare un paragone con il passato: l’industria è diversa, gli approcci produttivi sono differenti, così come i registi; però dobbiamo trovare il modo di fare il cinema di oggi, il cinema del futuro, sperando che ci proietti verso qualcosa di prosperoso e non che diventi una catena di montaggio, altrimenti finiremo per produrre tutto quello che è artistico attraverso l’Intelligenza Artificiale. Non dobbiamo sperare in questo, nel delegare tutto alle macchine, dobbiamo tendere a uno sviluppo concreto della comunicazione tra più figure artistiche che puntano allo stesso obiettivo.

Foto: Gioele Vettraino

Per concludere, volevo chiederti in che modo secondo te si strutturerà la colonna sonora del futuro. Si propenderà per una composizione prettamente orchestrale o ci sarà una costruzione sonora più vicina alla forma canzone?
È impossibile restare integralisti pensando che l’unica forma musicale sia rappresentata da una composizione orchestrale. Il compositore di oggi e del futuro deve essere consapevole che non può restare troppo legato a un passato che non esiste più, e deve sapere interagire con tutte le nuove figure dell’industria, come ad esempio il music supervisor; quindi sapersi relazionare anche con materiale di repertorio, e da questo creare magari anche un nuovo linguaggio. Come abbiamo detto, ci sono tanti aspetti del nostro lavoro che sicuramente andrebbero rinforzati, ma dobbiamo anche essere consapevoli che il mercato di oggi è assolutamente variegato, quindi sta anche a noi decidere in quale e in quante modalità vederci, sta a noi capire dove collocarci. Sicuramente c’è un’unione tra orchestrazione ed elettronica per quanto riguarda la nuova forma di composizione di musica per il cinema. Io nasco come musicista acustica e nel tempo mi sono spostata sull’elettronica, ma lavoro tantissimo con gli strumenti acustici. È ovvio che l’introduzione della musica elettronica e la nascita delle nuove tecnologie sia andata di pari passo con lo sviluppo dell’industria cinematografica, così come accadde nel 1982 in Blade Runner con il coinvolgimento di Vangelis, ma oggi comporre una colonna sonora completamente ambient non è una cosa innovativa, sono arrivati tanti altri compositori ben prima del 2023 che hanno reso questo linguaggio un classico. Secondo me la via da seguire è rappresentata ad esempio da una compositrice che apprezzo molto, Ariel Marx, che ha composto la colonna sonora di Shiva Baby di Emma Seligman. Anche se lavora attraverso una matrice sonora prettamente classica e strumentale, lo fa con una modalità totalmente contemporanea, con una scrittura fortemente destrutturata e melodica che la rende sicuramente molto più attuale. Parlare oggi di originalità rispetto a un approccio unicamente elettronico rappresenta un grande errore, perché tutto questo è entrato nel cinema tantissimi anni fa. Dipende sempre dal modo in cui si vuole raccontare qualcosa, sta tutto nella propria identità sonora.

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