«Io il personaggio drammatico l’avevo già fatto nel Figlio più piccolo di Pupi Avati, ma era ’na carogna, un padre tremendo, cattivo. Diciamo che per la prima volta ho fatto un personaggio buono». Christian De Sica è molto contento di I limoni d’inverno, prima alla Festa di Roma e ora, dal 30 novembre, in sala. L’ha diretto Caterina Carone e racconta di Pietro, un ex professore con un principio d’Alzheimer che fa amicizia con la dirimpettaia di terrazzo (Teresa Saponangelo), insoddisfatta causa matrimonio da cui sembra assente. «Sono due solitudini che s’incontrano in quello che resta un amore platonico – io c’ho un’età, lei è molto più giovane – e che però riescono ad avere un attimo di felicità. Come diceva Tolstoj in Guerra e pace, per trovare la felicità bisogna essere prima di tutto consapevoli che lo si può essere, felici».
Ti dicono tutti: finalmente il ruolo drammatico.
Perché ho sempre fatto le commedie, i film di Natale. Questo è un personaggio drammatico, sì, ma soprattutto a tutto tondo, e per un attore comico è una festa. Quando Caterina Carone, con cui avevo già fatto una commedia, Fräulein con Lucia Mascino, mi ha chiamato, ho detto subito di sì. Perché mi ha dato la possibilità di far conoscere un mio aspetto attoriale diverso, e mi sembra di esserci riuscito. Quando mi dicono “non è stato difficile, per te che sei un comico, fare un personaggio così?”, io rispondo di no, perché ho cercato di non recitare per stereotipi, ma provando ad essere me stesso. A guardare bene negli occhi l’attrice che avevo davanti, ad ascoltare bene quello che diceva, e allora le risposte mi venivano facili, anche perché avevo Teresa, che è un’attrice bravissima.
E pure tu.
Ma guarda, ti ripeto, il segreto sta in quello che ti dicevo prima, e che mio padre diceva sempre: “Ascolta bene quello che ti dicono, e vedrai che le parole ti escono fuori meglio, senza pensare adesso la battuta la dico così, adesso la dico colà”. Ho seguito questo consiglio, quello di stare il più vicino possibile alla realtà, anche perché questo personaggio mi assomiglia molto… non sono malato d’Alzheimer, grazie a dio (ride), ma caratterialmente sono così. E fare oggi, con tutta questa violenza che si vede in giro, un film sull’amore, sul rispetto per le donne, mettendo al centro quest’uomo che scrive un libro sulle donne che erano dei geni ma che sono state tenute nell’ombra… ecco, penso che di film come questo ce ne vorrebbero di più.
Questo tuo lato, diciamo così, drammatico, non è stato mai davvero capito, oppure sei stato tu a tenerlo un po’ nascosto, a rimandarlo?
Io ho sempre fatto quello che volevo fare. Ho sempre accettato i ruoli che mi offrivano, e chiaramente mi offrivano le commedie perché le mie commedie avevano avuto molto successo. Quando ho tentato di fare un film scritto da me, che era La porta del cielo, non sono mai riuscito a mandarlo in porto perché volevo farlo come regista, ma non si fidavano di me come regista drammatico. Purtroppo questo è un Paese dove, se tu fai il cowboy, ti fanno scendere a salire da cavallo per tutta la vita. Penso che gli attori comici sono sempre i più bravi a fare il drammatico: come esempio porto sempre Lino Banfi o Leo Gullotta, che sono due attori drammatici straordinari.
Hai sofferto, per quella possibilità mancata di essere anche qualcos’altro?
Per niente, sono un uomo molto fortunato, mi è andata benissimo così, sto ancora qui, alla mia età… quest’anno ho girato quattro film. Se ancora lavoro, se mi chiamano, lo devo a quel cinema lì, all’amore del pubblico, ed è incredibile avere ancora un pubblico così giovane, anzi giovanissimo.
Questo è vero, sei molto amato dalla Gen Z, come si dice oggi.
Per strada i ragazzi mi chiamano zio, “A’ bbella Cri’, fatte da’ un bascio, zio…”. Sono frustate di vitalità che mi fanno felice, ed è una cosa che ho notato raramente in colleghi miei coetanei. E poi penso che per parlare del presente bisogna stare per strada. Tanti attori di una volta, quando hanno avuto successo, si sono rinchiusi nelle loro case, nelle loro ville. Mi ricordo sempre una cosa che Visconti disse a mio padre: “Vittorio, ormai noi il presente non lo possiamo più raccontare, tu non puoi più fare Ladri di biciclette e io non posso più fare La terra trema. Facciamo i romanzi, io Morte a Venezia e tu Il giardino dei Finzi-Contini, a fare i registi siamo bravi, mettiamo in scena cose già scritte nel passato”. Io sono rimasto nel presente sempre, anche per fare i film di Natale dovevi sta’ pe’ strada, ogni quinquennio cambiava tutto…
Una cosa si può certamente dire di te: avresti potuto essere, per dove e da chi sei nato, il più snob di tutti, e invece snob non lo sei mai stato.
Ma per carità. E non lo sono stato in partenza: pensa se avessi detto “faccio Ladri di biciclette numero 2”, sarei stato un fallito. A me piaceva il varietà, mi piacevano i comici, ero fan di Gianni Agus, pensa te… io quello volevo fare. E ho cominciato dalle balere, dalle piazze, e poi è arrivata la televisione con Antonello Falqui, Enzo Trapani, Maurizio Costanzo. Il cinema è stato solo una conseguenza.
Altro che Dna.
Io volevo fare il cantante, quando poi mi sono reso conto che i dischi non si vendevano… ma ho sempre lavorato, ho cominciato che avevo 18 anni e il 5 di gennaio ne faccio 73, fatti tu i conti…
Di cosa sei più fiero?
Ma sai, questo è un mestiere che non si finisce mai di imparare. Dopo questo film, quest’anno ho fatto una serie per Amazon, Gigolò per caso, poi il film di Virzì, Un altro ferragosto, e poi un altro film, Natale a tutti i costi, con Angela Finocchiaro. E ogni volta studio come se fosse il primo film, mi metto lì con l’album, cerco di mettermi in bocca le battute, poi vado dal regista e gli dico “ma senti, ti sta bene se la dico così?”. Quello che mi manca adesso è il pubblico, con le piattaforme non è la stessa cosa. Prima andavo in sala, mi mettevo nelle ultime file, e quella cosa mi apriva un mondo, vedevo che la gente rideva per delle cose che non avrei mai pensato e non rideva per cose che invece davo per certe.
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Possiamo dire che un certo pregiudizio nei confronti tuoi e del tuo cinema è rimasto sepolto nel secolo scorso?
Ma sai, quel pregiudizio c’è sempre stato, un po’ forse anche per invidia. Quando hai grandi successi popolari come quelli che ho avuto io con De Laurentiis, ecco, quelli l’invidia la provocavano, perché erano film drammaturgicamente così bassi che però avevano un successo così alto. Ma lo vedo anche oggi con quel bel film che ha fatto la Cortellesi, c’è gente a cui questo successo fa rabbia, fa parte di noi uomini, siamo fatti così. E poi succedeva perché erano un po’ prevenuti, anche a mio padre dicevano “lei fa Ladri di biciclette e poi fa il buffone”, senza capire che è molto più facile fare Ladri di biciclette del maresciallo Carotenuto di Pane, amore e fantasia.
Tuo padre – penso soprattutto al tuo film recente Sono solo fantasmi – oggi lo citi e lo omaggi dichiaratamente, fino quasi a confonderti con lui.
Quello sì è un fatto di Dna, fisicamente gli assomiglio molto. Ma come recitazione ho copiato più Alberto Sordi che mio padre. Avevo questo fisico borghese e però dovevo fare il comico, dovevo essere il fratello di Jerry Calà o l’amico di Carlo Verdone. Mi sono messo a fare personaggi che fisicamente non mi assomigliavano, io avevo un fisico più alla Gassman, da cavallo padronale, e questo tante volte nella commedia non vince. Io ho sempre fatto personaggi di perdenti, i misogini, i cinici. Ma facevo ridere prendendoli in giro, io mica sono così, anche se la stampa scriveva “De Sica è un fascistone”.
Adesso si tende ancora di più confondere l’artista con quello che interpreta nella finzione, quando invece tu hai insegnato più di molti altri, e in tempi non sospetti, che era solo un modo per prendere le distanze da certi modelli.
Anni fa feci un libro per Mondadori, Figlio di papà, e Beppe Cottafavi, che era l’editor, mi disse: “Guarda che per raccontare la borghesia italiana degli anni ’80 è meglio andare a rivedere i film di Carlo Vanzina come Vacanze di Natale che certi film d’autore che non hanno lasciato il segno”. Noi abbiamo raccontato quell’ambiente con lo sberleffo, le parolacce, una drammaturgia molto leggera, ma in modo molto preciso. E oggi che sono 40 anni esatti da Vacanze di Natale la gente lo conosce a memoria, lo passano pure nei cineclub, e allora forse vuol dire che così leggero non è stato.
La prima immagine della tua casa, quand’eri bambino.
I Natali con l’albero non di plastica, ma l’abete vero. L’odore dell’albero e mio padre e mia madre che ci svegliano per farci vedere che Babbo Natale è arrivato.
L’incontro più importante della tua vita.
Quello con Roberto Rossellini. A diciott’anni feci un ruolo in suo film, sulla vita di Blaise Pascal, perché ero fidanzato con sua figlia Isabella. Era un uomo affascinante, colto, bugiardo, simpatico, intelligente. Mi ha insegnato tanto.
Il tuo rapporto con la nostalgia.
Ho grande rispetto per il passato. Mio padre mi ha fatto a cinquant’anni, ho avuto il privilegio di conoscere grazie a lui personaggi come Charlie Chaplin, Francis Bacon, Joan Miró, Paul Verlaine, gente pazzesca: ho amato tutto quello che è stato il passato. Ma la nostalgia, quella no. Per rimanere giovani bisogna vivere qui e ora, non bisogna dire questa cosa io l’ho già fatta quarant’anni fa: io, anzi, mi meraviglio sempre per cose che già conosco, e se fai l’attore la devi mantenere, questa meraviglia un po’ infantile, se no fai il giornalista, l’avvocato, un altro mestiere. Come diceva Mastroianni, te pagano pe’ gioca’.
Quale sarà l’eredità di Christian De Sica?
Io vorrei lasciare qualcosa a questi giovani che mi vogliono bene, e che non mi fanno sentire l’età che ho. Sto vicino a loro, ora sono felicissimo per mio figlio Brando, che vabbè è un uomo, ha quarant’anni, ma ha debuttato con questo primo film, Mimì – Il principe delle tenebre, che sta avendo queste bellissime critiche e sono meritatissime, ha una sensibilità che ha coltivato tanto, ha studiato in America con maestri pazzeschi, gira molto bene, è cinematograficamente molto colto.
E domani cosa c’è?
Continuare a fare questo mestiere, almeno finché ce la faccio con la salute. Ogni volta che mi dicono “domani hai il pickup alle 7”, e quindi dovrei alzarmi alle 6, io invece mi sveglio alle 5, perché non vedo l’ora di andare sul set. E se alla mia età ancora mi tremano le gambe prima di andare su un set, penso che sia un buon segno.