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Chloë Sevigny, It girl per sempre

L’icona del cinema indie e dello stile anni ’90, ora tra le protagoniste di ‘Feud: Capote vs. The Swans’, si racconta a Rolling Stone. Il cult ‘Kids’ che l’ha lanciata, la carriera lontana da Hollywood, la maternità a 45 anni, l’amore per la moda. E quanto è cambiata la sua New York: «Non ci sono più i club di una volta e tutti hanno un ca**o di cane»

Chi meglio di Chloë Sevigny, l’ex club kid diventata fashionista che a 19 anni è stata ritratta da Jay McInerney per il New Yorker, poteva interpretare una socialità dell’upper class newyorkese?

Nel 1995, un anno dopo l’uscita nelle edicole di quel famigerato pezzo, Sevigny avrebbe interpretato un’adolescente di Manhattan che scopre di essere sieropositiva in Kids, scritto dal suo amico Harmony Korine. Il film è stato quasi immediatamente consacrato come un classico di culto, facendole intraprendere un percorso di cinema d’autore che ha incluso Gummo, Boys Don’t Cry (che le è valso una nomination all’Oscar), American Psycho, Dogville, L’inventore di favole e Zodiac, oltre ai ruoli in serie tv come Big Love, Portlandia, due stagioni di American Horror Story e Russian Doll. Nel corso del tempo, è diventata una delle icone di moda e di stile più venerate al mondo, ha sfilato per Miu Miu e Louis Vuitton facendo sì che il suo singolare gusto sartoriale arrivasse al grande pubblico. L’influenza di Sevigny sulla moda è così forte che l’anno scorso la vendita dei suoi abiti usati si è trasformata nell’evento sociale della stagione. È l’It girl anni Novanta per eccellenza e, anche se i suoi days of disco sono ormai lontani, è ancora parecchio cool.

Chloë Sevigny, oggi 49enne e madre di un bambino di tre anni, si è riunita allo showrunner Ryan Murphy per la nuova edizione del suo franchise Feud, ovvero Feud: Capote vs. The Swans. L’attrice interpreta C.Z. Guest, una bramina di Boston che ha sposato un aristocratico britannico e ha trascorso i suoi giorni come editorialista, stilista/icona e socialite. Era una dei Cigni, un gruppo di donne mondane dell’alta società di Manhattan le cui vite sono servite da spunto per il romanzo Preghiere esaudite del loro presunto amico Truman Capote. Quando Capote (splendidamente interpretato da Tom Hollander) inizia a pubblicare i capitoli del libro sulle pagine di Esquire, le donne – Babe Paley (Naomi Watts), Slim Keith (Diane Lane), Lee Radziwill (Calista Flockhart), Ann Woodward (Demi Moore), Joanne Carson (Molly Ringwald) e C.Z. Guest (Sevigny) – si riuniscono e cercano vendetta.

Rolling Stone ha parlato con Sevigny di… be’: tutto.

Come hai vissuto il recente sciopero degli attori?
Ho provato più empatia per le troupe: non hanno lavorato per tanto tempo durante la pandemia, e poi sono rimaste di nuovo senza lavoro. Volevo essere solidale con tutte le persone che lavorano dietro le quinte e il cui sostentamento è stato messo a soqquadro. Da attore, sei più abituato a periodi di boom seguiti da momenti di magra.

La frase di lancio di Feud: Capote vs. The Swans è: “Le casalinghe originali”. Tu guardi Real Housewives (reality show molto popolare negli Stati Uniti, ndt)?
Non ho mai guardato un solo episodio di quello show. Non so chi siano o cosa facciano. Una di loro non ha fatto qualcosa per una domanda di ammissione al college?

Credo che tu stia pensando alla Lori Loughlin degli Amici di papà.
Oh, non era una casalinga? Questo dimostra quanto ne so. Ok.

Non sei un tipo da reality?
Non sono una persona che ama la televisione, punto. Mi piaceva molto Project Runway, ma era prima del parto, di mio marito e della vita da single. Non ho mai guardato un episodio delle Kardashian. È passato un po’ di tempo…

Com’è recitare nello “stagno” di Ryan Murphy?
È fantastico. È così prolifico. Ricordo che quando mi è stato proposto American Horror Story era ancora l’epoca di Facebook, mi sono informata e ho visto che tutti i miei vecchi amici alternativi e strampalati erano appassionati della serie. Allora ho pensato: “Mi sembra giusto farla”.

Come sei riuscita a incarnare C.Z. Guest, celebre socialite dell’alta società anni Cinquanta?
Purtroppo non ci sono molti filmati in cui parla. Ma ci sono un paio di interviste che ho guardato più volte, e un bellissimo libro della Rizzoli che raccoglie i suoi amici e le loro testimonianze su di lei. Ho letto anche il libro da cui è tratta la nostra serie, Capote’s Women, e ho guardato le foto di Slim Keith per percepire quell’epoca e quell’energia.

Chloë Sevigny è C.Z. Guest in ‘Feud: Capote vs. The Swans’. Foto: Pari Dukovic/FX

I Cigni si incontrano regolarmente per pranzi pettegoli. Lo fai anche tu con le tue amiche?
Una volta facevo delle serate in cui venivano solo le mie amiche e si beveva martini e si parlava di cazzate, ma non è più così frequente ora che questa persona così piccola è sempre a casa mia e non se ne va mai… (ride). Uno dei miei propositi per l’anno nuovo era di iniziare a ritagliarmi più tempo per gli amici.

Come bevi il martini?
Secco, con un twist di limone.

Gin o vodka?
Vodka. Mi piace la Chopin.

Il tuo profilo sul New Yorker firmato da Jay McInerney compie 30 anni quest’anno. Cosa ne pensi?
È stato così strano vedere una cosa scritta su di te prima ancora di diventare famosa, sai? Questa è stata la parte più difficile per me: Non capivo davvero perché stesse accadendo. A posteriori, penso che sia interessante seguire una ragazza che si sta affermando, ma all’epoca non mi sembrava giustificato. Mi chiedevo: “Perché ti interessa?”. Pensavo: “Perché lo sto facendo?”. Forse perché Jay mi aveva promesso di comprarmi un vestito, e mio padre leggeva il New Yorker...

The Swans parla di Capote che scrive cose scandalose ed esagerate sulle sue amiche. Qualcuno ha mai scritto qualcosa di particolarmente scandaloso su di te?
C’era uno che scriveva per la sezione Style del New York Times, Bob Morris. È stato molto offensivo, ha scritto cose davvero brutte. Ci penso ancora. Diceva: “Non è così attraente, non è così intelligente e non è così brava a recitare”. Quando hai vent’anni e lo leggi, pensi: “Eh?!”.

Hai avuto il tuo primo figlio a 45 anni nel maggio 2020, all’apice della pandemia.
È incredibile avere un bambino. Non pensavo che mi sarebbe mai successo, e invece adesso non riesco a immaginare la vita senza di lui. E, come ho detto, non se ne va mai. È sempre qui intorno. Avevo un medico specializzato in queste gravidanze “ad alto rischio”: voleva indurre la gravidanza per il bene del personale dell’ospedale, perché se si induceva la gravidanza si poteva fare il test Covid, e quindi le infermiere si sarebbero sentite più tranquilli se fossimo stati tutti negativi. È una cosa complicata da raccontare a un giornalista, è così personale. Spero che le persone siano felici che sia successo a me, ma non voglio nemmeno che pensino che sia la cosa più importante. Ho anche amici che mi hanno detto: “Ho un’ottima carriera. Se non avessi avuto un figlio, sarebbe andata bene ugualmente”. Io ho pensato: “Cosa?!”. Avevo provato altre strade e non avevo avuto fortuna, quindi concepire naturalmente a quell’età è stato una specie di miracolo.

Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto?
Non ho una risposta precisa. Penso che ci siano cose che si imparano man mano che si va avanti, per esempio quanto sia malsano fare continuamente paragoni con gli altri ed essere tristi per questo. Ognuno deve correre la propria corsa: so che dirlo ad alta voce sembra una banalità.

Che consigli di stile daresti alle persone?
Lo stile è così personale. Ci sono persone che sostengono che “less is more“, ma non so se sia necessariamente vero. Penso che qualsiasi cosa sia vera per te ti fa sentire meglio.

Natasha Lyonne è una delle tue più vecchie amiche. Come vi siete conosciute e come siete riuscite a mantenere un’amicizia così duratura?
Ci ritagliamo del tempo per vederci. Di recente è venuta a festeggiarmi per il mio 49esimo compleanno. Abbiamo un atteggiamento simile nei confronti di alcune cose della vita e del lavoro. Ci siamo conosciute quando eravamo entrambe coinquiline di Mike Rapaport, lei a Los Angeles, io a New York. Vivevamo tutte e due con lui gratis, più che come vere e proprie coinquiline. Lui ci ha presentate, e noi ci siamo subito trovate in sintonia.

Cos’avete fatto per il tuo 49esimo compleanno?
Siamo andate in un posto che si chiama Palm Heights, a Grand Cayman, facile da raggiungere da New York, in un resort all-inclusive da dove non siamo mai uscite. Lei adora l’acqua. È una strana bambina acquatica, sta in acqua anche per quattro ore di fila. È molto difficile per lei andare in vacanza perché ama lavorare: riuscire a non farla lavorare è stata un’impresa.

Ho sempre ammirato il fatto che tu sia rimasta fedele alle sue idee e abbia girato quasi esclusivamente film d’autore e nessun titolo da grande Studio. È stata una decisione consapevole da parte sua o Hollywood ti ha sempre tenuta un po’ da parte?
Penso che sia un po’ vere entrambe le cose. All’inizio è stata una scelta. Poi però sono rimasta incasellata in quella nicchia che mi sono scavata. Mi piace pensare di aver mantenuto questo atteggiamento anche in televisione. Mi piace lavorare con, oserei dire, autori: penso a Ryan Murphy ma anche a Portlandia, Louis C.K., Russian Doll e persino Big Love, in una certa misura. Mi piace lavorare a questi progetti televisivi con showrunner e registi forti. Se non ho fatto molti progetti coi grandi Studios, molto ha a che fare anche con il fatto di vivere a New York e non a Los Angeles. Mio padre è morto quando avevo vent’anni, e non ho mai voluto stare lontano da mia madre.

«A New York i cani stanno prendendo il sopravvento. Tutti hanno un cazzo di cane, mi fa impazzire. Mi dispiace, amanti dei cani: siete in troppi»

Hai dei film preferiti, tra quelli in cui ha recitato? Ce ne sono molti bellissimi…
Mi piace l’impatto che Gummo ha avuto sul pubblico più giovane, gli ha permesso di avere una percezione diversa dei film in generale. Forse non è la mia interpretazione preferita di per sé. Amo anche Boys Don’t Cry, per l’impatto sociale che ha avuto. È così raro fare qualcosa che sia così commovente, che apra gli occhi e che si spera cambi la coscienza delle persone.

Cosa pensi oggi di Kids?
Vedo momenti che sono reali. Erano tutti miei amici, quindi penso: “Quella persona non sta recitando, sta tutto succedendo davvero”. Mi sembra che Harold [Hunter] e Justin [Pierce] siano le uniche persone vere in quel film, e che tutti gli altri recitino. Mi piace anche vedere New York ripresa e raccontata in quel modo. Ho nostalgia di quel periodo, perché era la mia giovinezza. La gente mi parla ancora ogni giorno di quel film, è pazzesco. Non riesco a credere che abbia avuto questa vita così lunga.

È sorprendente vedere marchi diventati popolari nel mondo degli skater come Stüssy tornare popolari in questi anni.
Penso che sia dovuto al fatto che negli ultimi dieci anni c’è stata un’esplosione dello streetwear. Supreme è stato il capofila di questo fenomeno, un marchio di skate “superfigo” diventato più di un marchio di skate. Per me lo streetwear è sempre stato presente perché vivo a New York, prendo la metropolitana e cammino, quindi sono abituata a confrontarmi con questo stile. Ora tutto è interconnesso. Quando ero più giovane, si poteva distinguere tra chi era un punkettaro, chi un ragazzo hardcore, chi appassionato di hip-hop. Ora, invece, sembra che tutti siano solo appassionati di moda in modo vago e generico. È difficile vestirsi in un modo che ti identifichi in un certo ambiente, soprattutto se quell’ambiente è ribelle. Immagino che per i ragazzi sia più difficile volersi sentire un singolo, e non uno dei tanti omologati alla massa. Non lo so, è una mia supposizione.

Cosa ne pensi dello stato in cui versa New York? È sempre più una città per ricchi.
Già. L’athleisure (la tendenza a indossare capi originariamente pensati per le attività sportive in contesti glamour o formali, ndt) e i cani stanno prendendo il sopravvento, ed è davvero un peccato. Tutti indossano Lululemon e hanno un cazzo di cane, e questo mi fa impazzire. Mi dispiace, amanti dei cani: siete in troppi. Non vado in giro per locali a Ridgewood, quindi sono sicura che da qualche parte [il vecchio spirito di New York] c’è ancora, ma non lo sto più vivendo. Mi mancano i mega club e il fatto di poterci andare tranquillamente. Mi piacerebbe che ci fossero ancora [a Manhattan] e non a Ridgewood, che sembra molto lontano. Allo stesso tempo, la città sembra più piccola e interconnessa: basta un Uber per andare in quartieri anche lontani. Una volta era più difficile arrivare in certe zone, metropolitane e autobus non arrivavano ovunque.

Chloë Sevigny al party del film ‘Mosche da bar’ a New York, ottobre 1996. Foto: Catherine McGann/Getty Images

Di recente hai organizzato una vendita di alcuni tuoi vecchi abiti, ed è diventata un evento. Perché hai deciso di farlo?
Faccio costantemente piazza pulita del mio guardaroba, regalo un sacco di capi agli amici, oppure li vendo. È una fonte costante di sconvolgimenti nella mia vita. Stavolta ho deciso di liberarmi davvero di un po’ di cose e mi sono rivolta a una donna, Liana [Satenstein], che lavorava a Vogue e ha avviato un’attività di aiuto alle donne per ripulire i loro armadi. L’aveva già fatto con Sally Singer, che era una giornalista di Vogue, Mickey Boardman, una redattrice di Paper, e Lynn Yaeger, che scriveva per il Village Voice. Dicevano: “Facciamo una grande vendita!”. E io: “Se volete organizzarla, bene!”. La sera prima ero in ansia: “Verrà qualcuno?”. E poi è diventata una cosa da fare per i più giovani. Alcuni ragazzi dicevano: “Non voglio comprare niente, voglio solo venire, uscire e conoscere altre persone”. La fila è diventata un evento. È stata la cosa più bella di sempre.

Ci sono dei tuoi oggetti da cui non ti separeresti mai?
Ci sono cose che ho indossato in occasione di eventi specifici, come la maglietta che avevo in Kids, il vestito che ho messo quando sono stata nominata all’Oscar, la giacca di jeans indossata da Linda Manz in Snack Bar Blues con la scritta “Elvis” sulla schiena, le orecchie che ho fatto per Bunny Boy in Gummo... cose come queste hanno una rilevanza culturale, e una rilevanza per me e per la mia vita personale. Il mio vestito della prima comunione. Il mio abito da sposa!

Hai diretto diversi corti. È in programma la regia di un lungometraggio?
È nei miei piani, sì, da prima del parto. Sto cercando di capire quale sarà la storia, o chi la scriverà, o se la scriverò io, e di avere i produttori giusti, e intanto continuo a lavorare ad altri progetti. Però mi piacerebbe molto fare più lavori da regista e stare meno davanti alla macchina da presa. Sarebbe bello invecchiare così.

Ti è mai stato proposto di collaborare a una rivista di moda, o è una cosa che potrebbe interessarti?
Credo che mi sia stato chiesto di fare da guest editor in alcune pubblicazioni, ma mi sembrava un lavoro troppo impegnativo! Il calendario della moda non è uno scherzo: dovrei andare a così tante sfilate ed eventi, trattare con gli inserzionisti e gestire la redazione, insomma… no, grazie! L’unico mio sogno potrebbe essere: “Mi trasferirò a Provincetown, aprirò un negozio di vintage e non farò più un mestiere, per così dire, pubblico”. Quello sarebbe un sogno. Ma ora ho un figlio, quindi non ho intenzione di portarlo lì e isolarlo dal mondo. Dovrò aspettare che compia 18 anni.

Da Rolling Stone US

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