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Chiara Francini: «‘Drag Race Italia’? Una benedizione»

Dal rapporto con la comunità lgbt+ alla nuova avventura targata Discovery, dal suo pensiero sulle icone gay alla musica. A tu per tu con la giudice della prima stagione italiana del cult by RuPaul

Foto: Discovery

«Ho grandi aspettative su questa intervista. Non vorrai deludermi…». Chiara Francini esordisce così e continua tutta la chiacchierata sul filo dell’ironia. Intelligente, sagace, autoironica, ma soprattutto una che non si prende sul serio e sa fare spettacolo. E lo sa fare davvero, è proprio nel suo Dna. Caratteristica che hai o non hai. E lei ce l’ha. Eccome se ce l’ha. Si percepisce dal modo in cui si pone, dalle risposte, dai registri di voce ora scanzonati, ora pacati o sottovoce. Usa ogni elemento che le gira intorno per creare momenti divertenti, come solo i performer nati sanno fare: dal fidanzato Frederick, che ogni tanto la interrompe perché non sa che sta facendo un’intervista, fino ai suoi gatti («l’unico pelo che vedo da dieci anni», scherza). Avete capito: alla Francini piace stupire l’interlocutore. Il risultato? Ti rapisce. Ce ne servirebbero di artiste così. Una show-woman brillante, di questo calibro, non poteva perdersi il talent più sbrilluccicante della tv italiana: Drag Race Italia, versione tricolore del cult di RuPaul, già disponibile su Discovery+. Sarà lei – insieme a Tommaso Zorzi e Priscilla – a giudicare un manipolo di drag queen pronte a sfidarsi con performance da togliere il fiato.

Chiara, la tua carriera è da sempre per le scelte fatte, molto legata alla comunità lgbtq+.
È un po’ come la telegenia, una magia di proporzioni che non si può spiegare. Quando partecipo a un progetto televisivo cerco sempre di fare quello che mi piace, al quale posso dare e che mi possa restituire qualcosa. Credo fermamente che la gratitudine e la riconoscenza siano sentimenti che debbano essere fulcro degli esseri umani. E sicuramente lo sono per me. Questo amore, questa corrispondenza nella mia vita è sempre stata legata a persone che fanno parte della comunità arcobaleno: sono i valori e la causa che ho sposato.

Vedevi RuPaul’s Drag Race?
Sì, amavo soprattutto RuPaul, ma non avevo questa straordinaria follia che c’è attorno al programma con una fanbase carnale. Lo seguivo da tanto… questo tradisce l’età, secondo te?

Be’, credo di no.
È come dire fuseaux invece di leggings.

Non mi fare ridere. Torniamo seri: hai subito accettato il programma?
Ma sì, certo. E mi sono pure sentita molto felice. Nella mia vita prendo parte a cose in cui credo profondamente. Voglio essere amata, che significa sentirsi giusta. Essere stata chiamata a fare il giudice significa che il mio percorso artistico è stato compreso. È stata come una benedizione, un dieci sulla pagella. Una pacca sulla spalla della mamma che ti dice: «Hai fatto bene».

Come sai, spesso, durante i Gay Pride i benpensanti parlano di baracconate o carnevalate. Uno show di questo tipo, secondo te, può aiutare o essere un boomerang per la comunità rainbow?
Ma quale boomerang! È una trasmissione che può aiutare non la comunità arcobaleno, ma la comunità tutta. Non scordiamoci che quella lgbtq+ è una comunità che fa parte della società. Anche quella che è la sua storia, quelli che sono i suoi eroi e le sue eroine devono essere raccontati: fanno parte dello sviluppo, del progresso e della rivoluzione della collettività. Il format parla a tutti, parla ai giovani alfabetizzati – e questa cosa che sto dicendo un po’ tradisce l’età – nel senso che si riferisce a quel pubblico lì. Non è una cosa che solo la comunità lgbtq+ comprende, è questo l’errore. L’alfabeto di Drag Race è la lingua universale che parla a tutti.

Chiara Francini con Tommaso Zorzi e Priscilla. Foto: Discovery

Le icone gay – di cui tu, probabilmente, farai parte – hanno delle caratteristiche precise, soprattutto quelle del passato. Oggi che peculiarità devono avere?
Icone gay ci si nasce, e penso che le grandi come Raffaella Carrà e Mina lo erano – passami la parola – ontologicamente, quasi loro malgrado. Non so se lo diventerò mai, ma penso che in questo momento c’è una sorta di evoluzione.

Vale a dire?
Le icone di oggi devono avere introiettata la storia della comunità. È necessariamente una trasformazione, intesa non soltanto come progresso, ma un po’ come se le caratteristiche rimanessero le stesse, con materie diverse.

Cioè?
Il mio percorso di vicinanza alla causa non è perché mi dipingo i capezzoli con l’arcobaleno, ma è un percorso profondissimo, di cuore.

Da quando è partito questo amore?
Da sempre. Appena arrivata a Roma ho vissuto per tre anni al Circolo di Cultura Omosessuale “Mario Mieli”, ho fatto da madrina al Festival del Cinema Gay di Torino, il primo libro che ho scritto, Non parlare con la bocca piena, aveva per protagonista una ragazza con due padri. C’è davvero questa corrispondenza. È come avere sete, come quando sei sott’acqua e lo spirito di sopravvivenza ti porta in superficie. Un aspetto naturale, ma del quale avevo contezza. E qui proprio male, eh…

Cosa?
Dicendo “contezza” si capisce chiaramente l’età, dai.

Continuiamo a parlare dell’identikit dell’icona gay. Quindi, secondo te, deve incarnare i valori del mondo lgbtq+. Giusto?
Quella che sono lo devo alla comunità lgbtq+, ho sempre avuto e frequentato amici che mi hanno nutrito di bellezza e fatta sentire adeguata. Sono convinta che, nella vita, ci siano stati gay ed etero che si sono sentiti sbagliati almeno una volta. Anche nel mio libro Il cielo stellato fa le fusa c’è una novella che racconta le battaglie, quello che è stato lo Stonewall: per capire chi siamo bisogna conoscere da dove veniamo, da dove siamo partiti e cosa significava essere un omosessuale.

E tu cosa hai capito?
Essere omosessuale significava veramente, quasi per compensare, essere favoloso e superiore. Le persone che ho conosciute erano caratterizzate da questa tensione, da essere pieni di cultura. Io sono una parvenue e ho fame e necessità di fare di più per essere accettata e ben voluta, come se dovessi sempre farmi perdonare qualcosa. Ecco, le persone frequentate avevano questa fame. Le persone erano piene di cultura, melomani… caratteristiche riversate nei due padri di Non parlare con la bocca piena. La comunità lgbtq+ mi ha fatto da mamma. Bisogna recuperare questa straordinaria caratteristica che avevano gli omosessuali. È diverso essere stati gay vent’anni fa, ma le battaglie dobbiamo continuare a combatterle. Probabilmente i giovani sono più inappetenti, ma sicuramente c’è una magia.

A parte questo, cosa deve avere un personaggio per essere definito icona gay?
Forse la straordinarietà. Ad alcuni bambini e bambine di tre anni – visto che ho questo fidanzato svedese – li hanno messi di fronte a tantissime paia di scarpe, alcune erano con i brillantini, altre no. I maschi hanno scelto le scarpe con i brillantini. L’attrazione verso ciò che è shining è naturale. Sono gli altri che sono diversi, che sono strani, quelli che non scelgono gli strass.

Parliamo di tv. Sei passata da programmi come Domenica in con Pippo Baudo su Rai 1 a Love Me Gender su LaF. Scelta voluta o di circostanza?
Voluta. Sono pop, ma anche di nicchia. A teatro recito in Coppia aperta, quasi spalancata di Dario Fo e Franca Rame, ma anche in L’amore segreto di Ofelia, che è il non plus ultra della ricerca. Mi avete visto nei film di Vanzina, ma vado al Festival del Cinema di Torino con Altri padri di Mario Sesti, una pellicola autorale drammatica. E poi scrivo romanzi e faccio l’editorialista sulla Stampa.

Come pensi ti percepiscano gli altri?
Posso sembrare inadeguata, posso apparire strana. Ma va bene così. Sono una ragazza densa.

E Sanremo non ti è mai capitato?
Sarebbe un momento di grande gioia, soprattutto per mia mamma. Anche per me, ovvio.

Non c’è stato mai un avvicinamento al Festival?
Che io sappia no.

Qual è l’elemento che, a tuo avviso, ti fa essere tanto amata?
La caratteristica che credo di avere in maniera più spiccata è l’empatia. Poi, sai, godo molto del mio lavoro, non sono per niente ansiosa. In diretta sono esattamente come quando parlo con te adesso. Faccio cose che mi piacciono e questo piace alle persone. Diciamo che cerco di restituire il solfeggio della vita.

Persone amiche nello showbiz?
Se nella vita sei fortunato ad avere due o tre amici è grasso che cola. Nel mio caso sono quelli storici che conoscono da 25 anni, fuori dal mondo dello spettacolo. Però ci sono persone che ho incontrato sul lavoro cui voglio bene come Laura Chiatti e Jun Ichikawa. Quando faccio film cerco sempre di avere una collaborazione che sia come un respiro, molto schietta. «Saremo amiche per tutta la vita» non lo dico.

E cosa fa?
Se mi sei simpatica, se vuoi creare un clima favorevole di collaborazione, non sono una primadonna, non ho mai voluto essere la più bella di tutte. Voglio essere la più brava nel ruolo che interpreto, una mentalità un po’ calvinistia.

Delusioni lavorative?
Le delusioni sono grandi tradimenti, e il più grande è non avere consapevolezza di quello che sei e dove vuoi andare. Io ho sempre saputo i miei talenti e i miei difetti. Le delusioni ci sono state e, anche se pensavo fossero ingiustizie, per il grande amore che mi lega a questo mestiere ho capito che, se fossi dovuta entrare in una stanza, quella non era la porta giusta. In maniera molto naturale ho capito come provare ad arrivarci da un’altra parte. La diversità del teatro e della tv che faccio mi daà l’opportunità di esprimermi in maniera molto variegata. E dare un’immagine più precisa di quella che sono. Diciamo che, caratterialmente, più che delusa sono attiva.

Il cast della prima stagione di ‘Drag Race Italia’. Foto: Discovery

Ok, ma hai sviato sulla delusione lavorativa: quando c’è stata?
Quando non ho avuto l’opportunità di essere stata compresa. Come essere bocciata a un esame senza averlo fatto, senza dimostrare quelli che sono i miei colori. Quando non ho proprio potuto essere presente a un progetto.

Reazioni?
Non sono una lagnosa, che si lamenta. Sono molto lively, fisica. Che è anche una diminutio per certi versi: quando finisco una cosa penso ad andare avanti. Questo perché sono concreta e, da donna, abituata a fare dieci per ottenere sei. Sono consapevole, ma mi rimbocco le maniche e vado avanti. Non sono frustrata, spero lo si capisca da come parlo. Si potrebbe trombare di più, però… e adesso il mio fidanzato svedese sta alzando le mani (ride).

Parliamo di musica?
Spazio da Britney Spears al Brit pop, Tenco, la musica classica. Sono un paniere, dipende dall’umore, ma la musica è un grande compendio, un gran bel secondo nel menù della vita. Adesso su iTunes mi arrivano solo canzoni di RuPaul. Amo Barbra Streisand, sono andata a vederla in concerto. Io sono la sua Funny Girl, quella roba là. Ogni tanto faccio The Way We Were e mi tocco la faccia.

I Måneskin ti piacciono?
Sono giovini, è bono lui. Si rifanno a quello che era Bowie, però ti dico la verità: quando li vedo e leggo quello che scrivono i giornalisti, spero si tocchino i coglioni.

Ah, proprio così…
Quello che è difficile, soprattutto nella musica, non è arrivare in vetta, ma restarci. I giornali scrivono cose reali, loro sono molto giovani, sono molto bravi, sono andati da Jimmy Fallon, hanno aperto il concerto dei Rolling Stones. La stampa ha bisogno di sbocconcellare fenomeni, loro lo sono. E devono essere come la fenice e rinascere continuamente dalle loro ceneri. Frederick, qual è la pronuncia giusta dei Måneskin… (si sente in lontananza la voce di Frederick che pronuncia correttamente il nome della band, nda). Sono umiliata sovente dal mio fidanzato…

Prima di salutarti, ti vorrei fare una domanda: come ti definiresti?
Una ragazza piena di lucine.

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