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Carolina Crescentini: «Non ho capito niente dell’amore»

Abbiamo intervistato Caro in un bar di Trastevere: l'attrice ci ha raccontato del suo ultimo film, del suo rapporto con l'America e del suo amore per i supplì
Carolina Crescentini in "La verità vi prego sull'amore", al cinema

Carolina Crescentini in "La verità vi prego sull'amore", al cinema

Trastevere, vicino a Venanzio e ai suoi supplí, che lei adora – «Perché sono italiana, ma prima di tutto so’ romana». Tanto che i suoi compleanni li ha festeggiati per anni a pochi metri da qui, sugli amati e odiati sampietrini, davanti a uno dei bar cult di questo quartiere, che sa essere popolare e radical chic come nessun altro. Con Caro (per tutti Carolina Crescentini, 37 anni il 18 aprile) ci conosciamo da 10 anni, siamo passati anche da una battaglia di palle di neve al Noir Festival e quindi, prima di accendere il registratore, ci beviamo un tè per terra. Nel senso che lo prendiamo seduti sul tappeto e che io lo rovescio quasi tutto. Bene, di fronte a una delle donne più belle, e libere, che conosca iniziamo a chiacchierare di amore. Di quello che porta al cinema con La verità, vi spiego, sull’amore di Max Croci (in sala dal 30 marzo, tratto dal libro di Enrica Tesio e dal suo geniale blog Ti asmo), manuale di educazione sentimentale tra la commedia e la sit-com, divertito sguardo sull’amore del Terzo millennio. E di quello che vive, tra Roma e L.A., con il musicista Dave Mellish.

Allora questa verità, Carolina, ce la spieghi?
Avessi capito qualcosa sull’amore! La faccenda più complicata che mi sia mai capitata. So solo che, a un certo punto, ne sono in balia, mi travolge e non ci capisco più nulla.

E uno finisce per fare follie, come trasvolate oceaniche massacranti.
O come promettergli che, se lui imparerà l’italiano, tu smetterai di fumare.

Cominciamo dalla fine, anzi dall’inizio. Dave Mellish, musicista californiano…
San Sebastian, interrail. Con due amiche. Ero seduta su un gradino davanti a una libreria e lui si avvicina e inizia a parlare. Fa per andarsene e io gli dico di rimanere. E finisce che le nostre due comitive si uniscono per tutta la serata, neanche fossimo in un film di Linklater, poi ci si rivede a Roma. Una splendida amicizia nata 14 estati fa, tra mappe di Trastevere disegnate da me e chiacchierate lunghissime in chat. E alla fine è successo, ci siamo innamorati con un oceano di mezzo. Chiedimi se me lo sarei mai aspettato?

A guardare, la verità sull’amore sembri averla trovata.
Non ti nasconderò che mi mancano le piccole cose quotidiane da fare insieme, come passeggiare la mattina a Porta Portese mano nella mano, ma abbiamo tante altre cose meravigliose. Imparare da lui, che è angloamericano, dalla nostra differenza culturale, scoprire quanto sia potente il tempo che viviamo insieme.

Carolina Crescentini in “La verità vi prego sull’amore”, al cinema

Che cosa impara lui da te?
Adesso gli sto insegnando il cinema europeo: ora è il turno di Fatih Akin, La sposa turca e Soul Kitchen. Lui invece mi fa vivere la sua California, che non sono gli Stati Uniti, ma un mix di Asia, Sudamerica e Indiani americani. Certo, poi scopri che Santa Monica è Casal Palocco, ma quella è un’altra storia. E scopri che quelli di Joshua Tree, che è un posto pazzesco, sono fricchettoni, ma non come i nostri. Conosco grandi artisti che con i loro guadagni, invece di fare i coatti, comprano ettari di terra lì. O grandi attrici che diventano ricchissime per aver brevettato una scopa, perché ne avevano bisogno. Lì tutto è possibile.

Cosa non sopporti dell’America?
Non dirò Trump: troppo facile. Non sopporto i loro abbracci, sempre un po’ finti, i loro “I love you”, troppo facili. E il fatto che tutti lì hanno la valigia dei sogni e tanto talento, ma spesso è difficile capire dove stia il lavoro davvero. C’è sempre un film che sta partendo, ma quasi mai uno che va in porto. Finora non ho preso un agente lì, perché credo sia molto difficile entrare dentro quel sistema. Sai cosa si dice lì: “Fake it ‘till make it”, fingi finché ce la fai. Che ce la stai facendo, che sei felice, che vivi il tuo sogno. Ecco, io non ce la farei: più facile che negli Usa io faccia la cow girl che l’attrice, temo.

Nel film di Max Croci l’amore è pazzo, triste, divertente, a volte grottesco, spesso incomprensibile anche quando è prevedibile. Com’è il tuo?
Ci sono tanti momenti veri, tante persone vere nel film. Esiste la crisi del settimo anno, così come quella che arriva dopo il secondo figlio e la donna che diventa madre e si annulla. Esiste tutto questo ed esiste pure la pazza che interpreto io, un personaggio totalmente “fluo”, che non si sa che lavoro faccia e quanto ancora rimanderà l’appuntamento con se stessa. Se sei sempre così a palla di fuoco, se sei tutta esteriorità, c’è solitamente l’eco di un vuoto. Una “donna wow” ha sempre un lato nascosto.

Saranno quelle meravigliose occhiaie, ma ti fanno fare quasi sempre personaggi drammatici.
Vorrei tanto interpretare ruoli da commedia, giocare con i miei personaggi, improvvisare. L’unico ruolo comico che mi hanno dato è stato Corinna in Boris: quanto mi manca! Boris è il verbo. Non ho più avuto un’occasione simile, l’opportunità di esprimere quella comicità che peraltro nella vita di tutti i giorni ho.

Però, ne La verità, vi spiego, sull’amore, sono esilaranti le scene in cui tu e Ambra “giudicate il mondo”. Al parco fate l’identikit delle mamme più “spaventose”. Quali di loro non vorresti mai diventare?
La milf che rimorchia come una pazza: quel rampantismo aggressivo col ciuccio in borsa mi fa strano. Sopporto però pochissimo anche il genere “Madre Teresa di Calcutta”, quelle che si preoccupano dei loro figli e di quelli di tutte le amiche: sono fatte apposta per farti sentire inadeguata. Il terrore vero, però, lo provo per le mamme isteriche: sono destinate a rendere i figli dei serial killer. Amo quelle incasinate e multitasking, che corrono sempre il rischio di fare qualche figuraccia, perché fanno tutto: non rinunciano a essere donne, lavoratrici, amiche, tutto. Sono le mamme che inciampano sull’etichetta, ma che nella vita vincono.

Non ti chiederò quando diventerai madre tu, stai tranquilla.
E fai bene. Non mi sento in colpa per il fatto di non essere madre, anche se il mondo si sforza di provarci, con me e con tutte le altre che non rientrano dentro le sue classificazioni. Io per fortuna ho imparato a sbattere in faccia la verità, a dare risposte dritte, a non essere sempre bionda e carina.

La popolarità è troppo invadente e morbosa?
Ti rispondo con una domanda: ma davvero il nostro privato è così interessante? I fatti miei sono così imprescindibili, vendibili, esaltanti nel costruire un’immagine? Ho una vita strampalata, di cui non si deve necessariamente sapere tutto. Faccio quello che mi piace perché mi rende felice, non per essere popolare.

Ma ora ti fermano tutti dopo I bastardi di Pizzofalcone (la serie tv diretta da Carlo Carlei, nda).
La tv è pazzesca. Ha ritmi altissimi, che ti impediscono di approfondire, e allo stesso tempo è una palestra straordinaria. Con il cinema è un po’ come se gli spettatori venissero a casa tua, prendono l’auto, vanno in una sala e ti guardano. Con il piccolo schermo invece tu entri in casa loro. Quando nella serie ho lasciato Gassman (che interpreta Giuseppe Lojacono), la mia fornaia dopo non voleva più vendermi il pane. E non scherzava! La tv mi riavrà, ma con parsimonia: è bella e pericolosa. Io ho bisogno di lavorare andando a fondo, con lentezza. Quando approccio un personaggio solitamente sbaglio, non mi calo bene nei suoi panni. Poi magari trovo il tono giusto della battuta al semaforo, mentre sono in auto, all’improvviso.

Ti è piaciuto girare a Napoli?
Sì, e conta che non mangio né pizza né mozzarella, però mi sono sfogata con scarola e friarielli. Napoli è meravigliosa, pazza, dolcissima. E poi ha accolto il mio esordio, nella serie tv La squadra, quando ero giovanissima e “cagnissima”. La prima posa l’ho fatta lì, con 39,5 di febbre, come legge di Murphy pretende. Il runner, che si occupa di risolvere qualsiasi imprevisto, non mi conosceva e che fa? Mi consegna in albergo aspirina e brodo di pollo fatto dalla moglie. Napoli è questo, il bene senza che tu glielo chieda.

Carolina Crescentini in “La verità vi prego sull’amore”, al cinema

E se non avessi fatto l’attrice?
Avrei fatto la critica cinematografica come te: scrivere e vedere film mi sembrava il delitto perfetto. Poi ho incontrato la recitazione, un colpo di fulmine. Certo, non mi vedo a 60 anni a girare come una matta e già ora sto pensando a creare qualcosa, a un progetto che mi porti altrove. Scrivere mi piace, mi incuriosisce. Mi piacerebbe l’idea di farlo più seriamente. Per ora nel mio cassetto ci sono racconti, anche tosti emotivamente, ma non sceneggiature. Adoro descrivere i miei incontri surreali, a volte lo faccio su Facebook, sebbene quel social mi abbia reso famosa per una multa presa mentre mangiavo un supplì alla guida – maledetto Zuckerberg che cambia le impostazioni. Scrivere le mie esperienze più forti, subito, è un modo di ricordare, di costruire memoria.

Hai un fidanzato americano e musicista, potresti trasferirti a Hollywood, ma dici di preferire Manila…
Poche settimane fa ho fatto Filippine-Roma-Los Angeles in quattro giorni. Sono una X-Men che come superpotere ha la resistenza al jet lag. In aereo non guardo i film, guardo gli altri che li guardano e mi piace associare i passeggeri ai generi dei lungometraggi che scelgono. In uno di questi viaggi, appunto, sono finita a Tondo, un distretto di Manila, mentre ero a un festival. È stata una rivelazione e una scoperta di cui sono grata, ma che mi ha sconvolto (mi mostra immagini e video sul suo cellulare più che eloquenti: miseria, infanzia negata, dolore, nda). Nelle situazioni estreme vado in controllo: sono istintiva e cerebrale allo stesso tempo.

Era la prima volta in una realtà così estrema?
No. Non amo i viaggi comfort e ho spesso rischiato malattie serie come tifo e colera per integrarmi nelle comunità in Africa. Dopo aver conosciuto la Manila vera, ho capito che possiamo e dobbiamo aiutare quel popolo. Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine di un dodicenne arrestato dalla polizia davanti a me: cosa poteva aver fatto per subire quella violenza? Così ho deciso di raccogliere fondi per la comunità di un prete che lavora in questo distretto in cui, in 2 chilometri, vivono, in condizioni pietose, 120mila persone. I fondi saranno destinati al suo ambulatorio, perché quei bambini non sono censiti e all’ospedale non vengono accettati. Il progetto si chiama “Il cinema italiano per Tondo” e mi sta cambiando la vita.

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