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Bobi Wine, dal ghetto agli Oscar: storia di un rapper (quasi) presidente

Musicista di successo in Uganda, dal ghetto di Kamwokya è sceso in politica. Oggi la sua incredibile parabola è raccontata in un documentario candidato agli Academy Award. Lo abbiamo incontrato

Foto: National Geographic

È una storia, quella di Robert Kyagulanyi Ssentamu, meglio noto come Bobi Wine, perfetta per un film. E lui non ci ha pensato due volte, raccontandola in un documentario che adesso rischia di vincere un Oscar. Non è il favorito, 20 Days in Mariupol ha fatto incetta di premi quest’anno e il 10 marzo non dovrebbe avere problemi a coronare la Awards Season con la statuetta più prestigiosa. Ma per Bobi già arrivare fino a questo punto è stato un gran bel viaggio. Glielo avevo detto quando lo avevo incontrato a Venezia nel 2022, dove il film era fuori concorso, che secondo me avrebbe dovuto lasciare l’Uganda per Los Angeles nei dintorni di marzo. È successo con un anno di ritardo, questioni distributive, ma era difficile che la potenza della sua esperienza terrena non toccasse i delegati dell’Academy.

Raccontiamola anche noi la storia di Bobi Wine, quella di un musicista di successo nella sua natia nazione africana che dal ghetto di Kamwokya, uno dei quartieri più poveri della capitale ugandese Kampala, è riuscito, grazie al suo talento, a fare il salto diventando una star, con una sua canzone addirittura inserita nella colonna sonora di un film prodotto dalla Disney, Queen of Katwe, e un seguito social di milioni di persone. La forza di Bobi è in quello che raccontano le sue canzoni, storie di rivalsa della povera gente di cui faceva parte e che non ha mai dimenticato. Un attivista che si è esposto negli anni in prima persona, prima candidandosi al Parlamento e diventando un deputato nel suo Paese, e poi addirittura sfidando nella corsa presidenziale del 2021 Yoweri Museveni, presidente della nazione dal 1986 e di fatto dittatore dello Stato africano da allora.

Uomo intelligente, Bobi ha capito presto l’importanza della condivisione delle immagini e delle informazioni (non a caso una delle sue battaglie politiche è stata quella per l’abolizione di una tassa sui social media), e ha quindi deciso di documentare la sua ascesa politica facendosi costantemente seguire da un operatore che ha raccolto centinaia di ore di materiale che sarebbe poi stato usato per mettere insieme Bobi Wine: The People’s President, documentario prodotto da un signore che del genere se ne intende abbastanza: John Battsek ha infatti vinto due Oscar, uno con One Day in September, il doc sull’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972, e l’altro con Searching for Sugar Man, storia (altrettanto incredibile ma vera) di Sixto Rodriguez.

E adesso di nuovo in corsa. Bobi nel frattempo ha continuato le sue lotte, come mi aveva anticipato a Venezia, e dopo aver portato a lungo il film in giro per il mondo, appena rientrato in Uganda pochi mesi fa è stato rimesso in galera. Ma dovrebbe comunque sfilare sul tappeto rosso di Los Angeles. Tutto quello che ha fatto Bobi, insieme ai suoi compagni di lotta, lo si trova nel film. Parlarci è stata una bella botta d’adrenalina, di quelle che servono ogni tanto.

Bobi, come vanno le cose dopo le elezioni del 2021?
Non sono cambiate, la repressione continua, continuano gli arresti, i rapimenti e le sparizioni. Sono ancora vessato, seguito ovunque vada da poliziotti che non mi proteggono, ma che si assicurano che non mi rivolga a una folla superiore alle cinque persone. Tutti i miei amici continuano a essere in prigione. E la situazione non fa che peggiorare. L’unica cosa che è cambiata è la copertura mediatica, non ci sono più media internazionali e i media ugandesi sono stati avvertiti di non parlare mai della nostra situazione interna.

Tu vivi ancora lì: hai mai pensato di andartene?
Ci ho pensato eccome, ma mi rendo conto che non ha senso. Sarebbe un tradimento verso me stesso e la mia gente. Ogni volta che vengo arrestato ci sono persone che protestano e almeno in quel caso i media internazionali parlano di noi. Non posso andarmene, non posso tradire i 45 milioni di persone che credono in me, che hanno ricevuto il mio messaggio, che hanno reagito e mi hanno seguito.

Pensi di candidarti alle prossime elezioni presidenziali?
No, adesso sto lavorando a una campagna per la liberazione dei prigionieri politici nel nostro Paese, per prenderci i nostri diritti ed essere lasciati in pace e impedire all’attuale governo di ucciderci e rapirci. Finché la comunità internazionale continuerà a essere compiacente e silenziosa sull’attuale situazione ugandese, correre per la presidenza non ha davvero senso.

Bobi Wine: The People’s President è un prodotto importantissimo per far sì che il mondo di accorga e si ricordi di voi. In molti punti non sembra neanche un documentario, tanto straordinaria è la storia e i suoi protagonisti. Perché hai deciso di farti seguire costantemente da un operatore dal 2013?
Perché non ero sicuro che sarei vissuto fino a oggi. Quindi sapevo che se questa storia fosse stata raccontata, avrebbe ispirato altre persone, e volevo che fossimo noi a raccontarla.

Usi la musica come hanno fatto molte altri artisti prima di te, come Bob Marley in Giamaica, per esempio. Prima che un attivista, sei ancora un musicista. Quanto è potente questo strumento?
Estremamente potente. E in questo momento, mentre parliamo, è anche il nostro unico strumento. La mia musica è stata bandita in Uganda, ma non puoi passare tre macchine in un ingorgo senza ascoltare una mia canzone, anche se è pericoloso. È attraverso la musica che riusciamo a comunicare la nostra situazione e a dire ciò in cui crediamo.

Ha mai avuto un confronto diretto con il presidente Museveni?
No, l’ho incontrato l’ultima volta due settimane dopo la mia elezione a deputato. E gli ho detto che sarebbe stata l’ultima, che è stata la causa di tutti i problemi. Naturalmente mi piacerebbe incontrarlo, ma pubblicamente, non in privato come ha cercato lui di fare molte volte per farmi una domanda che già conosco: “Quanto vuoi?”. Non mi interessa, perché la mia libertà non è in vendita. E sarei felice di dirglielo in faccia, ma in pubblico.

Chi sta aiutando l’Uganda e il popolo ugandese? Ci sono Paesi che sono realmente interessati a ciò che sta accadendo?
Apprezzo il fatto che molti Paesi abbiano mostrato amicizia all’Uganda. L’America dà più di 100 milioni di dollari ogni anno per aumentare la sicurezza nazionale, e anche l’Unione Europea ci sostiene con molti soldi e mezzi, come i camion della polizia che vengono usati per investire i nostri sostenitori e ucciderli. Molti Paesi collaborano con noi e noi li apprezziamo, ma abbiamo sempre chiesto loro di fare della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani un prerequisito per la cooperazione. È stato uno dei problemi durante le elezioni, non c’era alcun controllo super partes da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, forse sarebbe stato tutto più regolare se ci fosse stato. Salvo poi, dopo le elezioni, arrivare con borse piene soldi per Museveni, e questo li rende complici.

Foto: National Geographic

Sei sempre molto calmo, al tuo posto sarei già impazzito da tempo.
Puoi star certo che dentro di me sto bruciando. Ma sai, se mi arrabbiassi comprometterei il messaggio che sto portando avanti. Certo che provo dolore. Non avrei voluto seppellire molti dei miei amici, o vederli rapire o in prigione solo perché mi sostengono. Non è un crimine. Il governo organizza le elezioni e quando ti opponi al presidente ti picchiano e uccidono i tuoi amici. Museveni alla mia età si è arrabbiato. E sai cosa ha fatto? Ha preso le armi con i suoi amici e ha iniziato una guerra, e alla fine di quella guerra mezzo milione di persone erano state uccise. Potrei fare lo stesso, ma non credo nella violenza, perché genera solo altra violenza. Ho tutte le ragioni per odiare le persone che ci fanno del male, ma il reverendo Martin Luther King diceva che l’odio non può scacciare l’odio. Solo l’amore può.

Esattamente quando hai capito che questa sarebbe stata la tua strada per il resto della vita?
Non voglio che lo sia. Voglio essere libero, riprendermi la mia vita. Non so come sia successo che sono arrivato a questo punto. Non lo so, è successo e basta. Faccio solo quello che sente il mio cuore. E una cosa tira l’altra, capisci?

C’è qualcosa di molto chiaro nel documentario: la tua famiglia è incredibilmente importante, credo sia stato uno dei motivi scatenanti, soprattutto quando hai capito che era molto più grande di quanto pensassi.
Sì, esattamente. Sono cresciuto nel ghetto e quando ho avuto successo, sono diventato ricco e famoso, ogni volta che vado a trovare mia zia o mio zio mi rendo conto di quanto sono povero essendo l’unico ricco in un mare di poveri. Quindi per me la famiglia non si ferma a mia moglie e ai miei figli. La famiglia va fino ai miei vicini di casa, perché anche loro sono la mia famiglia. È importante che io li rappresenti.

Sogniamo per un momento: quando l’Uganda sarà un Paese libero, i tuoi amici saranno usciti di prigione liberi, a quel punto che farai?
Ricomincio a vivere. Mi piacerebbe tornare alla mia musica. Essere un musicista. Vorrei insegnare. Sono all’ultimo anno di università, sto studiando legge, ma non voglio fare l’avvocato. E quando sarò vecchio, la mia pensione vorrei fosse il giardinaggio e la musica. Voglio crescere i miei figli in pace, in pace, in pace, in pace. Voglio essere libero. E voglio vedere un Paese in cui ogni giovane del ghetto abbia la possibilità di ricevere un’istruzione e di vivere al massimo delle sue potenzialità.

Guardo te e penso a Stephen Biko.
Oh sì, certo, è una grande ispirazione per me. Come Nelson Mandela. Come Martin Luther King. Come Malcolm X.

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