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Billy Bob Thornton sarebbe felice di farsi un selfie con te

La star di 'Landman' racconta il lavoro con Taylor Sheridan, i suoi sei matrimoni (tra cui, ovviamente, quello con Angelina Jolie), i “rinfreschi psichedelici” e il suo rapporto con i fan

Illustration by Celina Pereira

Ad agosto, Billy Bob Thornton ha compiuto 70 anni. È facile immaginarlo festeggiare un compleanno così importante con una sorta di party sfrenato in un periodo più caotico della sua vita, diciamo una ventina d’anni fa. Ma questa volta è stata una cosa tranquilla, con i suoi figli e la moglie Connie Angland.

«Connie mi ha chiesto cosa volevo e io ho detto: “Niente, assolutamente niente. Anzi, non dirlo a nessuno”», racconta Thornton a Rolling Stone. «Siamo semplicemente rimasti a casa, io, Connie e i ragazzi, abbiamo passato del tempo insieme, ed è stato bello. Mi hanno preso una torta vegana — non posso mangiare né grano né latticini, quindi è stato grandioso. Ogni volta che uno come me può mangiare una torta, è una gran giornata».

È un buon momento nella vita di Thornton. Dopo cinque matrimoni falliti, è finalmente in una relazione lunga e stabile, e la sua serie Landman è un grande successo per Paramount+. Abbiamo parlato con Thornton della serie, dell’insolita traiettoria della sua carriera negli ultimi decenni, della sua seconda vita da musicista, dei suoi vizi più grandi, di ciò che il pubblico ha frainteso su lui e Angelina Jolie, e del perché non dice mai di no a un selfie.

In Landman interpreti Tommy Norris, un mediatore d’affari per una compagnia petrolifera, costantemente sotto stress. In qualche modo ti identifichi con lui?
Ci sono stati periodi nella mia vita in cui avevo il peso del mondo sulle spalle, quindi penso che sia la cosa con cui mi relaziono di più. Anche la nostra etica del lavoro è abbastanza simile. E poi sono cresciuto tra Arkansas e Texas, quindi conosco quei tipi [del petrolio], ci sono cresciuto in mezzo.Probabilmente la differenza più grande tra me e Tommy, nella vita reale, è che il nostro modo di vestire è l’esatto opposto. L’unico cappello da cowboy che avevo indossato prima di questo era un cappello da cowboy rock’n’roll, piegato davanti e dietro, con una bandana sotto. E non avevo mai messo una camicia western bianca con bottoni a pressione prima della serie.

In due scene chiave della prima stagione, Tommy negozia con dei narcotrafficanti mentre è legato a una sedia con un sacco di iuta in testa. Come pensi che te la cavaresti in quella situazione nella vita reale?
Be’, ti dirò una cosa: nella mia vita reale sono stato molto più vicino a quello che non al dirigere una compagnia petrolifera, questo è certo. Probabilmente mi sentirei più a mio agio lì, con il sacco in testa e un gruppo di spacciatori intorno, che là fuori a parlare di pompe ad albero.

Taylor Sheridan sembra avere un intuito molto preciso su quello che serve per creare una serie di successo. Che cosa ha capito del mezzo televisivo?
Penso che sappia che ci sono persone, soprattutto negli Stati Uniti, che desiderano ardentemente rivedersi sullo schermo. Oggi molti pensano che ci siano troppe regole e troppi divieti, e che la politica sia impazzita da ogni lato. Credo che lui abbia trovato un modo per parlare a quel pubblico che sta, in qualche modo, nel mezzo. Inoltre scrive storie che ti fanno venire voglia di sapere cosa succederà dopo. È nella natura umana. È il motivo per cui la gente guardava le soap opera negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Vogliono sapere se Muffy sposerà Biff, o cose del genere.

Ha chiamato Kevin Costner, Harrison Ford, Sylvester Stallone — e te — e vi ha scritto personaggi ricchi, interessante, in un periodo in cui gli Studios non producono più il tipo di film che giravate un tempo.
È assolutamente vero. Ma è anche vero che tutti hanno ormai trovato il loro posto nel mondo dello streaming, che è quello che interessa oggi. Io sono arrivato tardi alla festa, perché quando sono cresciuto televisione era una brutta parola per un attore di cinema. Ho resistito per anni. Mi offrirono due o tre serie che poi sono diventate enormi successi negli anni Duemila, e io le rifiutai. Il mio manager continuava a dirmi: “Amico, è lì che stiamo andando. Non lo capisci”. E io rispondevo: “Lo so, ma… è TV”. E lui: “Non lo è. Sono film in forma lunga, ed è lì che sta andando il futuro”.

Billy Bob Thornton in ‘Landman’. Foto: Paramount+

Mia madre andava a vedere un film a settimana al cinema. Adesso ci va forse due volte l’anno.
Sai cosa vado a vedere io al cinema? Oceania e Inside Out con mia figlia. Queste sono le uniche volte in cui sono stato in sala negli ultimi due o tre anni: a guardare i film che vuole vedere lei.

Se oggi cercassi di far produrre Lama tagliente (Sling Blade), pensi che sarebbe possibile?
Non credo che riuscirei a farlo produrre adesso. Non credo che potremmo fare Babbo bastardo (Bad Santa) oggi. Probabilmente non riusciremmo nemmeno a realizzare Monster’s Ball – L’ombra della vita. In effetti molti dei film che ho fatto non credo si potrebbero più girare. Sling Blade, anche se venisse prodotto oggi, verrebbe relegato a qualche canale via cavo nel cuore della notte o qualcosa del genere.

Sei diventato molto famoso sulla quarantina, e non a vent’anni come molti attori. Pensi che la fama sia più facile da gestire quando sei un po’ più adulto e hai più esperienza di vita?
Oh, assolutamente. Non c’è alcun dubbio. Bacio la terra ogni giorno e ringrazio il cielo che non sia successo prima, perché a vent’anni ero un hippie magrolino coi capelli lunghi che — come diceva Frank Zappa — si concedeva “rinfreschi chimici”, e che non aveva idea di nulla se non del vivere alla giornata. Non si può immaginare cosa mi sarebbe successo se fossi diventato famoso a vent’anni. Probabilmente oggi non sarei qui, davvero.

Dopo Lama tagliente, che ti è valso l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale, ti sono arrivate moltissime opportunità tutte insieme. È stato travolgente?
Sì. È successo tutto così in fretta. Ma Robert Redford mi ha dato un ottimo consiglio. Mi disse: “Adesso ti offriranno di scrivere grandi film, tipo di un alieno che atterra in Kansas o qualunque altra cosa”. E poi aggiunse: “Non farlo. Rimani esattamente dove sei, nel mondo del cinema indipendente. Fatti un nome lì, e poi passa ai film più grandi”. Aveva perfettamente ragione. Non lo dimenticherò mai. Aveva centrato il punto.

Qual è il miglior consiglio che tu abbia mai ricevuto?
Lavoravo per una società di catering e ho incontrato Billy Wilder. Ero a questa festa piena di gente ricca, servivo tartine, e lui mi disse: “Allora, vuoi fare l’attore?” E io: “Come l’ha capito?”. Perché non mi era ancora chiaro che a Los Angeles tutti i camerieri vogliono fare gli attori. E lui disse: “Lascia perdere. Sei troppo brutto per essere un protagonista, e troppo bello per essere un caratterista”. Io gli chiesi: “E allora cosa faccio?” Lui: “Sai scrivere?”. Io: “Sì, in realtà sì. Scrivo canzoni, racconti brevi, ho scritto due sceneggiature”. E lui: “Hanno bisogno di scrittori. Gli attori sono a ogni angolo”. E quel consiglio, messo insieme a tutto, ha determinato il mio percorso.

Ho letto che hai rifiutato ruoli da villain in alcuni film molto importanti. Perché?
Anni fa, un vecchio caratterista mi disse: “Non interpretare il cattivo in un film da popcorn, perché finirai per essere quello per sempre. Non cercare di uccidere Tom Cruise o Tom Hanks, i fidanzati d’America. Perché il pubblico ti ricorderà così”. Io dico sempre ai miei agenti: “Non proverò mai a uccidere Tom Cruise o Tom Hanks. Non succederà”.

Due anni dopo il tuo indie Lama tagliente, stavi girando Armageddon, un grosso film hollywoodiano con un budget mostruoso. Quanto è stato strano?
Abbastanza strano, devo dire la verità. Non avevo mai fatto niente del genere. Non credo di aver mai raccontato questa storia a un giornalista, ma stavamo facendo la lettura del copione di Armageddon al Four Seasons. E Jerry Bruckheimer, bisogna riconoscerlo, decise di prendere alcuni caratteristi per il film. Io ero seduto tra Steve Buscemi, Owen Wilson e Will Patton. Buscemi mi guarda e fa: “Ehi, amico, che diavolo ci facciamo qui?”. Io gli ho detto: “Già, lo so”. Però devo ammettere che quel film ha superato la prova del tempo, lo mandano ancora in continuazione.

Pensi che il boom dei cinecomic finirà come quello dei western a metà Novecento, spegnendosi lentamente?
Onestamente non conosco la risposta. Il cinema è sempre stato un’industria, ma credo lo sia oggi più che mai. E qualunque cosa il pubblico voglia, gli Studios lo faranno. Non puoi biasimarli: sono una macchina che deve mangiare. Sono una corporation. Vogliono fare soldi. Petrolio, farmaceutica, tecnologia, cinema: funziona tutto allo stesso modo. E finché la gente vorrà quei film, loro li produrranno. Con i grandi film puoi venderci i giocattoli. Non so quanti pupazzi di Tommy Norris venderemmo con Landman, ma se fai Batman, quelli sì che li vendi. Speri sempre in un ritorno del cinema indipendente, come quello che abbiamo avuto tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta. Quando ho iniziato io, c’erano Quentin Tarantino, James Gray, Nick Cassavetes, Ted Demme: ci conoscevamo tutti. Eravamo outsider in un mondo di insider, come dice il mio amico Dwight Yoakam, ed era un periodo in cui funzionava. Mi auguro che possa tornare, ma non ho molta fiducia che succederà davvero.

Billy Bob Thornton in ‘Landman. Foto: Emerson Miller/Paramount+

Sei stato sposato sei volte. Hai mai perso fiducia nell’istituzione del matrimonio?
Be’, non adesso. Io e Connie stiamo insieme da 23 anni e siamo sposati da 12. Nostra figlia ha 20 anni. Ho trovato il mio posto. Le altre volte in cui mi sono sposato, era più una cosa da: hai bevuto un po’ troppo, qualcuno dice “dovremmo sposarci”, e tu rispondi: “Sì, ok”. Dico sempre alla gente: almeno ci provavo. E ovviamente io e Angelina [Jolie] ci siamo divertiti moltissimo insieme. È stato uno dei periodi più belli della mia vita. Siamo ancora molto, molto amici. Ed è stata l’unica relazione finita in modo davvero civile. Ci siamo semplicemente lasciati perché avevamo stili di vita troppo diversi.

Quello era un periodo folle, con i paparazzi che vi seguivano ovunque. Che cosa hai imparato dall’essere, per un periodo, un personaggio da tabloid?
È stato piuttosto strano. Quando ci siamo incontrati, ero io quello più famoso. E poi, quando siamo diventati una coppia, per qualche motivo la gente e i media sono sempre molto interessati alle coppie celebri, è una cosa che funziona molto. Era strano: non potevamo andare da nessuna parte. O meglio, ci andavamo, ma poi capitava che dicessimo qualcosa che diventava un “sound bite” o quel che è.

La gente parla ancora delle fialette di sangue.
Che in realtà non sono mai esistite. Avevamo entrambi un piccolo ciondolo, letteralmente con una goccia di sangue dentro. Era solo un gesto romantico, nient’altro. Ma quando i media hanno finito di ricamarci sopra, eravamo diventati vampiri. Vivevamo in un sotterraneo, bevevamo il sangue l’uno dell’altra, e tutto quel genere di storie.

Sei anche musicista, con la tua rock band, i Boxmasters. Ti sembra mai di essere quasi due persone diverse, con queste due carriere parallele?
Sì, assolutamente. Sono cresciuto nel mondo della musica e sono stato persino roadie per molte band famose. Non avrei mai immaginato di fare altro nella vita. Non sapevo nulla di cinema. Nel piccolo paese dell’Arkansas dove sono cresciuto c’era un solo cinema, e vedevamo quello che usciva della Disney: Il computer con le scarpe da tennis, Il fantasma e Mr. Chicken con Don Knotts, o un film di Dick Van Dyke. Ho capito davvero cosa fosse il cinema solo quando mi sono trasferito in California.

Chi è più vicino al vero te: l’uomo davanti alla macchina da presa o quello sul palco con la band?
Quello sul palco con la band. È molto più vicino a chi sono. [Come attore] devo davvero diventare quei personaggi. Non posso uscire e dire: “Ok, si parte”. Richiede molto pensiero e molto lavoro.

Qual è la musica che ti emoziona di più come ascoltatore?
La British Invasion, la musica di Memphis e il pop rock della California del Sud degli anni Sessanta e Settanta. Sarò sempre un tipo da Who, Beatles, Stones, Kinks e Animals.

Qual è il concerto più bello a cui tu abbia assistito?
Un concerto al Martin Coliseum di Little Rock, Arkansas, nel 1972. Era lì che si andava per i grandi eventi. L’apertura era di Freddie King. Poi suonava Tony Joe White. E i Creedence Clearwater Revival erano gli headliner. Ero più o meno in dodicesima fila, sotto “rinfreschi psichedelici”. Hanno attaccato il primo accordo di Green River esattamente nell’istante in cui si sono accese le luci sul palco. In quel momento è stato potentissimo.

Qual è il tuo vizio più grande?
Bevo Michelob Ultra perché ha 2,6 gr. di carboidrati, e puoi berne una dozzina. E fumo American Spirits. Fumo come una vecchia Buick. Questi sono i miei vizi. Ho smesso con le droghe a 24 anni e non le ho più toccate. E poi… forse la vecchia televisione. Ho passato troppo tempo a guardare vecchi show.

Quali sono i tuoi vecchi show preferiti?
Guardo Andy Griffith. E Colombo, anche. Mi piacciono tutti quei detective.

Quali sono i lati migliori e peggiori del successo?
L’aspetto migliore del successo è poter provvedere alla mia famiglia facendo qualcosa che amo. Ci sono molti modi per mantenerti, ma spesso implicano un lavoro che non è creativo. E se non creo, muoio. Quindi poter creare e, allo stesso tempo, prendermi cura della mia famiglia è quello che conta di più. E il lato negativo… Ci sono molte cose di cui la gente si lamenta. Ma non me ne viene in mente una. Certo, potresti dire la privacy, ma a me piacciono le persone. Davvero. A volte devono trascinarmi via la mia publicist, mia moglie o mia figlia. Ho parlato per mezz’ora sul marciapiede con una signora il cui figlio frequenta la facoltà di odontoiatria.

Ti va bene che gli sconosciuti ti chiedano selfie?
Assolutamente. Puoi chiederlo a chiunque venga in tour con me, o con cui faccio film: potrei restare lì tutto il giorno. Giuro. Non mi dà alcun fastidio. E, tra l’altro, sono quelle persone che hanno mandato i miei figli a scuola. Mi sento fortunato che me li chiedano. Davvero.

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