Benny Safdie: intervista per ‘The Smashing Machine’ con Dwayne Johnson | Rolling Stone Italia
Diamante grezzo

Benny Safdie sa come metterti K.O.

Il primo film “in solitaria” del regista – il biopic sportivo ‘The Smashing Machine’ con Dwayne Johnson – è il risultato di un po’ di fortuna, tanta perseveranza e un paio di pugni in faccia. Lo abbiamo incontrato

Foto: Vincent Tullo

Benny Safdie vuole assolutamente raccontarmi di quella volta che è stato preso a pugni in faccia. Durante una lunga colazione all’Old John’s Luncheonette, il tipo di tavola calda newyorkese che, nonostante una recente ristrutturazione, emana ancora una distintiva atmosfera da locale economico, il 39enne scrittore, regista e attore si dilunga poeticamente su una serie di argomenti: la fisica delle particelle elementari, i benefici della terapia, la sua passione per Christopher Nolan, La vita è meravigliosa. È bravo a conversare quanto lo è a fare cinema e, come metà del duo responsabile di film come Good Time (2017) e Diamanti grezzi (2019), questo la dice lunga. Questi character study crudi, spesso strazianti e stranamente divertenti hanno aiutato Robert Pattinson e Adam Sandler a scavare nei lati più oscuri che normalmente non avrebbero potuto mostrare, e l’ultimo lavoro di Safdie, The Smashing Machine (nelle sale italiane dal 19 novembre, ndt) sta per fare lo stesso con Dwayne Johnson. Ma prima Safdie deve spiegare perché ha dedicato anni a questo nuovo film, un biopic sul primo campione di MMA Mark Kerr. Qualche tempo fa, Benny avrebbe dovuto interpretare un pugile in un progetto che stava sviluppando con suo fratello Josh. Così ha iniziato ad allenarsi in palestra. «Entri e ci sono tutti questi rumori forti, ragazzi grossi che prendono a pugni le cose, che si picchiano a vicenda», dice Safdie. «E immediatamente pensi: “Voglio imparare a farlo anch’io”». Gli dissero che aveva talento e forza. Forse il ragazzo dovrebbe prendere in considerazione un incontro amatoriale.

Poi, mentre un giorno si allenava, Benny si è ritrovato a subire un KO. «Mi hanno proprio fatto il culo», dice scuotendo la testa. «Ho preso così tanti pugni che sono svenuto. Ricordo che quando ho ripreso conoscenza, tutti mi dicevano: “Non sederti, sverrai di nuovo”. Ma è stata la sensazione più bella del mondo. Ho ringraziato il ragazzo che mi ha picchiato a sangue. Perché ora sapevo com’era. Ne facevo parte».

Il progetto non è mai stato realizzato – il personaggio del pugile alla fine si è trasformato nel fratello con disabilità dello sviluppo interpretato da Benny in Good Time – ma Safdie ha continuato a voler comunicare ciò che lui chiamava «l’amore, la compassione e l’empatia in quel mondo di violenza». E quando scoprì un documentario del 2002 su Kerr (anch’esso intitolato The Smashing Machine), sentì di aver trovato il veicolo perfetto. Safdie aveva visto i combattimenti UFC con il suo patrigno agli albori di questo sport in pay-per-view, «quando era ancora vietato [quasi] ovunque tranne che nel Connecticut, e troppo scottante per essere trasmesso in televisione».

Tuttavia, non aveva mai sentito parlare di Kerr fino a quando Johnson, un fan di Diamanti grezzi, non ha contattato i Safdie. Quando alla fine degli anni ’90 stava scalando le classifiche del wrestling professionistico e stava valutando il passaggio al circuito MMA, Johnson aveva incontrato Kerr. Più tardi, dopo che l’artista precedentemente noto come The Rock aveva visto quel documentario intorno al 2008, acquistò i diritti sulla storia di Kerr, ricca di trionfi professionali e tragedie personali. Johnson immaginava di interpretare il pugile e pensava che i fratelli Safdie fossero le persone giuste per aiutarlo a portare quella storia sul grande schermo.

«In Diamanti grezzi c’è una contrapposizione tra grinta, disperazione e amore», dice Johnson in una chiacchierata a parte su Zoom. «Mi sembrava di guardare qualcosa che non avrei dovuto vedere, tanto era intimo. Ed era proprio quello che stavo cercando».

Benny Safdie con Dwayne Johnson sul set di ‘The Smashing Machine’. Foto: Eric Zachanowich/A24

Johnson ha inviato ai fratelli il documentario, che ha immediatamente colpito Benny. Ma poi è arrivato il Covid e il progetto «è semplicemente svanito», racconta Safdie. Ha iniziato a sviluppare la serie splendidamente surreale The Curse, che racconta di una coppia di imprenditori che dà una svolta “televisiva” a una piccola città, insieme al suo amico Nathan Fielder (co-protagonista della serie insieme a Emma Stone, ndt). «Ma non ho mai smesso di pensare al film». Un giorno, nel 2019, Safdie ha visto una famosa immagine di Kerr con indosso un maglione Nautica e ha trovato online un capo simile della taglia di Johnson. Lo ha mandato a Johnson, insieme a un biglietto scritto a mano che diceva: «Se mai lo realizzerai, che io ne faccia parte o meno, spero che questo maglione ti aiuti a entrare nella mentalità giusta».

Si è parlato molto del fatto che Benny abbia portato avanti il progetto The Smashing Machine da solo, ma lui sostiene che non ci siano attriti con Josh: le ragioni sono tutte piuttosto pratiche. Il seguito di Diamanti grezzi a cui i Safdie stavano lavorando con Sandler aveva incontrato alcuni ostacoli e Benny ha iniziato a seguire la sua musa in una direzione leggermente diversa. E in realtà, i fratelli hanno sempre «fatto le cose separatamente», dice. Quando entrambi frequentavano la Boston University, Benny ha realizzato un cortometraggio, mentre suo fratello maggiore Josh ha lavorato a un lungometraggio intitolato The Pleasure of Being Robbed. (È stato Benny a ricevere due telefonate separate da Cannes, che annunciavano che entrambi i film erano stati accettati per partecipare al Festival; i selezionatori francesi non sapevano che i due fossero fratelli finché lui non glielo ha detto). Non c’era mai stato un piano per lavorare insieme, dice Benny. Quando hanno iniziato a lavorare su una storia delicata riguardante il padre, che è diventata il lungometraggio del 2009 Daddy Longlegs, tuttavia, le loro prospettive contrastanti sulla loro educazione hanno contribuito a bilanciare il tono emotivo. Si è formata una partnership.

Tuttavia, dice Benny, non sono mai stati legati all’idea di essere un duo. «Avevamo sensibilità diverse e cose diverse che volevamo fare», spiega. «Una volta finito Diamanti grezzi, ci siamo chiesti: e adesso? Josh mi ha detto: “Voglio fare questa cosa”. E io non ero sicuro di volerla fare. A un certo punto, vuoi fare qualcosa che forse non puoi esplorare perché l’altra persona non è interessata».

Molti fratelli lavorano insieme. Non tutti finiscono su un articolo del New York Times che parla della loro separazione creativa. «Capisco il bisogno di drammaticità», ammette, riferendosi ai titoli che annunciavano che i Safdie avevano “smesso di fare film insieme”. Certo, avevano avuto accese discussioni sul set, ma erano comunque una famiglia. «Ci sono questi pugili ucraini, i fratelli Klitschko. Un loro fan che conosco diceva sempre: “Oh, cosa darei per vederli combattere l’uno contro l’altro!”. Quindi lo capisco, ma…». Safdie alza le spalle.

Dopo aver assaporato l’esperienza di The Curse, Benny ha sentito che qualcosa era cambiato nel suo processo creativo: «Ok, è ora di cambiare». Alcuni dei suoi primi corti, osserva, ruotavano attorno a due figure che aveva creato come personaggi meta-comici distinti, che impersonava durante le serate open mic e filmava di nascosto. Uno si chiamava Zachary Mulden, le cui storie “divertenti” rivelavano quanto fosse davvero patetica la sua vita (un aneddoto sull’aver aspettato due ore per tendere un’imboscata agli amici durante una partita di paintball finisce con lui che ammette di non avere in realtà alcun amico). L’altro era “un tizio di Wall Street” che si considerava un comico osservatore, che Safdie ha soprannominato Ralph Handel. Un monologo tipo iniziava con Handel che diceva: “Sono andato al supermercato e indovinate cosa ho comprato? Qualcuno lo sa? Nessuno?”. Poi descriveva con banali dettagli la pizza surgelata e il pacchetto di gomme che aveva acquistato.

Benny Safdie fotografato per le strade di New York. Foto: Vincent Tullo

Era il tipo di performance gonzo che Safdie amava, e ricordava l’entusiasmo che provava quando si esponeva davanti a un pubblico. Il fatto di recitare al fianco di Fielder ed Emma Stone in The Curse – interpretava Dougie Schecter, l’untuoso produttore della “serie nella serie” – oltre a co-sceneggiare e co-dirigere alcuni episodi, gli ricordò quanto fosse divertente stare davanti alla macchina da presa.

Così, quando registi come Paul Thomas Anderson (Licorice Pizza) e Claire Denis (Stars at Noon – Stelle a mezzogiorno) hanno iniziato a contattarlo per offrirgli di recitare nei loro progetti, Safdie ha accettato sempre più spesso. Stava ancora aspettando una chiamata da Johnson che non era sicuro sarebbe mai arrivata quando Christopher Nolan lo ha contattato per offrirgli un ruolo come scienziato in Oppenheimer. Ha colto al volo l’occasione. E tra una ripresa e l’altra, Safdie ammazzava il tempo osservando Nolan al lavoro e chiacchierando con i suoi colleghi, in particolare Emily Blunt.

«È come un bicchiere di bollicine», dice Blunt di Safdie in una telefonata a parte. «È così leggero, ed è semplicemente meraviglioso stare con lui. Avendo visto i suoi film, mi aspettavo qualcuno di molto più intenso. Ma lui ha solo questa meravigliosa, ingenua speranza nel mondo e nel processo creativo. Eppure capisce anche la lotta. Capisce il panico, l’ansia e l’umanità nella sua forma più imperfetta. Ed è interessato a rivelarla nei modi più unici».

Un giorno, mentre chiacchierava con Blunt, Safdie ha menzionato Johnson, il regalo del maglione e il loro progetto abbandonato. Sapeva che lei e “DJ” erano amici intimi dopo aver recitato insieme nel film d’avventura Jungle Cruise (2021), e si è chiesto se Dwayne avesse mai ricevuto il pullover. Blunt ha quindi contattato Johnson, il quale ha affermato di non aver mai ricevuto la maglia. («Sono sicuro che qualcuno del suo team abbia visto la lettera, che sembrava scritta da un bambino psicopatico di otto anni, e abbia detto: “DJ non ha bisogno di saperlo”», dice Safdie ridendo). Ma la star si chiese se Benny fosse ancora interessato a realizzare il film. Ben presto iniziarono a discutere di quello che sarebbe stato il debutto del giovane Safdie come regista solista. Blunt è stata scelta per interpretare Dawn, la moglie emotivamente instabile di Kerr, cosa che, come entrambi hanno rispettivamente menzionato, era tutt’altro che scontata. Solo dopo aver visto un video di lei e Johnson che si preparavano per gli Oscar del 2023 e aver notato la loro intesa, Safdie ha mandato un messaggio a Johnson: «Deve essere lei».

E a giudicare dal modo in cui Safdie trasforma il mix di brutalità sul ring e conflitti domestici di The Smashing Machine in una combinazione tra Rocky e Storia di un matrimonio, si capisce come abbia filtrato una storia sportiva vera in una visione unica di redenzione, dipendenza (Kerr ha lottato contro la dipendenza da oppiacei e ha avuto due overdose) e accettazione di sé, un pugno alla volta. È diverso dai tipici film biografici, così come da qualsiasi altro film che Johnson – quasi irriconoscibile sotto una serie di protesi, grazie al trucco del premio Oscar Kazu Hiro – abbia fatto in precedenza: la sua versione personale di Toro scatenato.

(Quel film si è rivelato un punto di riferimento importante sia per Safdie che per il suo protagonista; quando viene citato durante la nostra intervista, Johnson inclina eccitato la sua telecamera Zoom e indica una foto incorniciata sulla parete del suo salotto: è un poster originale del film sulla boxe di Martin Scorsese del 1980, che faceva parte del regalo di Safdie a Johnson alla fine delle riprese).

Sembra che Safdie stia iniziando un nuovo capitolo, che è allo stesso tempo in linea con il lavoro svolto con suo fratello e completamente suo. «Volevo davvero fare qualcosa che fosse come una realtà virtuale per le emozioni», dice Safdie parlando di The Smashing Machine, prima di spingere via il piatto vuoto della colazione. «Sai, come ci si sente ad essere quel ragazzo e ad affrontare quella lotta? Volevo catturare quella sensazione di essere preso a pugni in faccia e poi doverlo rifare ancora e ancora».

Da Rolling Stone US

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