Quando Ammazzare stanca – Autobiografia di un assassino esordisce superato nel box office da film mediocri e improbabili, qualcosa ti si spezza dentro. Perché il film di Daniele Vicari – ora già sul set dell’ambizioso Bianco, su Walter Bonatti (interpretato sullo schermo da Alessandro Borghi) e una delle sue imprese più straordinarie e dolenti – è un gioiello di complessità e spettacolo di rara potenza, una di quelle opere che dovremmo celebrare per aver trovato un pubblico di alto livello chiedendoci quanto e cosa raccoglierà nella stagione dei premi. Alla sua “solita” capacità di incastonare le vicende che racconta in un contesto sociale e politico, Daniele Vicari in questo suo lavoro, infatti, mostra il talento di genere che ha nel mettere in scena un gangster movie calabro-polentone particolarissimo, in cui gli archetipi di un mondo, quello della ’ndrangheta emigrata al nord, implode con e dentro le sue contraddizioni. A incarnarle, in modo diverso e tra gli altri, due degli attori più bravi del cinema italiano. Vinicio Marchioni, che nel film è Giacomo Zagari, padre di Antonio (Gabriel Montesi), il protagonista del film, e Rocco Papaleo, qui Don Peppino Pesce, sorprendentemente capace di dipingere un personaggio ferocemente serafico (e viceversa).
A raccontarci chi è Giacomo è Vinicio Marchioni, svelandoci il segreto del suo metodo “zoologico”. «Daniele Vicari mi ha subito chiesto di costruire un rapporto padre-figlio, al di là del contesto violento, e ha fatto riferimento alle tragedie greche, al concetto di colpa paterna che ricade sui figli innestata su una rottura generazionale, su una differenza di lingua e di visione». Già, perché siamo negli anni ’70, nel pieno di quella contestazione che vuole uccidere i padri tra università piene di studenti ribelli e piazze di operai arrabbiati. Nella prima c’è Selene Caramazza (come sempre bravissima), in fabbrica Antonio Zagari (un Gabriel Montesi come sempre sontuoso), che è un sicario perché non può fare altrimenti, ma in realtà vuole una vita normale. Proprio con quella studentessa così forte, decisa e sensibile.
Marchioni è il padre di questo ragazzo che sta cambiando pelle e non lo sa. «Giacomo Zagari è nato in un ambiente specifico, in cui era istintivamente costretto a essere un assassino e nient’altro. Ecco perché lui, interpretandolo, non l’ho pensato come una persona, un essere umano, ma come un animale che vive e agisce secondo la specie di cui fa parte e dell’habitat in cui si muove. E lui è un uomo di ’ndrangheta che non può fare altro eccetto che delinquere e uccidere, un’arma innestata in un’ineluttabilità militare, in cui l’unica differenza tra vivere e morire la fa eseguire gli ordini e seguire il branco, per sopravvivere. Ecco», prosegue l’attore, «se pensavo a lui, sul set, pensavo a un cinghiale che grugnisce invece di parlare e si muove in un territorio specifico e solo in quello, l’unico luogo a lui familiare. E infatti lui oltre la casa, oltre il crimine, conosce solo il bar. Finisce per odiare questi suoi figli che vivono, vestono in modo diverso, non può capirli e neanche amarli. Conta che in una scena tagliata Giacomo vedeva Antonio tornare a casa con un libro e impazziva. Era un segnale di fuga dal loro mondo chiarissimo».

Vinicio Marchioni, nei panni di Giacomo Zagari, con Gabriel Montesi, alias suo figlio Antonio. Foto: 01 Distribution
Non c’è giustificazionismo nell’attore verso quest’uomo che mai come in passato è stato dipinto con tinte nerissime. Però per incarnarlo ha dovuto per prima cosa capirlo. «Se tu cresci educato a uccidere fin dal primo giorno della tua nascita; se tu vivi vedendo solo due cose: combattere e morire; se tu sei un militare, in tempi di pace non sai esistere». C’è quasi compassione nella voce di Vinicio Marchioni. Non nel senso di condivisione di un giudizio, ma in quello etimologico del termine, ovvero del soffrire insieme. «Non è un male grandioso od epico quello di Ammazzare stanca, ma semplice, quasi squallido e appunto ferino. La scena in cui picchio Gabriel è una scena d’amore, sono un animale che prova a mettere in guardia dalla morte il figlio. Ovviamente non mi esprimo come un padre umano, ma come una bestia, è un amore evidentemente tossico che schiaccia e uccide i figli, ma sono nostre sane sovrastrutture intellettuali di uomini colti del 2025, non di quell’epoca e di quella classe sociale». Un ritratto su cui lui ha lavorato profondamente, anche nel fisico. «Ho preso 10-15 chili, probabilmente di più visto che a un certo punto ho smesso di pesarmi perché ci stavo prendendo gusto dopo cinque anni di dieta serrata, figlia di ruoli che richiedevano fisici perfetti. E qui invece avevo bisogno di un corpo sfatto, che non fosse modellato, ma appesantito dalla vita, dall’età e anche dall’epoca. Negli anni ’60 e ’70 gli uomini non curavano il loro corpo, lo lasciavano andare. E poi mi serviva comunicare anche fisicamente il rapporto con la terra che aveva».
Il male è qualcosa che Marchioni ha frequentato agli inizi tra Tv (Romanzo criminale – La serie) e teatro, ma che sul grande schermo ha ritrovato recentemente in ben tre ruoli. «Va detto che questo male, quello di Giacomo, ha una sua onestà intellettuale, sa di essere veleno, sa di far male alla società. Tanto che per lui è meglio una campana a morto che il suono di una sirena. Il suo non è il male che chiama Dio a propria giustificazione, che vuole travestirsi da bene, magari per uccidere bambini e innocenza. Sto facendo Riccardo III e so che quel tipo di male è narcisistico e persino simpatico, ma Giacomo non è nulla di tutto questo».
Prosegue poi guardando alle sue performance più recenti. «Con Virzì mi sono divertito a costruire questo maschio tossico e stupido, tecnologico e vuoto, un vero deficiente nel senso che non ha i mezzi per capire nulla. Cesare (il suo personaggio in Un altro ferragosto, nda) è tutto esteriorità, forma e muscoli, è vagamente fascista, ma solo per convenienza e non per ideologia: forse coma la maggior parte dei fascisti. Ricordo ancora, a proposito di animali, che Paolo mi disse: “Per me deve avere lo sguardo di una mucca”, e così sono partito per costruire il mio fisico. Cesare è un uomo insicuro, soprattutto verso il femminile, rappresentato da una donna (Sabrina Mazzalupi, interpretata da Anna Ferraioli Ravel, nda) su cui esercita il proprio narcisismo vittimista e passivo-aggressivo, quel suo essere italiano fino al midollo, profittatore e leccaculo verso il più forte, sempre pronto ad andare in soccorso del vincitore. Il male di Capuano nell’Isola di Andrea invece nasce dal fatto che lui, Antonio, dice che siamo di cristallo e basta una crepa perché noi maschi non ci recuperiamo più, forse proprio per l’ossessione della forza che ci instillano fin da piccoli. Non sappiamo attraversare le crisi, l’abbandono, il tema più importante delle relazioni in questi anni. Quindi tutti abitano il male, ma sono tre uomini totalmente diversi. Il primo non può chiedersi chi è, il secondo non vuole, il terzo non ci riesce. Ma tutti e tre rifiutano la diversità, l’altro da sé».

Vinicio Marchioni in una scena del film. Foto: 01 Distribution
A costruire l’insopportabile, dolente, inquietante Giacomo Zagari lo ha aiutato il regista. «Daniele è un regista incredibile, un grandissimo autore ma anche bravo tecnicamente. Inoltre le nostre umanità si sono incontrate, ci accomuna anche una certa origine contadina, e poi ha un’etica, una morale, una visione politica e intellettuale oltre che artistica di una coerenza e di una forza eccezionali. Tutto questo è molto raro: lui ha saputo rimanere cristallino, non corrompersi mai. Fa il cinema che vuole, e non so quanti possono dirlo. Inoltre è un regista che ama il teatro, dove abbiamo provato per più di una settimana, e lì ha saputo studiare ancora i suoi personaggi, sperimentandoli nell’improvvisazione che abbiamo fatto su quelle caratterizzazioni, dimostrando di essere uno che sa ascoltare. Con lui ti senti una parte vera del film, non solo uno strumento. Quei giorni in teatro sono serviti a farci entrare nei ruoli ma anche nella storia e nelle dinamiche. Alcune scene sono diventate vitali grazie a quelle prove, all’intimità che ci hanno regalato. E poi Daniele ha un’altra cosa meravigliosa. Gli intellettuali come lui spesso, anche per proteggersi, mettono su uno schermo che fa perdere loro umanità. Lui no, l’ha mantenuta intatta».
Ovviamente fondamentale è stato il lavoro anche con gli altri attori. «Abbiamo lavorato anche tanto sulla lingua, insieme a Rocco Papaleo, con un dialogue coach della zona di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria. Io sono della provincia di Crotone da parte di madre ed è stata una maledizione perché, pur nella vicinanza geografica, tra i due dialetti ci sono differenze clamorose sintattiche, è stato come fare un film in greco con il problema che a me usciva il mio calabrese. E poi ho ripescato dentro i miei silenzi, la mia omertà, la difficoltà di esprimere i sentimenti della mia Calabria, in cui non ci si dice “ti amo” o “ti voglio bene”. L’omertà di quelle parti non è solo delittuosa, è non avere le parole per esprimere i sentimenti, un vocabolario emotivo che si traduce in dolore non condiviso, abbracci non dati, sentimenti non detti. Ed è una riflessione su un popolo la cui omertà criminale è il frutto di una lunga serie di assenze e mancanze Un percorso davvero interessante e profondo».

Rocco Papaleo è Don Peppino Pesce. Foto: 01 Distribution
«Il dialetto calabrese l’avevo approcciato già in U.S. Palmese», interviene Rocco Papaleo, che interpreta Don Peppino Pesce, in cima alla piramide criminale del piccolo mondo antico del protagonista Antonio (il vero Zagari peraltro ha scritto il libro da cui è tratto il film). «Ma ho scoperto presto, grazie al coach Vincenzo Scorucchi, che era un alto e altro grado di calabrese rispetto all’opera dei Manetti, e lo studio è stato anche un modo di costruire il personaggio, di avvicinarlo pur essendo così lontano da me”.
Una sfida, una scommessa che ha voluto, nonostante le poche pose. «Esplorare in un territorio in cui non mi ero mai addentrato è stato interessante, così come scoprire che a 67 anni provavo piacere nel giocare al cattivo. In un’età in cui sono ancora più stufo della ripetizione rispetto al passato, questo ruolo ha rappresentato un rilancio della mia voglia di recitare. Qualcosa che non mi aspettavo, così come la violenza scaturita dalla scena in cui sono stato coinvolto, che ha rappresentato per me, da attore, anche uno sfogo, perché mai l’avevo sperimentata sul set».
Anche lui sente il bisogno di chiudere ringraziando il cineasta che lo ha voluto, insieme ai produttori (alla base del progetto c’è la Mompracem dei fratelli Manetti e Pier Giorgio Bellocchio, qui anche come attore nei panni di uno sbirro cinico). «Daniele è un grande regista, di cui apprezzo la cura e la precisione nel lavoro, l’attenzione nel mettere a proprio agio l’attore. È stato bello lavorare con chi ama così tanto gli interpreti, godere di giorni di riprese dove c’era il desiderio di valorizzare l’interprete e di aiutarlo ad arrivare a una qualità del lavoro molto alta. Mi sono trovato molto bene». Perché anche fare cinema stanca, se non trovi i talenti giusti che lo rendono qualcosa di unico. Come in questo caso.













