Ambra Angiolini: «Il cervello delle donne per gli uomini è un problema. E Franca Rame lo rivendicò per prima» | Rolling Stone Italia
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Ambra Angiolini: «Il cervello delle donne per gli uomini è un problema. E Franca Rame lo rivendicò per prima»

Giovedì al Teatro Carcano di Milano l'attrice porterà in scena 'Lo stupro', il monologo che vide Rame «vittima e personaggio principale oltre 50 anni fa». Abbiamo incontrato Angiolini per la Giornata contro la violenza sulle donne

Ambra Angiolini: «Il cervello delle donne per gli uomini è un problema. E Franca Rame lo rivendicò per prima»

Foto: press

Incontro Ambra Angiolini in un gelido pomeriggio milanese, a casa sua.
«Non formalizzarti per la cinesata di togliersi le scarpe all’ingresso», dice lei.
«Non formalizzarti se arrivo con le stampelle», rispondo io.
Commentiamo ridendo, e la quota disagio l’abbiamo sistemata.

In una cucina moderna, dove Ambra dice di passare molto più tempo che nel salotto zeppo di premi e corpi da scavalcare (quelli dei figli Jolanda e Leonardo e dei loro amici), ci sediamo su seggioloni all’americana e l’atmosfera è quella di (quasi) coetanee che si stanno per conoscere davvero. Confesso subito ad Ambra che ero una di quelle ragazze anni ’90 che si opponevano allo stile Non è la Rai, indossavo maglioni lunghi abbastanza da coprire il sedere e non pronunciavo una frase se non dopo averla pensata molte volte, perché sembrasse intelligente, più importante di un aspetto gradevole.

«Non sei la prima a restituirmi questa percezione, il pubblico femminile me lo sono dovuta conquistare anno dopo anno. Adesso esiste perfino un sondaggio: il 76% delle donne sta con me! Un grande successo, credimi. Le considero sorelle, figlie. Da questo punto di vista, sono molto contenta di quello che ho fatto negli anni». Lo dice alla vigilia di un appuntamento necessario ma feroce, di cui sarà protagonista: «Il 27 novembre, al Teatro Carcano di Milano, mi ricongiungo in qualche modo a Franca Rame, portando in scena Lo stupro, il monologo che la vide vittima e personaggio principale, più di cinquant’anni fa».

Era il 9 marzo 1973 quando l’attrice subì la violenza da cinque uomini, rapita e stuprata, ferita ed umiliata. Era il 1987 quando lo recitò in Tv, su invito di Adriano Celentano, a Fantastico 8. Un calcio dritto in pancia, una denuncia precisa, otto minuti di racconto spietato in cui una donna legata, immobilizzata, seviziata e stuprata fornisce i dettagli della violenza, le frasi e i gesti, e invece di denunciare alla polizia, deciderà poi di farlo in teatro. Secondo Ambra, Franca Rame non entrò in questura per denunciare il reato perché le domande dei poliziotti l’avrebbero ferita ancora. «Sa che la violenza continuerà, sarà nelle domande che le saranno fatte, in un momento in cui il tuo corpo è già ridotto in mille pezzi».

«La frase più violenta della pièce», rivela, «per me è: “Le mille sputate che ho ricevuto nel cervello”. Quello mi colpisce. Perché il cervello femminile è più importante, più del cuore che ci viene attribuito, la pancia, le ovaie. È sempre tutto legato al nostro sentire, anche le offese che ci rivolgono, come se non avessero a che fare con il nostro intelletto, con il quartier generale del nostro sistema nervoso. Pensiamo a quanto è stato bistrattato il cervello di una donna! A quanto, come organo attribuibile a persona di sesso femminile, non sia mai stato messo al centro di una conversazione. E Franca lo dice per prima: “Mi sento male per le mille sputate nel cervello”, e subito dopo “per lo sperma che mi cola” tra le gambe. “Le mille sputate che ho ricevuto nel cervello” è il simbolo di un femminismo sano, che rivendica le idee, il pensiero, la posizione sociale e politica di quella che dovrebbe essere una persona, e invece è una donna. E quindi ti stupro per quello, il tuo cervello per me è un problema. Lei lo rivendica per prima, quella frase lì mi fa venire una rabbia…».

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In quest’intervista lo sputo, lo sperma e altri dettagli organici non vengono risparmiati. Ambra mi offre un bicchiere d’acqua che, specifica, «dovrebbe agevolare l’intestino», e mi ricorda quanto anche quell’organo sia fondamentale. Ridiamo, definendo rock la cacca e gli stitici «gente eroica».

Fu piuttosto rock anche quel 9 ottobre 1997 in cui Franca Rame attese il ritorno di Ambra e del marito, in auto da Roma a Milano, proprio nel giorno in cui Dario Fo vinse il Nobel per la letteratura (il programma era Milano Roma su Rai 3). «Avevo la patente da sei mesi, guidai nove ore», ricorda Ambra, «con una sosta lunghissima all’autogrill, quando scoprimmo che Dario aveva vinto il Nobel. Ci avvisò un automobilista con un foglio sul finestrino, lo conservo ancora autografato, è un cimelio importante. Io avevo 20 anni, lui 71. Io non avevo fatto un cazzo di importante, lui aveva vinto il Nobel per la letteratura “perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”, si leggeva nella motivazione. All’autogrill io avevo il codazzo per foto e autografi, lui era contento ed emozionato, ma da solo e con una bottiglia in mano. Pensai: “Vedi la vita, io non ho fatto un cazzo per meritarmi ’sta coda, tu che hai fatto tanto e hai appena vinto il Nobel sei solo con la bottiglia”. Brindammo, anche se sono astemia, e dopo altre ore arrivammo al Teatro Carcano, dove Franca era in scena, ma lo aspettava in camerino. I loro abbracci, i loro baci, la voce di Dario: “Franca Franca Franca!”. Io ero in mezzo a loro, fu un momento speciale. Quindi tornarci oggi, anche solo stare lì, respirare quei ricordi… mi sembra la congiunzione di alcuni punti, miei, suoi, loro, in una tematica che è anche la mia, in un contesto teatrale che è il place to be per me, ormai da 15 anni. Questo monologo è una cosa enorme, durerà pure otto minuti, ma saranno otto minuti tosti».

Che cosa fa male, oltre ai pugni, le violenze, gli stupri?
La negazione di esistere, di avere dei diritti, di avere un pensiero critico, di poter dire “no, non voglio”.

Fa male la dichiarazione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Il codice genetico del maschio non accetta parità”?
(Ride) Ma che è, Lercio? Lo sporco che fa notizia?

O fa peggio quella del Ministro della Famiglia, della Natalità e delle Pari Opportunità Eugenia Roccella: “I femminicidi non calano con l’educazione sessuale”?
Sai, sembra sempre che la politica in questo periodo storico ti provochi, come se già non ci fossero abbastanza provocazioni. Non abbiamo bisogno di frasi del genere, ma di soluzioni pratiche, di essere accolti in un pensiero di condivisione. Spiegarlo a una classe quando hai un fronte politico che provoca diventa complicato. Tu politico non vuoi un confronto, vuoi che io reagisca con rabbia e frustrazione e senso d’impotenza. Al Ministro Nordio direi che io conosco il codice genetico degli esseri umani, non dei maschi e delle femmine. C’è un livello che ci rende davvero fluidi, grazie al cielo, ed è il livello del sentire la giustizia e l’ingiustizia. Su quello non c’è una distinzione tra uomini e donne, c’è un unico pensiero che deve funzionare allo stesso modo.

Hai un messaggio anche per Eugenia Roccella?
Alla Ministra Roccella ricorderei che dovremmo essere in grado di creare un confronto. E che lascino all’arte la possibilità di essere provocatoria. L’arte deve scuoterti e dirti: “Mo’ torna a casa e vedi se te torna”. Ma se questo lo fa la politica, la situazione è complessa. All’arte resta un compito terribile: farti pensare che va tutto bene. Io dovrei farlo? È strano, no? (ride amara) Non accetto questo capovolgimento dei ruoli. Se io voglio scuoterti e decido di dire la mia, tu non devi sentirti minacciato. In quanto cittadino libero voglio poter dire in modo gentile: “Non sono d’accordo”. Dobbiamo essere lasciati liberi di scuotere le persone in modo sano, in luoghi adatti, “protetti”, perché una scossa è necessaria, e spero che saremo tutti coinvolti il 27 novembre al Teatro Carcano, dove si mette in scena una sedia ancora tragicamente occupata da molte donne, quando dovrebbe essere vuota. È un compito difficile, svuotare quella sedia. Vorrei che davanti a uno stupro tutti sentissero il bisogno di alzarsi in piedi, anche in teatro. Davanti a una violenza non si è mai spettatori. Si sta scomodi, si sta in piedi, si guarda. Ci si sente impotenti? Meglio. Questo è formativo. Questo è un teatro che ci aiuta a diventare migliori, e serve a ricordarci che siamo vivi. Quindi io, cari Ministri della Repubblica, non voglio essere provocata, perché le reazioni potrebbero non rappresentarmi. Io cerco un confronto, perché non sono una che offende, non ho mai detto una parola fuori posto, eppure scendo in piazza da anni, senza aver mai detto “vaffanculo” a nessuno.

Una notte particolarmente buia entra dalla finestra della cucina di Ambra, come il buio che chiude la pièce di Franca Rame. Per riavvolgere il nastro della vita di Ambra Angiolini, zeppa di lavori, linguaggi, impegni, contratti, visibilità da quando aveva 13 anni, parto dalle origini. E anche il suo nome diventa una rivelazione.

Perché ti hanno chiamato Ambra?
Sono arrivata un po’ a sorpresa, dopo i miei fratelli Andrea e Barbara. I miei non erano pronti, erano indecisi sul nome. Mio padre mi voleva chiamare Ombretta, a mia madre non piaceva e cercava un’ispirazione. La trovò nel grande mare di Ostia, vedendo la crema Ambra solare, protezione totale.

Quindi Ambra per la crema protezione mito degli anni ’80?
(Ridiamo) La televendita era già in me! Sono protetta dal sole dalla nascita! Vuoi sapere l’energia che più mi corrisponde? Protezione solare, altro che fossile giallo!

Ambra sembra non aver fatto in tempo ad essere piccola, per sognare cosa avrebbe fatto da grande. Spigliata, chiacchierina, appassionata di ballo e stacchetti, dice che a Non è la Rai fu notata da Boncompagni per la questione “Galbusera”.

Racconta…
Io in genere facevo le mie cose, gli stacchetti, stavo dietro per copiare dalle prime file, non sgomitavo. Un giorno arrivai tardi da scuola e non riuscivo a farmi i capelli lisci, perché ero riccia, sai, ossessionata dal capello crespo. Non riuscii a passare dal parrucco, che comunque era in autonomia, mica avevamo quello personale, figurati. Mi danno una schiuma, Cielo Alto, che in realtà era un fissante, ma non un fissante normale, una roba peggio della lacca, che ci potevi attaccare la giacca, se la spruzzavi sul muro! Comunque la metto sui capelli sperando me li appiattisca, e invece divento il mago Galbusera. Avevo un fungo in testa, un casco di ricci, una parrucca, una cosa terribile! Boncompagni mi indica, e mi chiede: “Ma tu chi sei?”. Rispondo: “Il mago Galbusera”. Lui rise, e forse devo ringraziare Cielo Alto, ma vi prego, questo è un appello ai re della lacca: non mandatemi più prodotti! Lo so che sono cambiati, ma se è per quello sono cambiata anch’io.

Per la televisione sei stata considerata una rivelazione, parola che accompagna ogni linguaggio che hai interpretato. Tv, radio, cinema, teatro… quanto pesa essere una rivelazione?
Abbastanza: vinsi il Telegatto nel 1994 ma di televisione vera e propria feci soltanto quattro anni, a quei tempi. Anni intensi, a Fininvest dove avevo un contratto lungo, che cercai di rendere flessibile quella volta che Pippo Baudo mi chiese di condurre il Dopofestival. Era il 1996.

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Non date ad Ambra della berlusconiana, si altera e non ha tutti i torti. «Berlusconi era il mio editore, io però non mi esposi mai politicamente allora. Non c’è un mio virgolettato che mi attribuisca una passione per lui, quindi basta con ’sta storia! Ero giovanissima, una ragazzetta. Quella volta che scrissi a lui, come ad altri dirigenti Mediaset, per avere una liberatoria dal mio contratto in esclusiva per poter andare in Rai, lo feci perché in principio mi negarono la possibilità».

E quindi?
Allora scrissi di mio pugno: se fallisco al Dopofestival, mi assumo la responsabilità di andare a fare le televendite prima di Beautiful! Mi diedero il permesso, giudicandomi probabilmente una matta. Avevo 19 anni.

Ambra insiste sulla falsa percezione che aleggia sul suo impegno televisivo, in gioventù. «È una questione di percezione, ho fatto molta più radio che televisione, e anche più concerti che programmi in conduzione».

I numeri che fece il suo singolo T’appartengo, legato alla trasmissione di Gianni Boncompagni, sono in effetti notevoli. Ambra aveva 17 anni e cantando un misto di rap e pop vendette, soltanto la prima settimana, centomila copie del singolo. Arrivò a vendere quattro volte tanto, vinse quattro dischi di platino, e T’appartengo divenne una hit, che lei interpretò in tour da rockstar in Italia ma, soprattutto, in Sudamerica. «Te partenezco è stato un trionfo, e mi sorprese proprio perché piaceva anche a chi non sapeva nulla della trasmissione Non è la Rai, a cui era legato».

Quale fu la tua reazione, quella volta in tour in Sudamerica?
Restai, come direbbe Ornella Vanoni che già mi manca: “Stupefatta”! Capivo che T’appartengo portava gioia o leggerezza, ero consapevole di non avere una voce “giorgesca”, ma quando arrivai in Sudamerica i miei fan bloccarono l’aeroporto! Sempre più stupefatta, esplosi quando partecipai a una sorta di Festival di Sanremo oriundo a Santiago del Cile. Ero un’ospite internazionale, ma io me la vivevo sempre con la sindrome dell’impostore. Fai conto che c’era anche Shakira, non ancora così nota, o almeno non come me. C’erano 15mila persone di pubblico, live, ed era un pubblico partecipativo, che buàva o ti consacrava. Ricordo la strizza. Prima di me contestarono un comico, la presentatrice era Valeria Mazza. Prima che cominciassi a cantare, però, il pubblico intonò Te partenezco… il mio corpo era altrove, ballavo e cantavo, l’esibizione andò benissimo, pur senza una gran voce. Sì, Ornella, sì: ero e sono ancora super stupefatta!

I vostri figli cantano? (Glielo chiedo immaginando che il padre, Francesco Renga, possa averci sperato, almeno su uno dei due)
No, sono entrambi intonati ma non hanno quella passione. E poi i nostri figli sono saggi, equilibrati, seri. Jolanda ha un’età biografica da 73enne, Leonardo è sulla sessantina (22 e 20 anni, realmente).

Ambra sorride ironica e fiera, consapevole di quanto Jolanda combatta le sue battaglie «con la faccia e il corpo», proprio come la madre.

Tu e Francesco Renga come siete, come eravate? O come siete diventati?
Eravamo l’uno la metà dell’altra, non eravamo interi e insieme lo siamo diventati, è stato un grande amore, una cosa folle. Io voglio ricordarmi quella cosa là, anche per togliere dalle spalle dei figli lo zainetto delle responsabilità, quel “lo facciamo per voi” che pesa più di una verifica a scuola. Quando con Francesco abbiamo finalmente trovato una quadra, io l’ho detto ai miei figli: “Papà mi piace, voi non sareste qua se non mi fosse piaciuto così tanto. Quello che poi è successo tra noi sono cose di vita”. L’amore non è sempre restare insieme, anzi. Posso affermare che amo quell’uomo proprio perché mi sono ricordata il perché. Non abbiamo più livore, frustrazione, rabbia. Ci vogliamo bene, siamo una famiglia.

La cosa più romantica che un uomo ha fatto per te?
L’ha fatta Francesco, tanti anni fa. Ha prenotato un albergo bellissimo a Roma, ha comprato un anello, ha scritto una lettera più preziosa del gioiello, mi ha chiesto di sposarlo come mai avrei immaginato che lui potesse fare. Però poi io ho vomitato tutta la sera, ero già incinta di Leo, non lo sapevamo ancora. Infine non ci siamo più sposati, ma quello è soltanto un dettaglio.

Ambra è rock naturale anche quando racconta del libro InFame (2020), sulla bulimia, senza risparmiare motivazione e dettagli. «Mi chiedevano ’sto libro da anni, pensavano che potessi anche scrivere, pazzesco! Volevano una biografia in realtà, per sapere cose su di me da piccola, ma non c’era più niente da scoprire, su Ambra si sapeva già tutto. Siccome però ho l’anima scomposta e non mi piacciono le cose troppo lineari perché non mi rappresentano, non sono una conforme, tirai fuori dal cassetto, anzi dal computer, un testo che avevo abbozzato immaginandomi una trama alla Trainspotting, ma sul cibo. Volevo un protagonista che venisse inghiottito dal cesso perché ci vomitava dentro. Ho cominciato a scrivere, ho mandato il testo e mi hanno pubblicato. Ho raccontato quello che sapevo di questa malattia e di me. Scrivendolo ho più riso che pianto, è stata una terapia utile e divertente».

Oggi hai trovato la tua medicina più efficace, esistenziale più che farmacologica?
Io sono guarita dalla malattia della bulimia, ma resto bulimica. Adesso ho anche un’associazione, con un centro medico, per aiutare chi ne soffre, però io resto così: faccio tutto quello che è necessario per sbloccare il mio corpo. Piango, ascolto la musica per piangere a orari non proprio giusti: la mattina, quando c’è il sole, io piango, mi svuoto. A volte mi capita di fare coreografie improvvisate mentre stendo. Becco mia figlia Jolanda e la coinvolgo in uno stacchetto…

Per leggere e assimilare la tua biografia e la tua carriera professionale ho preso un giorno di ferie, e pensare che sei giovane! Rifaresti tutto?
Professionalmente sì, è tutto frutto di scomposti e frammentati ragionamenti, che spesso non quadrano, però in ogni pezzettino io c’ero. Umanamente, a livello emotivo, non lo rifarei così, escludendo gli ultimi dieci anni.

Cos’è cambiato nell’ultimo decennio?
Ho capito come funziona. Prima spiegavo, incistavo, sprecavo tante energie, per giustificarmi o per non sembrare stronza come apparivo. E invece adesso che lo sono di più lo sembro di meno. Da ragazza non ero per niente stronza: tutti dicevano “brava ma stronza”. In realtà avevo sempre paura che mi togliessero qualcosa di cui potevo avere bisogno.

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Negli anni ’90 sei stata la rivelazione in Tv e nella musica leggera. Negli anni 2000 la rivelazione nel cinema (Ferzan Özpetek, Cristina Comencini, Marco Bellocchio, Michele Placido). Quanto pesa cambiare linguaggio, ottenere successo, ma ogni volta ripartire dal via?
Pesa. Perché anche nel cinema, dopo Özpetek, sono tornata ad essere giudicata la solita “cagna”, o comunque dovevo sempre dimostrare di non esserlo. In Tv sai quante me ne hanno dette su Gianni Boncompagni? Per me resta un maestro e un autore geniale. In radio sono sempre stata me stessa, infatti non fui mai definita una “rivelazione” radiofonica, fortunatamente.

Nelle categorie care ad Alberto Arbasino quante volte ti sei sentita “giovane promessa” e quante “solita stronza”?
Io parto sempre da solita stronza, poi muori e sei la Madonna, l’unica donna in grado di rivelare, l’unica venerata maestra.

Che cosa cambia col teatro?
Potrei chiudere gli occhi e sapere che mi hanno portato in teatro, perché il suono che senti quando metti un piede in platea è un suono che entra subito dentro di te. Ognuno di noi là dentro suona in un modo. Io suono nel modo che mi corrisponde.

Che odore c’è in teatro?
Primordiale. Perché sei più tu che mai, almeno per me. E quando va bene c’è odore di carrozze e cavalli che portano il pubblico, per potermi augurare: merda merda merda!

E come ti senti, oggi?
Mi sento Ambra adesso. So cosa significavano tutti i “no” che ho detto nella mia vita.
Solo in amore non ho ancora grandi soluzioni… So che il mio brand è tornato di mia proprietà, il mio nome è solo mio adesso, non è più di nessuno. Neppure di Ambra solare, è diventata Ambre solaire.