Amanda c’est (pas) moi | Rolling Stone Italia
Interviste

Amanda c’est (pas) moi

Carolina Cavalli esordisce con un film – starring Benedetta Porcaroli e già applaudito a Venezia 79 – che è una boccata d’aria fresca. Abbiamo parlato con questa nuova irresistibile autrice di vita, morte, scrittura. E parolacce

Amanda c’est (pas) moi

Benedetta Porcaroli in ‘Amanda’ di Carolina Cavalli

Foto: I Wonder Pictures

La prima cosa che le chiedo è perché nella biografia di Instagram (dove ha nientemeno che 17k follower) si presenta con la frase “Death is an Easter egg”. Mi risponde come se il motivo fosse ovvio: “Ho immaginato che se fossimo in un videogame, potrebbe essere l’unico indizio che avremmo su qualcosa di più grande di noi. Mi dà molto sollievo l’idea che ci sia un po’ di ironia anche nella morte”. Le dico che mi sembra il biglietto da visita perfetto per lo stile del suo storytelling, evidente sia nel suo film d’esordio, Amanda (dal 13 ottobre nelle sale dopo l’anteprima nella sezione Orizzonti Extra a Venezia 79), che nel primo romanzo che ha scritto, Metropolitania (uscirà per Fandango). La terza volta che me ne esco con la questione del suo storytelling lei non si trattiene: “Mi fa impressione sentirtelo dire”. Il suo non è finto pudore: è davvero una che arrossisce al tavolo dei grandi e parla di sé ridendo, una specie di Albachiara dei giorni nostri, che te la immagini passeggiare distratta mangiando una mela con un libro sottobraccio.

La prima cosa che mi chiede lei, invece – che di domande me ne rivolgerà diverse, tipo specchio riflesso – è quali sono gli elementi di originalità che ho trovato nel suo film. Le rispondo che probabilmente l’elemento originale è lei, il suo sguardo (non dico la sua “visione autoriale” solo perché dopo “storytelling” non me lo perdonerebbe). Non credo si offenderà se scriverò che Carolina è stramba. Ma in senso romanzato, come lo si può essere solo al cinema o in letteratura. Trentun anni, milanese, bella come quelle a cui riesce d’essere belle senza il minimo sforzo. Stravagante senza badarci troppo, come quelle a cui dedicano le canzoni. Insomma, Carolina che potrebbe essere un pezzo dello Stato Sociale o dei Canova. Se vede un cavallo, lei pensa che sarebbe meglio cavalcare un asino; se osserva una sedia, immagina che sarebbe meglio usarla al contrario, con lo schienale davanti. Praticamente ribalta la visione comune delle cose a partire dal lessico: fosse per lei non si “cavalcherebbe” ma si “asinerebbe”. Mica scherza.

E se proprio siamo in cerca di originalità, basti sapere che i suoi personaggi sono il frutto di questa visione. Anche Amanda si muove nel mondo al contrario, sottosopra, controvento. Con Benedetta Porcaroli che qui fa pensare ai film di Wes Anderson e Michele Bravi al Vincent Gallo di Buffalo ’66, oppure a Tom Hiddleston in Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch. Neanche a dirlo, per chi si ritrova nelle corde di questo gusto (tipo me, che non sarò imparziale: è stato amore a prima vista) la reference è comoda, il fatto che il film piaccia è inevitabile. Eppure Amanda sembra uscita da un libro: non lo hai mai letto ma hai l’ansia da trasposizione cinematografica, pensi a chi potrebbe interpretarla per restare fedele al personaggio, come se esistesse altrove e meritasse lealtà. Forse perché alla fine non somiglia davvero a nessuno, se non alla persona che l’ha creata. Irresistibile.

La regista e sceneggiatrice Carolina Cavalli. Foto: Gianmarco Chieregato

Quando nasce Amanda nella tua vita?
Credo sia nata dall’invidia che provavo per alcuni personaggi adolescenti e bambini, come Pippi Calzelunghe, Pollon o Bunny di Sailor Moon. Provavo invidia verso quel loro modo d’essere e di vivere: irruente al di là del senso comune e di alcune regole che non condividevano. Mi sono chiesta cosa sarebbe successo, a vedere questi personaggi cresciuti. Come sarebbero stati da grandi, mantenendo quelle caratteristiche ma con l’aggiunta degli elementi di difficoltà della vita adulta. Infatti Amanda ha ventiquattro anni.

Perché parli proprio di invidia?
Perché i personaggi non crescono, e io non volevo crescere. Mi rendevo conto che per me passavano le stagioni e gli anni, ma per loro no. E poi perché avevano la libertà di non possedere un corpo che cambiasse nel tempo, e invece a noi non è concesso. Possiamo scappare da qualsiasi cosa, ma non dal nostro corpo nello spazio e nel tempo. E questo già ti sta sul cazzo a prescindere. Ecco perché non trovo del senso nell’invidiare una persona reale: alla fine siamo tutti sulla stessa barca. I personaggi, invece, hanno un sacco di fortuna.

Che tu sia bella si nota subito, anche se non si può più dire. Alla ragazzina che non voleva crescere sta stretta questa bellezza?
Io non lo so, perché la verità è che mi sento molto più bella quando scrivo. Nel mio lavoro non ho mai sentito questa pressione o questa differenza nell’essere una donna nell’industria, io vivo perlopiù sul foglio.

Anche Amanda-Benedetta è un’outsider molto bella. Francesca Fagnani direbbe: «Eh, ma così so’ boni tutti».
(Ride) La verità è che Amanda ha evidentemente una serie di privilegi. Come tanti di noi, che non ce ne rendiamo conto e soffriamo per dei problemi esistenziali. Questo ci rende ancora più patetici. E quindi più umani. È anche la base di un certo tipo di ironia, no? Prendere così seriamente delle cose che dopotutto sono molto piccole. La parabola dell’eroe un po’ sfigato. Amo i personaggi con delle manie di grandezza che vengono puntualmente deluse. Amanda ha questa tendenza a vedere tutto più urgente e pesante di quello che è. Nella vita reale è un po’ come nella scrittura: ci sono dei problemi che sono character e altri che sono plot. Più ci allontaniamo dal nostro stato naturale e animale, con ambizioni, desideri e progetti, più mettiamo il profumo e ci vestiamo bene… più si creano delle situazioni divertenti da indagare.

Se dovessi riassumere Amanda in una battuta direi: l’importanza di creare un personaggio che funzioni, prima di una storia figa.
Ormai sono affezionata a questa storia, ma se avesse una struttura episodica non potrei immaginare un capitolo senza Amanda. Tutti gli altri personaggi sono importanti, certo, ma è evidente che ci sia una protagonista. Per me è fondamentale immaginare un personaggio senza prefissarmi una trama, è la cosa più bella e puoi farla solo se scrivi da sola.

Tu però hai iniziato a scrivere nelle writers’ room.
Sì, ed è davvero una stanza fisica in cui degli sceneggiatori si ritrovano per creare tendenzialmente dei progetti seriali. C’è una grossa lavagna su cui si scrivono gli episodi e le storyline, che poi diventa una specie di schema simile a battaglia navale. In Italia un gruppo di lavoro può variare dalle tre alle sei persone, coordinate da un writer e da un creator. Io sono stata in cinque o sei writers’ room, e in molti casi non vedi mai il set. Questo è un elemento di frustrazione che fa parte del gioco.

Il gioco ti piaceva?
In realtà sono molto grata alle writers’ room, perché creano una smania di fare cose tue e guadagnarti libertà, che magari seguendo solo un percorso autoriale dai per scontata. Sono andata a cercarmele subito dopo l’università, sia a Parigi che in Italia. Non arrivavo da una scuola di cinema, ma pensavo soltanto a scrivere per il cinema. Cercavo sempre posti in cui si parlasse di cinema: le cineteche, gli amici di amici, persone a cui mandare una mail. Il primo film che ho scritto insieme a un amico è ora in fase di editing, e pensa che l’ho scritto cinque anni fa. Credo che l’allargamento dei media renda questa carriera più sostenibile.

Cioè? Non diffidi del “Mostro Piattaforma”?
Per un film oggi c’è più speranza e meno casualità. Non penso che i nuovi media abbiano fatto solo del male al cinema, va considerato che hanno dato alla mia generazione la possibilità più concreta di mantenersi economicamente facendo il proprio mestiere, di non considerarlo solo un hobby ma una professione vera, anche in ambiti collaterali. Siamo forse la prima generazione ad avere questa possibilità.

Da Venezia 79 Amanda è già stato definito un film “originale”. Merito di questa tua libertà tanto agognata?
Diciamo che ho avuto pochissima paura. Per me era in assoluto il primo film, sentivo di non avere niente da perdere. Ho fatto quello che volevo, grazie anche al fatto che me lo hanno permesso, e non è scontato neanche questo. Forse è stata una libertà anche un po’ incosciente, col senno di poi, perché ho scelto un tono difficile da mettere in scena. Ma tu ci trovi dell’originalità?

Trovo originalità nella natura del tuo sguardo sulle cose. Quando hai capito che Benedetta Porcaroli poteva essere Amanda?
Non è stata una scelta preventiva. È successo che quando ho conosciuto Benedetta ho capito che c’erano delle sfumature che naturalmente si incastravano col personaggio. La trovo irresistibile come persona, perché è molto spiazzante. E lo è nei panni di Amanda, ma non so spiegarti bene perché. Che poi è difficile tentare di spiegare perché una persona ci sembra irresistibile. Tra l’altro ci sono degli aspetti del personaggio che neanche io conosco davvero, mi sembra importante mantenere delle zone di privacy che siano solo sue.

Benedetta Porcaroli con Galatéa Bellugi in una scena del film. Foto: I Wonder Pictures

Cosa doveva assolutamente avere, Amanda?
Doveva assolutamente essere irresistibile. Per me è comunque un’eroina, quindi deve riuscire dove normalmente non si riesce. Il suo modo di essere molto forte ma allo stesso tempo molto malinconica era molto importante per me. Doveva comunicare questa domanda costante: “Ma ci è o ci fa?”. È molto divertente da scrivere sulla pagina e altrettanto difficile da mettere in scena.

Qualcuno ha scritto che è un film che comunica più con le emozioni che con le parole. Dissento: credo che i dialoghi siano la sua forza.
Io amo moltissimo scrivere i dialoghi, e ci tengo ad essere precisa, perché invece quando parlo faccio tanta fatica. Ancora oggi mi chiedo come sia possibile pensare e dire qualcosa insieme. Invece la scrittura mi dà il tempo di elaborare un pensiero e trasformarlo in una frase che mi piace.

Sei la classica persona che ama, litiga e lascia via messaggi?
Con delle lunghe lettere. È che scrivere dialoghi è il modo di parlare che preferisco, e mi piace che anche la creazione del personaggio sia fatta attorno alle sue parole. Mi prendo un lungo tempo di ricerca e di editing, perché quando rileggo i primi draft sono terrificanti proprio come il mio modo di esprimermi dal vivo.

Parliamone per dialoghi, allora. Amanda: “Sei ossessionata da Gesù”. Bambina: “Non sono ossessionata, mi piace come persona”. L’importanza dell’ironia nel cinema?
O di Gesù… (ride) L’ironia è un linguaggio bellissimo, perché riesce a significare ma senza spiegare. E significa molto più di quanto dice, perché porta con sé dei rapporti e un contesto. Trovo che prendere in modo serio delle situazioni assurde ci renda tutti un po’ ridicoli. È strano che tutti ridiamo alle stesse battute, no? Lo sai che funziona così, certo, ma realizzarlo sulle cose che hai scritto tu è davvero impressionante, credimi Chiara, me ne sono accorta in sala a Toronto. L’unica cosa che puoi sentire davvero in sala è la risata della gente, e quando arriva è un sollievo. Sempre se ridono al momento giusto, sennò diventa un problema…

Andiamo avanti. Rebecca (che non esce da anni dalla sua stanza): “Se qualcuno mi rubasse la mia stanza, io impazzirei”. Amanda: “Be’, mi pare evidente”. L’importanza d’essere cinici nel cinema?
Io faccio sempre un esercizio che non so se è utile o se è una cazzata. Provo spesso a cancellare tutto quello che so, anche le cose più semplici tipo gli oggetti: se guardo una sedia, mi chiedo come la utilizzerei davvero? La userei al contrario, perché trovo molto più facile avere lo schienale davanti. Per esempio, Chiara, se vedi un uomo su un cavallo ti sembra una cosa normale? Pensaci davvero. Ma tu ti rendi conto che c’è un uomo su un cavallo? A me non verrebbe mai in mente di farlo, al limite salirei su un asino. Mi piace far ragionare così anche i personaggi, e quando seguono una logica tanto diversa dal senso comune credo che si scateni il cinismo. Ci sono cose che diamo per scontate ma in realtà non lo sono poi così tanto. Forse è cinismo perché mette in luce che a volte il senso comune non ha senso?

Come la storia del cavallo e della zebra: “Se stai camminando per Greene Street e senti un rumore di zoccoli dietro di te, non voltarti aspettandoti di vedere una zebra. Aspettati un cavallo”.
Che bella, non l’avevo mai sentita. Sai, penso che ormai siamo abituati a dover mettere tutto in discussione ed essere molto critici, e questo può aiutarci a distruggere anche le nozioni che ci hanno impartito. Che poi, se ti aspetti il cavallo ma arriva la zebra, fa ridere ancora di più…

Senti qui: l’importanza della parolaccia. Nel tuo storytelling ha una posizione privilegiata, come mai?
Mi fa impressione che dici “il mio storytelling”. Pensi che ne uso troppe, di parolacce?

Sì, ma è parte del tuo cinismo. Da dove arriva?
Credo dal fatto che dico davvero tantissime parolacce nella vita. Ne ho sempre dette tante, e non me ne accorgo. Pensi sia un problema?

No, tu di’ sempre che è una cifra stilistica provocatoria. Sei una signorina sguaiata che combatte l’egemonia maschile, no?
(Ride) Il mio libro non sarei riuscita a scriverlo senza parolacce, ma non mi ero mai interrogata sulla valenza effettivamente sociale di questa cosa. Ora cerco di limitarmi un po’ nei contesti lavorativi, ma in generale non ho mai avuto la sensazione che fossero fuori luogo. Questo fatto delle signorine, senti, a me non è mai importato davvero. Anche se sono andata a scuola dai preti, per me è impossibile dire vaffanculo in un altro modo. Ma tu le dici le parolacce, Chiara?

Io tantissime, ma conto ancora quelle delle altre donne. A proposito, nel “tuo storytelling” domina anche il fascino per lo sconcio. Amanda che si taglia le unghie dei piedi in primo piano, i condomini del palazzo che nel libro vengono descritti come “parte della porzione umana che spegne la sigaretta nella tazzina del caffè perché qualcuno sistemerà quel piccolo schifo al posto loro”…
Penso che il disgusto sia una delle emozioni più intense e sgradevoli che si possano provare. È inevitabile, è immediato e spontaneo. L’aspetto più interessante dello sconcio è proprio il fatto che ci respinge ma ci attrae. Il flusso di coscienza libero e la possibilità di andare in fondo all’oscenità: forse è quello che mi piace davvero. Ad esempio per me il massimo dello sconcio è tutto ciò che è viscido. Persone comprese. È un sentimento fortissimo, no? Credo sia ancora più forte dell’amore.

AMANDA | Trailer Ufficiale HD

Padre: “Pensavo che andasse tutto bene. Tutto sembrava a posto, fino a due minuti fa”. Amanda: “È proprio questo l’inganno della borghesia, papà. Ma è anche il suo fascino”. La borghesia la conosci da vicino?
Diciamo che ci sono dei punti in comune con i privilegi che ha avuto Amanda, a partire dall’essere cresciuta anch’io in un Paese libero occidentale. Questo è evidentemente un privilegio che ti dà spazio per criticare qualcosa di cui fai parte.

È sempre un po’ la stessa questione: siamo frutto di un contesto sociale o generazionale?
Il contesto sociale certamente influenza il personaggio, anche nel modo di portare i capelli o di esprimersi, come quando dice cose tipo “si dà il caso che io”. È buffa ma quasi altezzosa, naïf sulla base di un’estrazione sociale. Ma in Amanda ci sono aspetti che io ritrovo nella mia generazione, come l’amore per gli anni Novanta che sbuca spesso ed è legato a una nostalgia che penso faccia parte di noi.

Quando parli di Amanda dici sempre che ti piacerebbe essere come lei, ma che non sei lei. Onestamente: perché facciamo ancora finta che siate due persone distinte?
(Ride) Proverò ad essere seria: perché a me piacerebbe passare una vacanza con Amanda molto più che con me stessa. A lei ho tolto tutti i lati di me che mi affaticano. Con lei condivido il bisogno di non dare niente per scontato, ma non siamo testarde allo stesso modo. Lei non ha vergogna, noi invece tendiamo a nascondere quello che non è socialmente accettabile. Amanda neanche la nota quell’inadeguatezza, è questa la sua forza. Se vede due persone che potrebbero essere pericolose, salta su e si mette in posizione da boxe. Io lo facevo da bambina se qualcuno mi sgridava, perché mi ero accorta che in quel modo ridevano. Oggi però non lo farei mai. È questo a rendere lei più divertente e irresistibile di me.

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