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Alice Rohrwacher, con lo sguardo incantato sul disincanto

Il suo ultimo film 'La chimera', le lettere mai arrivate di Josh O'Connor e l'umiltà di Isabella Rossellini, il ricordo dei tombaroli, la terra e le radici che connettono le persone. E il potere delle immagini. Chiacchierata con la nostra autrice più internazionale

Foto: Simona Pampallona

Dopo l’intervista con Alice Rohrwacher – non chiedetemi perché – ho cercato il significato di “evocare” sul dizionario: “Chiamare dal mondo ultraterreno a quello dell’esperienza sensibile con facoltà magiche o medianiche”. E già il legame con La chimera, storia di un giovane archeologo inglese che collabora con un gruppo di tombaroli grazie al suo dono di percepire la terra vuota sotto i piedi, pare immediatissimo.

La seconda voce sul dizionario invece, quella “per estensione”, recita: “Richiamare alla mente per suggestione della memoria, della fantasia o del sentimento”. Che è quello che Alice sa fare formidabilmente, non solo con il suo cinema, che ha un potere di incanto, persino di catarsi, ma anche con le sue parole, che sono in grado di portarti costantemente altrove, di farti persino in qualche modo vivere ricordi suoi, visualizzare similitudini molto concrete per i concetti “alti” che esprime. Insomma, chiacchierare con Alice è un’esperienza, tanto quanto immergersi nelle meraviglie (pardon) dei suoi film, da Corpo celeste a – appunto – La chimera (al cinema dal 23 novembre, prodotto da tempesta con Rai Cinema).

C’è qualcosa nei tuoi film che mi riporta spesso ai dipinti di Jean-François Millet, il pittore-contadino in cui la realtà sociale si fonde con una visione quasi mistica e romantica della natura. E penso alla storia dell’arte perché non c’è, nel cinema, niente di simile alla tua opera.
Hai citato un pittore che amo molto, ma quello che sento mi lega di più a lui è il trattare con una profonda dignità anche le persone più umili, che però non vuol dire santificarle, ma pensarle come eroi di una fiaba. Pensare che la fiaba tocchi al destino di chiunque, e quando dico fiaba mi riferisco proprio a quella italiana, molto più legata al reale di quello che possiamo immaginare. Non parlo di racconto fantastico, ma della possibilità che proprio dentro l’uomo comune si manifesti il destino di una collettività.

Tu sei la più internazionale delle nostre autrici, so che a dicembre inizia una retrospettiva al Centre Pompidou a Parigi.
Sì, la porto avanti insieme a una compagnia teatrale che si chiama Muta Imago, io amo molto dialogare con il teatro, con la musica, con altre forme espressive, perché a volte sembra che il cinema viva un po’ a compartimenti stagni, mi piace molto potermi aprire al dialogo. Ci sono un’esposizione e una retrospettiva, un mese in qualche modo dedicato – anche se sembra brutto dirlo – a me (ride).

Però è così, diciamolo.
Diciamo dedicato alle cose che ho fatto finora.

Foto: Brigitte Lacombe

Parlavamo del tuo essere internazionale, ma pure legata alle tue radici anche proprio geografiche, racconti spesso della tua terra. Come vivi questa dualità?
Questa volta mi ha sorpreso ancora di più il fatto che una storia così radicata, locale, come la storia di un gruppo di tombaroli, sia diventata così internazionale, perché il film è stato comprato in tutti i Paesi del mondo e sta avendo pubblico che viene da mondi così lontani, anche difficili da immaginare rispetto a questi poveri tombaroli. Penso che in realtà quando noi ci rifacciamo alle nostre radici, ci colleghiamo alle radici di tutti, perché in genere si pensa che scavare nelle proprie radici sia un modo per parlare della propria individualità, ma io penso proprio il contrario: è un modo per connettersi a una collettività. Un po’ come le foreste: dicono che tutti gli alberi sotto sono collegati in un’unica radice, io credo che anche noi esseri umani siamo così, e in realtà scavando ci allarghiamo e non ci chiudiamo.

Che ricordi hai di quando negli anni ’80 la tua terra è diventata un po’ il regno notturno, nascosto, di questi tombaroli?
Io ricordo bene l’atmosfera della “Grande Razzia”, così la chiamano gli archeologi, quella specie di febbre che prende il centro Italia alla fine degli anni ’70 e poi continua per tutti gli anni ’80, in cui si spacca, si vende, si strappa, si lacera una terra. La “Grande Razzia” iniziò già nel Dopoguerra, però ebbe il suo culmine, mise radici in una generazione, quella che era adulta negli anni ’80. I figli del Dopoguerra, che volevano tagliare i ponti con il passato, emanciparsi vendendolo, perché non trovavano più niente che li legasse a quel passato, niente di invisibile, di misterioso, vedevano solo una mercificazione possibile. Lo ricordo bene perché davanti al bar c’erano sempre questi uomini che non facevano niente e che mi dicevano essere tombaroli, di giorno stavano lì pigramente a guardare le macchine che passavano e poi di notte avevano queste avventure terribili, che a me facevano molta paura, sia perché naturalmente andavano contro la legge dello Stato, ma anche perché a me da bambina impressionava l’idea di andare contro la legge delle anime, contro una legge più segreta e misteriosa. E quindi li temevo: secondo me c’è una forma di tossicodipendenza nei tombaroli, un’adrenalina, credo che la caccia al tesoro sia una droga. Questo film, tramite anche le interviste che ho fatto loro, mi ha fatto comprendere tutto questo come fenomeno sociale, frutto di un’educazione: è chiaro che dobbiamo pensare ai tombaroli come a figli di una società che ha insegnato loro che non c’è più niente di sacro, che tutto si può vendere, e loro così si comportano. Ho cercato di riportare le loro azioni dentro un contesto più vasto, un contesto sociale in cui noi vediamo che dal passato non hanno niente di buono da prendere, se non questi oggetti che possono vendere.

I tombaroli della ‘Chimera’. Foto: tempesta/Rai Cinema

Come spesso succede nei tuoi film, le piccole cose come la terra diventano poi metafisiche: qui ad esempio la terra è custode di un passato (e delle sue vestigia), ovviamente, di un presente (volgarmente: il denaro per i tombaroli) e di un futuro, quello sperato dal nostro Arthur. Ti ritrovi in questa interpretazione?
Sì, io sento molto che il momento presente è intriso sia di passato che di futuro, e cerco di raccontare i vari strati dell’essere presenti, rivelare quanto passato e quanto presente ci sia nel nostro stare al mondo e quanto futuro possiamo ancora immaginare libero da ogni previsione, perché le previsioni sono tutte catastrofiche. Invece io credo che possiamo immaginare ancora un futuro diverso.

Nella Chimera hai usato delle musiche anni ’80: Battiato, Vasco Rossi, Kraftwerk. Uso una parola un po’ provocatoria, ma possiamo dire che questo è il tuo film più pop?
(Ridiamo) Sì, raccontavo un’epoca di rottura anche musicale, perché per i tombaroli la rottura è completa e questa musica mi raccontava anche questo, l’arrivo della musica elettronica, l’idea che c’è un altro alimento per le anime, e quindi mi sono lasciata andare a questa musica. Ma in realtà di livelli musicali ce ne sono tre: da una parte questa musica anni ’80 che avvolge i tombaroli, dall’altra c’è l’Orfeo di Monteverdi che, nei vari momenti in cui le scelte di Arthur sono per me scelte del destino, in quei momenti il suo destino si appoggia al destino di Orfeo, e volevo quindi che fosse accompagnato da quest’opera bellissima. E poi abbiamo anche una musica narrativa, quella dei cantastorie, che spezzano il racconto e ci chiedono all’improvviso di estraniarci e di essere consapevoli che stiamo raccontando una storia, che non dobbiamo immedesimarci troppo. So che può essere anche controproducente dal punto di vista del racconto, ma per me è importante dire al pubblico: state guardando una storia e questa storia ha anche una morale.

Parlavi di Orfeo. Ecco, il tuo Orfeo malinconico e stropicciato ha il volto di Josh O’Connor: mi pare che la vostra collaborazione sia veramente un incontro di anime. Come lo hai scelto? L’avevi già visto recitare, magari in The Crown?
L’avevo visto in La terra di Dio – God’s Own Country, un film incredibile che fu nominato ai BAFTA, avevo capito che era un attore straordinario, ma non avevo mai pensato di coinvolgerlo perché il film all’inizio si svolgeva in un’età di Arthur molto più avanzata, cercavo un attore molto più grande. La prima versione della sceneggiatura era leggermente diversa e raccontava di un uomo molto più adulto. E però le vie del destino, come dicono Le pupille, sono infinite: Josh mi ha scritto una lettera. In realtà mi ha scritto tante lettere che non mi sono arrivate, sostiene lui. La cosa assurda è che io, nonostante abbia ovviamente un indirizzo, vivendo in campagna sono considerata un po’ irraggiungibile dagli agenti. E quindi lui mi scrisse queste lettere e finalmente una mi arrivò, io gli risposi e, grazie a questa lettera, ci siamo incontrati. Lui mi contattò perché aveva visto Lazzaro felice ed era rimasto molto, molto colpito, e quando ci siamo conosciuti è successo un po’ quello che hai detto tu: ho capito che era un incontro veramente di due anime, e che quindi potevo ripensare il film e chiedere a lui di essere Arthur.

Josh O’Connor (Arthur) in ‘La chimera’. Foto: Simona Pampallona

E con la meravigliosa Isabella Rossellini invece com’è andata?
Isabella è una delle donne più fantasiose, curiose e generose che conosca, tra l’altro sono in albergo e sul tavolo vicino a me c’è proprio una rivista con lei che mi sta guardando.

E ho letto che anche sul set ce n’era una che la riguardava…
Sì! Sul set accadde questa cosa incredibile: eravamo lì a scaricare scatoloni di riviste per fare l’ambientazione della scenografia, a un certo punto cadono e ne viene fuori una dove ci sono queste due neonate in prima pagina. E Isabella fa: “Quella sono io”. Apriamo questa rivista, mi pare fosse Epoca, e c’era un servizio dedicato alla nascita delle due gemelline. Ci siamo messi tutti a guardare queste pagine sui primi mesi di vita di Isabella, e lei era così allegra e curiosa che ho pensato: “Che cosa pazzesca: una donna che sta in prima pagina dalla nascita e ha mantenuto questa generosità, questa curiosità, questa umiltà”. Dovrebbe essere una lezione per tutti, perché è pieno di gente che magari in prima pagina ci finisce una volta e si monta la testa, invece lei è riuscita a vivere curiosa a capire che il mondo è una grande possibilità di conoscere. E non solo di farsi conoscere.

Isabella Rosselini (Flora) in ‘La chimera’. Foto: Simona Pampallona

Prima dicevi che pensi a tutte le forme d’arte come collegate, tu se non sbaglio hai iniziato dalla musica, dal teatro… qual è la prima cosa che tu hai fatto in ambito artistico?
Io ho sempre suonato per strada, facevo la donna orchestra, se si può chiamare ambito artistico, forse più che altro è stato il primo momento in cui ho dovuto convincere un pubblico a fermarsi. Quello della strada è un pubblico molto democratico, perché è un pubblico che non ti conosce, che ti incontra per caso e che veramente devi riuscire a coinvolgere in qualche modo, e credo che la strada sia stata una grande maestra, ho capito anche quanto sia importante liberarsi dalle aspettative, fare sempre del proprio meglio, ma sapere che esiste anche una grande variabile di casualità che passino le persone giuste. Tutto questo mi ha accompagnata in maniera continuativa, perché l’ho fatto fino al mio secondo film, andare in giro per le città mi ha permesso di conoscere molte persone importanti, che poi sono rimaste nella mia vita, grazie proprio alla strada.

I tuoi primi lavori?
Sono stati come musicista in teatro con Gabriele Vacis, che mi vide appunto suonare per strada e mi propose di partecipare a uno spettacolo che fu molto importante per me, si chiamava Vocazione. Grazie a questo grande maestro, ebbi la possibilità di trovarmi sul palco, senza però la responsabilità di essere un’attrice. E questa è stata una grandissima scuola su cosa vuol dire interpretare, essere al centro della scena, è stato un viaggio speciale. E contemporaneamente ho iniziato a fare il mio primo documentario insieme a Pierpaolo Giarolo, e tramite questo e un piccolo spettacolo ho capito che il lavoro con le immagini per me era incredibile e necessario.

Perché?
Perché viviamo in un’epoca dove le immagini vengono sfruttate tantissimo. Proviamo a pensare alle immagini nella nostra società un po’ come alle mucche di un allevamento intensivo: riuscire invece a portare la mucca al pascolo, ad avere un rapporto diverso, di scambio, umano con questo animale è fondamentale per scardinare certi processi. Ho capito che volevo lavorare con le immagini, proprio nel momento in cui le immagini erano schiave del mercato perché ho pensato che potevo lavorare con le immagini in un modo differente, farle risplendere e respirare diversamente da come invece fa il mercato.

E come sei arrivata a fare il primo film?
Sono arrivata al primo film proprio grazie a questo primo documentario che vide un produttore, Carlo Cresto-Dina, mi contattò e poi feci una piccola collaborazione per un film collettivo che stava producendo, Che cosa manca. Lui poi, proprio in quegli anni, decise di fondare la sua prima di casa di produzione autonoma, tempesta. Io non avevo fatto davvero niente, soltanto questo documentario, ma eravamo in due registi, e quattro minuti di Che cosa manca, e la cosa folle e incredibile che fece Carlo – e che credo pochissimi produttori al mondo facciano – è che mi propose di lavorare a un’opera prima. Fu una prova di fiducia incredibile, e quando ti danno fiducia secondo me poi tu fai di tutto per non deludere le aspettative. In generale nella vita dobbiamo sempre ricordarcelo: dare fiducia è un atto importante proprio per far crescere l’altro. E quindi mi lanciai in questa sconsiderata impresa di un primo film: non avevo mai visto un set, non avevo mai lavorato con gli attori, non avevo mai girato una scena. Eppure in qualche modo il film ebbe una sua vita che continua tuttora.

Invece com’è stato l’incontro con Alfonso Cuarón e con una parte del sistema americano?
La sua è una parte del sistema americano molto anarchica, in cui stanno quelli un po’ strambi (sorride). Vide anche lui Lazzaro felice e mi contattò perché voleva produrre dei piccoli film sulle feste di fine anno. Mi propose di lavorare a un film sul Natale, e dico questo mentre sta passando, ti giuro (gira il computer per mostrarmi cosa succede, nda), un albero di Natale qui nella hall (ridiamo). Da questo incontro sono nate Le pupille, un piccolo film su come la ribellione delle bambine possa nascere con semplicità e con coerenza, questa rivoluzione non deve essere per forza violenta, ma può scardinare, può spezzare, può tagliare una torta che nessuno vuole tagliare perché tutti vogliono tenersela per sé.

Stai già lavorando al tuo prossimo progetto? Di cosa si tratta?
Sto lavorando con Wildside e tempesta a una serie antologica sulle fiabe italiane per ragazzi a cui tengo molto, perché mi piacerebbe tantissimo riuscire a fare qualcosa per i bambini, per le famiglie, che possa portare un po’ di questo sguardo incantato anche nel loro mondo.

Uno sguardo incantato e libero, come il tuo.
Ecco, uno sguardo incantato sul disincanto – come dico sempre – e libero anche nel loro mondo, che è un mondo importantissimo, fragile e preda di molti interessi capitalistici.

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