Ci sono connubi artistici che perdurano nel tempo, definendo per sempre l’identità di coloro che lo compongono. Se molto spesso, ed erroneamente, si tende ad enfatizzare unicamente l’alchimia tra regista e attore, tanto da essere stato coniato il termine specifico (“attore feticcio”), non si può non considerare quanto l’espressione musicale di un singolo compositore possa aver definito l’immaginario cinematografico di un cineasta in tutto l’arco della sua vita professionale.
Tra i grandi nomi che hanno “storicizzato” questa tendenza – Herrmann/Hitchock, Morricone/Leone, Williams/Spielberg – che ancora oggi ricordiamo, tendiamo molto spesso a rivangare nel passato quando invece ancora oggi certe affinità, quasi elettive, trovano modo di formarsi magnificamente. È questo è proprio il caso di Alexandre Desplat e Wes Anderson.
Arrivati al loro settimo film insieme con La trama fenicia, si denota uno stile sempre e perfettamente cangiante, sintomo di un binomio indissolubile basato sul gioco e sull’importanza di rendere ogni film mai fine a sé stesso. Desplat e riuscito nell’intento di trasformare la sua musica nella perfetta cornice che alimenta il cinema fiabesco e perfettamente simmetrico di Wes Anderson. Una parentesi armonica in cui il gioco e l’inganno sono sempre in primo piano.
In occasione dell’uscita del loro nuovo film, abbiamo avuto il privilegio di incontrare uno dei più importanti compositori del cinema contemporaneo, vincitore di due Premi Oscar (per Grand Budapest Hotel, proprio di Anderson, e La forma dell’acqua – The Shape of Water di Guillermo del Toro), nonché “voce sonora” di grandissimi registi come Roman Polański e Jacques Audiard, così come di grandi franchise, da Harry Potter a Jurassic World.
Vorrei partire analizzando il tuo lungo rapporto professionale con Wes Anderson: come è nato e si è sviluppato nel tempo il vostro sodalizio artistico?
È cominciato tutto con Fantastic Mr. Fox. Ci siamo incontrati al matrimonio di un amico comune, il regista Stephen Gaghan, per cui avevo scritto la colonna sonora di Syriana. Lui mi si avvicinò e disse: “Ti andrebbe di vedere il film che sto montando a Parigi?”, io risposi: “Certo, volentieri.” Così ci siamo incontrati lì, e il film era Fantastic Mr. Fox. Quello è stato il primo dei nostri incontri. Da quel momento in poi abbiamo sempre trovato un terreno fertile che ci permettesse di giocare artisticamente con le nostre personalità: melodie forti, motivi fortemente ritmati, una scrittura semplice. Sofisticata ma senza ostentazione, proprio come i suoi film. Osservando un’opera di Wes Anderson ti sembra apparentemente tutto molto semplice, facilmente replicabile. In realtà non è affatto così. Non è facile da elaborare, né da realizzare. È tutto molto più complesso di quanto sembri.
Quanto è importante, per un compositore come te, legarsi a un singolo regista? Cosa si guadagna, nel tempo, da una collaborazione così longeva?
Se prendiamo come riferimento il cinema italiano, possiamo parlare di grandi connubi artistici come quello di Morricone con Sergio Leone, o di Nino Rota con Fellini e Visconti. Sono collaborazioni durate nel tempo, che hanno definito un periodo artistico decisamente florido per la musica da film. Lo stesso vale per Georges Delerue con Truffaut. Tutti questi compositori, quando scrivevano musica da concerto, aveva già una voce ben precisa. Ma quando sono arrivati a lavorare nel mondo della musica per immagini hanno scoperto una nuova versione di sé stessi. È una cosa affascinante. Pensa anche a John Williams: la sua musica classica è estremamente sperimentale, mentre le sue colonne sonore sono incredibilmente melodiche. Queste collaborazioni di lunga data permettono al compositore di costruire un mondo sonoro tutto suo, che poi prende forma grazie al dialogo con il regista. Scrivere musica per un film significa proprio questo: collaborare. È uno scambio umano, profondo, tra due artisti che devono imparare a conoscersi e incontrarsi, a scendere anche a compromessi. E quando hai già lavorato su uno o due film con lo stesso regista, quel terreno comune diventa più solido, più naturale. Non vuol dire che diventi tutto più facile, né che non serva più mettersi alla prova. Ma c’è più fiducia. Fiducia in quello che riuscirai a creare. E questo è fondamentale: sentire che il regista e il produttore si fidano di te, che sono sereni rispetto a quello che stai per fare. È artisticamente meno stressante per loro – e lo è anche per me.
La tua musica sembra aderire perfettamente all’estetica e al ritmo narrativo di Wes Anderson. Da cosa nasce questa sintonia così profonda? Come si costruisce?
Credo che tutto nasca grazie alla fortissima sintonia che si viene a creare quando lavoriamo insieme, è come se fossimo due bambini che si divertono. Potremmo essere due membri della stessa band, oppure semplicemente due musicisti che suonano insieme e che si mettono a improvvisare. O magari potremmo giocare a pallone, o con i burattini, o con qualsiasi altra cosa che si fa da piccoli. C’è una dimensione infantile molto forte nel modo in cui affrontiamo il lavoro. Deve essere divertente, deve entusiasmarci, deve sorprenderci, altrimenti ci annoiamo. Ogni film, per questo, ha un suono diverso. E quel suono dev’essere legato in modo profondo al montaggio. Quello che faccio è scrivere delle suite, tante, molto lunghe. Poi, insieme, scegliamo le sezioni migliori e le adattiamo al film. A volte capita persino che cambino il montaggio seguendo la musica, così il risultato diventa davvero, come dicevi tu, completamente fuso con il film. Succede grazie a questo continuo scambio: dal mio studio alla sala di montaggio, e poi di nuovo indietro. Diventa tutto molto organico, profondamente integrato con il film. Ed è qualcosa di piuttosto raro.

Micheal Cera (Bjorn) e Mia Threapleton (Liesl). Foto: TPS Productions/Focus Features/Universal Pictures
Nella Trama fenicia esplori un registro sonoro diverso, che richiama le spy stories classiche. Com’è nata questa direzione musicale? Ci sono riferimenti o suggestioni che ti hanno ispirato?
Il seme da cui nasce la colonna sonora è un estratto da L’uccello di fuoco di Stravinskij. È una piccola melodia che manipolo, distorco, trasporto, cambio l’ordine delle note, ne modifico il ritmo: la tratto un po’ come un cubo di Rubik. Ne cambio costantemente i colori, e sopra ci aggiungo percussioni, strumenti diversi. Ma non poteva diventare una vera e propria colonna sonora da thriller: sarebbe stato troppo. Così ho inserito questo battito regolare di tamburi, piuttosto marcato, che ritorna di tanto in tanto. Ma tutto ruota attorno a quel motivo tratto dall’Uccello di fuoco.
Lo stesso film sembra avere dialoghi meno preponderanti rispetto ad altri film di Anderson. In questo caso come hai lavorato sul peso “narrativo” della musica? Alcune volte si ha la sensazione che tu lo abbia sonorizzato come un film muto.
Credo che il centro di tutto sia proprio Stravinskij, in questo film è davvero fondamentale.
All’inizio c’è una scena in cui vediamo il personaggio di Benicio del Toro [Zsa-zsa Korda] mentre ascolta proprio un vinile di Stravinskij. E da lì quell’elemento diventa il centro, l’asse attorno a cui ruota tutta la colonna sonora. Nel film ci sono anche composizioni di Bach e altri brani selezionati da Wes e Randall (Poster, il supervisore alle musiche, nda). Ma tutto parte da quel pezzo, da quell’asse centrale deriva il resto del lavoro. È una struttura che segue l’architettura del film stesso.
Con cambi di strumentazione, di tempo, di disposizione delle note.
Sai, Stravinskij ha scritto anche una versione alternativa di Happy Birthday, che ha intitolato Greeting Prelude. Fa tipo così (mima le note vocalmente), me lo ricordo bene.
In certi momenti sembra quasi che il brano stia giocando con quelle stesse note, che sembrano ovvie e poi vengono capovolte, portate in un’altra dimensione.
È come se fosse uno scherzo armonico?
Direi proprio di sì.
È proprio un gioco. Tornando a quanto dicevo prima, il nostro flusso di lavoro è proprio un parco giochi per due bambini che si divertono insieme con i propri giocattoli.
In questo film emerge anche l’impronta della grande orchestra hollywoodiana. Mi ha fatto venire in mente grandi ensemble come quelle di Henry Mancini o l’imponenza sonora di Citizen Kane di Bernard Herrmann. Cosa ti affascina di quel linguaggio sonoro e come lo hai reinterpretato nel contesto visivo di Anderson?
In realtà sono sempre stato un grande appassionato di colonne sonore.
È proprio questo che mi ha spinto a diventare un compositore per il cinema.
Quando ero ancora un flautista, collezionavo soundtrack degli anni d’oro della grande orchestrazione hollywoodiana, e naturalmente Bernard Herrmann è sempre stato uno dei giganti a cui volevo ispirarmi, perché ha inventato un modo completamente nuovo di scrivere musica per il cinema:
non si trattava più di fare “Mickey Mousing”,
cioè sottolineare con ogni singola nota un’azione sullo schermo,
ma di creare un ulteriore livello di tensione ed energia. Quindi, ogni volta che ho l’opportunità di mettere in pratica quello che ho imparato da Herrmann lo faccio,
che si tratti della scelta di dove far partire o finire la musica,
dell’orchestrazione o della spinta emotiva.
Nel caso di Zsa-zsa, l’occasione era perfetta, perché è un personaggio sempre soggetto a un pericolo imminente e costante, e credo che sia stato proprio questo aspetto a ispirare l’intera idea musicale del film.

Roman Coppola, Wes Anderson e Alexandre Desplat a Cannes 2025. Foto: Stephane Cardinale/Corbis via Getty Images
Nella tua carriera hai veramente spaziato tra tantissimi generi e registri molto diversi tra loro. Come vedi l’evoluzione del linguaggio della musica per immagini oggi? Stai notando nuove tendenze, approcci, contaminazioni?
Penso che ci siano sempre stati dei cambiamenti.
Quando ho iniziato, ad esempio, andavano di moda i sintetizzatori. Poi quella moda è passata.
E questo è il problema delle mode:
è bello quando arrivano, ma dopo un po’… spariscono. Oggi, per esempio, la tendenza è la musica elettronica. Benissimo, perché no?
Ma il punto non è cosa usi, è come lo usi. Forse perché ho lavorato molto in teatro, io mi sento molto legato ai personaggi. Quello che mi interessa è cercare di capire qual è l’anima di un personaggio e trovare un modo, con la musica, per espandere quella dimensione
e trasmetterla al pubblico che guarda il film. Se penso che la musica elettronica possa rafforzare questa connessione, la uso.
Ma altrimenti, preferisco strumenti reali.
Abbiamo alle spalle duemila anni di musica classica, da quando i Greci e i Romani suonavano arpe e flauti. A me piace sentire qualcuno che suona davvero uno strumento.
Mi piace ascoltarlo (prende un violino e lo suona). Realizzare una composizione di matrice elettronica va benissimo, ma non c’è bianco o nero: è sempre un mix di cose. Ci sono film in cui la musica elettronica proprio non ci sta.
Non funziona.
La musica dev’essere organica al film, come dicevo prima parlando del lavoro con Wes. E a volte non c’è alternativa: serve un pianoforte, un violino,
oppure un ritmo elettronico. È una questione di gusto e soprattutto di connessione con il film.
Oggi ho l’impressione che siano sempre più rari quei grandi sodalizi tra registi e compositori: penso alle coppie di cui parlavamo prima, che riuscivano a costruire un’identità sonora riconoscibile, capace non solo di definire un film ma anche di restare nell’immaginario collettivo. Secondo te, la fine di questa stagione di “grandi alleanze” è una perdita per la musica da film, oppure oggi si sta affermando un approccio diverso, magari più frammentato ma altrettanto creativo?
Ci sono ancora delle coppie fortemente affiatate, come Tim Burton e Danny Elfman, per esempio.
Loro continuano a lavorare insieme. Io stesso continuo a collaborare con Stephen Frears o Wes Anderson, così come con Polański o Jacques Audiard.
E ci sono molti altri registi con cui ho lavorato e con cui continuerò a lavorare.
Sto collaborando di nuovo con Guillermo del Toro in questo momento: è il terzo o quarto film insieme. Non credo che questo tipo di collaborazione scomparirà, finché il regista lo desidera.
È una sua scelta. È il regista il capo del team. Se non vuole più avere un rapporto con il compositore, capita.
A me è successo molte volte. L’ho imparato molto presto: fai un bel film con qualcuno e pensi “Wow, inizieremo una collaborazione”,
e poi, al film successivo, lui chiama qualcun altro. È così che funziona.
La prima volta fa male,
ma poi impari che può succedere,
e smetti di prenderla sul personale.