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Alessio Lapice: «Datemi 30 secondi con Matthew McConaughey»

Protagonista di ‘Io sto bene’, fuori concorso ad Alice nella città, dopo ‘Il primo re’ si riconferma uno dei volti del nostro cinema su cui puntare

Una sorpresa bella e delicata Io sto bene, anteprima mondiale fuori concorso che trova la sua naturale collocazione in Alice nella città alla Festa di Roma. Un titolo che è un omaggio alla canzone dei CCCP, che si ascolta in una scena (e di Zamboni c’è pure Colpo su colpo, in una bella colonna sonora che riesce a mettere insieme Celentano e Feliciano con Contessa e i Calibro 35). E un film che è una lezione di regia, nella sua sobria essenzialità, e di recitazione, con Renato Carpentieri e Alessio Lapice che con il flashback si palleggiano il ruolo (in)dolente di Antonio, emigrante spezzato da un errore di gioventù e dall’essere sempre fuori posto, geograficamente (in Lussemburgo, nel 1969) e umanamente, perso nel ricordo dell’amore per Mady (Marie Jung) – persino mentre lo vive, quasi a sentire di non meritarselo – e il riscatto che cerca disperatamente e discretamente con la giovane Leo decenni dopo, una Sara Serraiocco sempre più versatile e qui più solare del solito, pur in un personaggio con molti tratti di velata tristezza.

A dar vita ad Antonio però è soprattutto Alessio Lapice, uno di quegli interpreti che hanno la capacità di sfiorare con grazia e determinazione i propri ruoli, personaggi sempre fallibili e sbagliati, ma che provano la sfida della vita, spesso da perdenti, fino alle estreme conseguenze. Da Nato a Casal di Principe al Primo re – in cui tiene testa alla grande a un maestoso Alessandro Borghi – fino ad arrivare a Io sto bene di Donato Rotunno, al suo terzo film. «Fa un po’ tremare le gambe condividere il ruolo con un gigante come Renato Carpentieri, ti dà un senso di responsabilità enorme il voler essere all’altezza del suo talento, della sua esperienza, dei meravigliosi personaggi che ha indossato. Ma è anche una motivazione in più». Condividono, entrambi, la capacità di entrare nelle fragilità umane senza cadere nella retorica, nel patetismo, con un rigore raro e la capacità di andare oltre. «Mi ha sempre affascinato cercare di recuperare un personaggio che è caduto, provare a risalire con lui, a guadagnare qualche punto camminando insieme, perdendosi per poi ritrovarsi. O viceversa. Trovare una strada per e con lui».

Alessio Lapice in ‘Io sto bene’ di Donato Rotunno

Una cifra che hanno quasi tutti i ruoli che ha interpretato. «È vero, non avevo mai pensato a questo filo rosso che unisce molti dei miei ruoli, sono uomini che hanno sempre perso qualcosa, che spesso si impongono sfide troppo più grandi di loro, destinati a ritrovare la propria identità, a riscoprirsi durante, dentro la storia. Personaggi destrutturati che devono ridefinirsi. Un percorso che amo fare per primo come attore, non solo come Antonio o come Romolo o come gli altri. Sono io il primo a mettermi in gioco, in pericolo, e a cercare la mia identità e la loro. Non è in fondo l’essenza stessa del mio lavoro? Essere sempre sul filo del rasoio». Qui, però, Lapice vive un salto di qualità: Antonio è un uomo sconfitto, ma non domo. «Si sente sempre inadeguato, ha costantemente paura, pensa troppo e di conseguenza sbaglia ancora di più, ma non rinuncia a cercare se stesso. Come fa con il padre, con quelle lettere che non ricevono mai risposta, per la colpa atavica di uno sgarro a danni di amici, compaesani». Un uomo in esilio, fisico e morale, che si sente e si mette sempre sotto esame. «Lui, come altri miei personaggi, si specchia costantemente chiedendosi chi è e soprattutto chi può essere, fino alla fine vive in un conflitto continuo, soprattutto con se stesso. Per dirla in una frase: amo gli ultimi che dovevano essere primi».

Mentre corre su un set – una grande serie internazionale «di cui non posso dire nulla, altrimenti è un guaio, ma che bello in un momento così avere il privilegio di lavorare e farlo in un contesto d’eccellenza» – approfondisce il suo percorso artistico, volto alla ricerca di una costruzione graduale del suo talento, senza farsi sviare dalla fama. Dopo Il primo re poteva prendere decisioni più facili, sfruttare il successo e la visibilità. «Il successo è importante solo perché ti dà un più ampio ventaglio di scelte, ma non devi mai fartene dominare, devi proseguire per la strada che hai intrapreso. Mi interessa poco la fama – che se nasce da un film è merito di una squadra intera e non solo tuo –, molto di più invece continuare a sperimentarmi in qualcosa di diverso, che mi porti a conoscere nuovi mondi, nuove parti di me stesso. Ecco perché quando valuto un ruolo per me non è importante la produzione, ma la sceneggiatura».

Alessio Lapice con Alessandro Borghi nel ‘Primo re’ di Matteo Rovere. Foto: Fabio Lovino

Ha voglia però anche di altro, ora. «Di portare in scena un uomo più consapevole, meno vulnerabile, più solido e costruito, uno che controlla i suoi impulsi e che agisca meno di pancia. Uno più forte, ma che venga sempre colto in un momento di crisi. Un cattivo, magari, con queste caratteristiche, che ha un forte controllo ma che si perde, per valutare su me stesso come reagisce uno come lui in certi momenti». E se tra i registi sogna «Sorrentino e Garrone, ma la verità è che il nostro cinema ora vive, nonostante tutto, un momento straordinario e ci sono talenti eccelsi che spesso non vengono nominati, a partire da quelli con cui ho lavorato», vorrebbe anche affrontare una prova fisica, come quando «nel Primo re persi dieci chili, e quanto mi è servito per dare forza e profondità al mio Romolo. Per un attore è fondamentale agire sul proprio fisico come elemento della propria crescita professionale e come lavoro sul personaggio». Come ha fatto, per esempio, uno dei suoi attori dei sogni, in Dallas Buyers Club. Guarda caso, lì il protagonista ha perso chili, ha cambiato fisionomia e ha indossato i panni di un cattivo urticante che si perde e trova un altro se stesso. «Lo dico, datemi anche solo 30 secondi in una scena con Matthew McConaughey e sarei felice». Pure noi, a occhio e croce.

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