Un uomo, un attore, una moltitudine di universi che vivono dentro un corpo bruciante di vita, al cinema così come a teatro. Alessandro Haber continua a mostrare il suo enorme talento e a raccontarsi col cuore in mano in Volevo essere Marlon Brando, diretto da Giancarlo Nicoletti. Dopo il successo delle repliche romane sarà a Grado, poi Trieste, Verona, fino al gran finale di Ferrara. L’interprete, inarrestabile, commuove, diverte, e si prepara ad altre avventure: Le ultime lune di Furio Bordon e La coscienza di Zeno di Italo Svevo, entrambi per la regia di Paolo Valerio.
Signor Haber, lei voleva essere Marlon Brando.
Volevo essere Marlon Brando nasce da una voce che ti chiama a fare i conti con te stesso. Da ragazzino ho sempre pensato a Marlon Brando come l’attore dall’impatto con lo schermo più forte, a parte il talento. Però mi piaceva l’idea… non dico di somigliargli, mi sembrava di essere uno di quei miti che c’hai da piccolo, no?
Chiaro. Ma poi?
Poi, lentamente, ho capito che invece era molto meglio essere Alessandro.
Senta, nella sua biografia tira in ballo Gigi Baggini, il personaggio interpretato da Tognazzi in Io la conoscevo bene.
Gigi Baggini mi ha devastato, sconvolto, mi ha aiutato a crescere e anche a riscattarlo. Lo interpretava un grande Ugo Tognazzi.
Perché Baggini?
Lui è quello che viene messo in mezzo, un attore fallito. Lo prendono per il culo tutti, lo fanno ballare, fa un tip tap tragicomico e devastante, doloroso, sul tavolo di un ristorante. E lui lo fa pur di esibirsi, ma resterà un perdente.
Perché è così importante Baggini?
Mi ha proprio scosso, mi ha urlato dentro. Quando ho visto il film di Pietrangeli avevo 18 anni, e già volevo fare l’attore.
Cosa l’ha colpita?
Avevo paura di diventare come lui. Ma non riuscivo a capire se volevo salvare Tognazzi, se avevo un’ammirazione per l’attore immenso o per il personaggio. Avevo questa doppia sensazione, questa scossa strana.
Come ha trasformato questa sensazione?
Ho capito che sarei potuto diventare così. Soprattutto agli esordi ero ignaro, non sapevo cosa avrei affrontato nella vita. Allora ho cercato sempre di riscattarlo nel tempo, aiutando gli ultimi, quelli con un sogno nel cassetto. Dove vedevo il talento ho sempre cercato di dare una mano. Quando sono riuscito a ottenere dei risultati, ho compreso che stavo facendo la strada giusta e davo emozioni vere, a me stesso e al pubblico. A quel punto ho cercato sempre di riscattarlo.
Quel personaggio lo ha omaggiato anche in Simpatici e antipatici, il film di Christian De Sica.
Come no! L’ho sempre citato: anche in Parenti serpenti, il balletto che faccio diventa tragico. L’ho ripreso in Simpatici e antipatici, ma l’ho citato pure nella Vera vita di Antonio H. di Enzo Monteleone, una pellicola sulla mia vita dove nel finale faccio un tip tap su un palcoscenico vuoto. Lo spettatore pensa ci sia il pubblico, invece alla fine si scopre che non c’è nessuno. Per tre volte ho citato Gigi Baggini, per capire quanto mi è rimasto addosso.
Ama il suo mestiere. Quanto ha influito sulla sua vita questo amore?
Naturalmente la prerogativa è sempre stata il mio lavoro. Le donne si sono sempre sentite un po’ in seconda battuta: sapevano la mia totale adesione al mestiere. La malattia che ho. Questa dipendenza. Io sono in astinenza quando non lavoro.
Lei è uno che non ha accettato compromessi professionali, ma ce n’è qualcuno che forse, col senno di poi, si è pentito di non aver accettato?
Non saprei dirti. Io sono sempre stato molto diretto. Ho pagato di persona i miei sbagli, fatti o non fatti. Sono contrario alla perfezione, mi piacciono l’imperfezione e quelli che sbagliano e poi sanno chiedere scusa. A me è capitato. Ho chiesto scusa.
Quando?
Ogni tanto mi sono alterato, ma tutte le volte che l’ho fatto sul lavoro era per il rispetto totale verso la professione. Andavo via, ma tornavo subito. A me capita una crisi durante le prove. Mi piace ci sia quella crisi, perché quando non arriva comincio ad avere dei dubbi. Ma poi arriva sempre, la attraverso e scopro cose curiose, più interessanti.
Lei come tratta il suo lavoro?
Lo accarezzo. È una cosa di cui non posso fare a meno, come mangiare, come scopare. Non c’è niente che mi piaccia di più. Mi interessa comunicare, arricchirmi di un personaggio, scoprirlo, darlo in pasto e abbracciare il pubblico.
Come attore deve passare attraverso le sue esperienze di uomo. Qual è il dolore che l’ha fatta diventare la persona che è oggi?
Guarda, di dolori ne ho avuti, ormai ho una certa età. Quando se n’è andata Monica Scattini, la mia amica del cuore, o Tonino Zangardi, oppure Ennio Fantastichini. Ma ormai avevo consumato la vita.
Ma un dolore che l’ha segnata?
Quando sono morti mia madre e mio padre. Il dolore forse più forte l’ho avuto con mio padre. Non l’ho mai “mangiato” abbastanza, era una persona molto schiva. Un uomo che parlava cinque lingue, ebreo rumeno. Si è trasferito in Israele prima che nascesse lo Stato ebraico, prima del ’47. Aveva fatto l’avanzata anglo-americana… la storia la sai. Mio padre leggeva un libro al giorno. Lo racconto a teatro nella Coscienza di Zeno.
Vale a dire?
C’è un episodio che non c’entra niente con l’opera di Svevo, ma abbiamo inserito un incontro con lui a letto che leggeva. Mi avvicinai, ci guardammo senza dire niente. Mi misi vicino, guancia a guancia, come per abbracciarlo, e piansi. Era come se avessimo voluto recuperare il tempo. Mia madre era onnivora, molto aperta, molto gioviale, molto “contadina”, però aveva le redini in mano. Mio padre era un uomo di cultura, voleva fare il violinista, ma per la guerra non riuscì ad andare avanti con gli studi. L’ho vissuto meno. E quel giorno meno male che è successo, perché poi se n’è andato presto, a 70 anni. Mi ricordo anche il giorno in cui è morto.
Se la sente di raccontarmelo?
Era estate. Stavo girando Per amore, solo per amore. Lavoravamo di notte, in Tunisia. Quel giorno io e la mia compagna andammo a vedere una città: la convocazione era la sera. Rientriamo verso le due o le tre del pomeriggio. L’albergo aveva una hall enorme, sembrava un campo sportivo. Andiamo a prendere le chiavi e il concierge ci dice di chiamare urgentemente Roma: era successo qualcosa. Saliamo per andare in camera, ma a metà strada ci fermiamo.
Come mai?
Pensavamo fosse il padre della mia compagna di allora, Cristiana: stava male dopo un tumore. È stata una scena buffa: ci guardiamo e ci diciamo: «Tuo padre o mio padre?». Torniamo dal concierge e chiediamo: «Quale padre? Mio o suo?». E lui si rivolge a me. Saliamo in camera. Io non ce la faccio a prendere il telefono. Lo fa lei. Parla con mia madre. Mi guarda, fa un cenno con la testa come a dire «è successo». Ho capito che mio padre se n’era andato (la voce di Haber in questo momento è molto commossa, nda)
Posso immaginare il dolore.
Pensa che hanno spostato il funerale di un giorno, perché io dovevo finire il film. The show must go on.
Davvero?
Il giorno dopo finiva il film, un venerdì sera. Il sabato tutta la troupe sarebbe partita. Non potevo andarmene. Se fosse successo un mese prima, sarei partito, avrei partecipato al funerale e sarei ritornato. Lì era impossibile.
E quindi?
Arrivo sul set. Tutti sapevano. Giovanni Veronesi, mio amico del cuore, viene subito ad abbracciarmi. C’era un silenzio che si tagliava con l’accetta. Dovevo girare una scena: uscivo da una stradina in una gola tra le montagne, c’era questa specie di collinetta. Dovevo salire con l’asino, con Abatantuono, e dire ridendo: «Guarda che meraviglia il mondo! È uno dei posti più belli del mondo!». Io arrivo, salgo, apro la bocca e non riesco a dirla. Stoppano, e io la rifaccio con una vena di malinconia e di dolore. Un ricordo molto forte.
Senta, questo spettacolo, Volevo essere Marlon Brando, è un viaggio nella sua vita prima di un appuntamento inevitabile.
Nello spettacolo la voce di Dio mi dice che sono in lista d’attesa, pronto per andarmene, ma non sa come valutare la mia esistenza, se mandarmi in paradiso, all’inferno o in purgatorio. Mi chiede di riassumere la mia vita: in base a quello deciderà. Alla fine mi fanno reincarnare: continuerò a vivere attraverso gli altri. Per la passione che ho non vogliono mandarmi né di qua né di là.
Insomma, troviamo un Haber inedito.
Mi metto a nudo. Con ironia, divertimento, ma anche dolore. Racconto tanti episodi, tutto in maniera sincera, senza compiacimenti. È uno spettacolo in cui la gente si può riconoscere. Credo sia universale. È struggente, sincero. Non è una celebrazione. La gente esce commossa, con le lacrime agli occhi.

Alessandro Haber in scena in ‘Volevo essere Marlon Brando’. Foto: Tommaso Le Pera
Che tipo di attore pensa di essere?
Intimista. Mentre Gian Maria Volonté era un genio, un attore trasformista, come anche Fabrizio Bentivoglio ed Elio Germano. Io sì, posso trasformarmi, ma resto sempre me stesso, in qualche modo. Tiro fuori i colori giusti per un determinato personaggio. Cerco di dargli l’umanità e la verità, anche perché ho accumulato tanta roba nella mia vita: ogni volta magicamente accade qualcosa, un po’ come un bambino che nasce.
Cioè?
Un bambino nasce ma non vede, non cammina, poi comincia ad aprire gli occhietti, a mettere a fuoco, a catturare, si alza lentamente e inizia a camminare piano piano. È quello che di solito faccio io, inconsciamente, quando creo qualcosa.
Ha mai desiderato un’altra vita?
La verità è che attraverso la mia mi occupo di tante altre esistenze. Ho sempre dedicato più attenzione al mio essere artista, al mio essere attore, che alla mia vita come uomo, l’ho presa meno in considerazione.
E come la definirebbe, questa sua vita?
Una droga, una passione, a volte un’astinenza…
Immagino avrà avuto amori tormentati, amicizie molto forti, cadute, rinascite…
Ma meno male!
Ma c’è stato un legame che in qualche modo l’ha salvata nei momenti in cui si stava veramente per perdere?
Da qualche anno ho avuto episodi di depressione, sembra che la vita stia andando, si stia evolvendo… certe volte ho avuto storie d’amore finite, ne ho pagato le conseguenze. Qualche volta ti lasciano, qualche volta lasci tu… fa parte del gioco, ma mi sono sempre salvato – purtroppo sono monotono – attaccandomi al lavoro.
Questo mestiere davvero l’ha salvata e l’ha fatta diventare quello che è adesso.
Sì, sono anche strabordante, ma questo va bene. Quando ero ragazzo per lo spettacolo ho bloccato mari e monti. Facevo gli appostamenti, rincorrevo i registi, e dicevano: «Ah, c’è Haber! Scappiamo! Scappiamo!». Questo all’inizio. Poi lentamente hanno capito che c’era il talento. Qualcuno mi ha regalato il talento e ne ho fatto buon frutto, non l’ho tradito.
Un suo agente, leggevo, ha detto che lei avrebbe avuto molto di più se non fosse per il suo carattere un po’ assillante.
Ma io ho avuto tanto! Ho vinto un Donatello, cinque Nastri d’argento… Avrei dovuto vincerne almeno altri tre di David! La gente mi ferma, il complimento che mi fanno e mi dà più soddisfazione è «Signor Haber, grazie per le emozioni che ci ha regalato».
Be’, è una soddisfazione.
Ti racconto questa: lavorai con Jean-Louis Trintignant nel film Il conformista di Bernardo Bertolucci, avevo 25 anni. A Trintignant era morta la figlia, soffocata a dieci mesi nella culla. Stavamo girando a Roma, sospendono la lavorazione. Dopo due giorni torna, era seduto, nessuno ci aveva presentato. Faccio questa scena con lui: un ubriaco che racconta una barzelletta antifascista. Alla fine della scena scoppia un applauso, tutti a complimentarsi. Mi sento battere sulla spalla – te lo giuro su mia figlia Celeste – mi giro ed era Trintignant. Mi disse: «Écoute: merci beaucoup, tu est vraiment un grand acteur». Capisci?. Questo complimento me lo sono portato dietro.
Ci credo.
Non solo: dopo dieci giorni mi chiama l’assistente di Yves Allégret (regista e sceneggiatore francese, nda). Trintignant era in un albergo in Piazza di Spagna, Yves Allégret anche. Erano amici, e Allégret stava provinando attori italiani per L’invasione, un film che fece con Lisa Gastoni, Michel Piccoli ed Enzo Cerusico. Cercavano un interprete della mia età. Trintignant, a cena con Yves Allégret, gli aveva parlato di me. Quindi l’assistente di Allégret mi chiama per un incontro.
E…?
Non andavo bene: cercavano un tipo diverso, più piccolino. Hanno preso Enzo Cerusico. A parte questo, andai da Trintignant in albergo a ringraziarlo: per me era naturale farlo. Quella cosa mi ha insegnato a essere generoso con le persone di talento, con un sogno, ma che hanno difficoltà.

Alessandro Haber. Foto: Tommaso Le Pera
Allora mi dica chi ha aiutato tra gli attori diventati famosi?
Eh, parecchi… ma non voglio fare nomi perché sembra una cosa vanitosa.
Non si preoccupi, non è vanitosa. Mi dica pure.
A Ivano Marescotti, che non c’è più, poverino, ho trovato l’agente. Non ce l’aveva. Pure a Roberto Herlitzka. Facevo con lui il Faust di Christopher Marlowe. Al bar del teatro, a Torino, prendo un caffè, mi giro: era in fondo, un po’ in ombra. Lo guardo e penso: «Ma cazzo che faccia che c’ha questo!». Mi avvicino e chiedo: «Roberto, ma tu hai un agente? Hai mai fatto cinema?» E lui: «Ma no, quale cinema, chi mi prende…».
Cosa rispose a Herlitzka?
«Ma stai scherzando? Tu hai una faccia, hai una capacità… sei un attore fantastico! Aspetta un attimo». Vado alla cassa, chiedo cinque gettoni – c’erano i gettoni allora – li infilo nel telefono e chiamo il mio agente, Fausto Ferzetti: «Fausto, qui c’è Herlitzka. Ti interessa?». E lui: «Ma certo!». Li metto in contatto, si incontrano e dopo due mesi lavorava con Lina Wertmüller per Film d’amore e d’anarchia. Capito? Se non ci fossi stato io, magari sarebbe rimasto solo un attore di teatro. Tra l’altro non mi ha mai ringraziato, ma chi se ne frega. Quando vedo talento, se qualcuno mi emoziona, sono il primo a tendere una mano.
Passiamo ai registi che, invece, il suo talento lo hanno valorizzato. Partiamo da Mario Monicelli.
Mario era diretto, schietto, non aveva peli sulla lingua. Sceglieva attori che sapevano cosa potevano dargli. Mi è capitato di vederlo sbagliare una volta con un collega non giusto: non ha avuto problemi a mandarlo via. Era molto sfrontato e autonomo. Quando aveva una certa età e tentavo di aiutarlo a salire le scale mi ammoniva: «Non mi dare la mano, per carità! Rischio da solo». Poi ha deciso di andarsene gettandosi dalla finestra dell’ospedale San Giovanni.
Tema più che mai attuale, considerata la scelta delle gemelle Kessler.
Mario era un onnivoro della vita. Ogni giorno che si svegliava la mattina, era come crescere. Era pronto a sentire la musica, leggere un libro. Quando ha capito che non vedeva più, che non sentiva più, che era una larva, avrà pensato: «Sai che c’è? Io la vita la saluto». Ha avuto un coraggio raro. Io non ce l’avrei, ma capisco chi ragiona così.
Davvero?
Ora ho una stampella. Sono riuscito a evitare la carrozzina allenandomi come un pazzo, mi sono fatto un culo così. I fisioterapisti non pensavano ce l’avrei fatta. Invece, cazzo, in maniera stoica ci sono riuscito. Però certe volte, quando sono a casa e vedo la finestra aperta… ci penso. Ma non credo che lo farei. Dovrei trovare una situazione disarmante come quella di Monicelli, ma penso che la vita vada raccolta e apprezzata ogni istante. Il mistero della vita è vero perché è un mistero. Non abbiamo certezze, non c’è uno scienziato o un filosofo che ne abbia catturato il senso. Da dove arriviamo? Chi siamo? Perché? Ma è bello non avere certezze. Non sarebbe vita. Invece questa impalpabilità, questa incertezza ti dà modo di cercarla, di comprenderla.
Restiamo su Monicelli. Possiede un ricordo legato a lui?
Sono stato l’unico che l’ha portato su un motorino. Eravamo a casa mia, a Piazza Trilussa, c’era anche Mario. A mezzanotte tornava sempre a casa. Non si trovavano taxi, lo volevo accompagnare io, ma la mia macchina era bloccata da un’altra. Allora ho preso il motorino: lui era dietro, con la manina sulla mia spalla e l’altra a tenere il casco. Arriviamo all’angolo di via Cavour, a Roma. Mi accosto, lui scende, ma invece di procedere verso casa se ne va in direzione Colosseo, camminando in mezzo alla strada. Era un po’ stordito dal motorino, dalle curve. Gli faccio: «Mario, dove stai andando?». E lui: «Ah sì, hai ragione». Ha preso una traversa laterale e se n’è andato. Avrei voluto una foto con lui sul motorino, ma se gliel’avessi chiesta avrebbe rifiutato. Un conto è rubarla, un conto è farla finta.
È il momento di Pupi Avati.
Un’altra persona che adoro. Con lui ho fatto uno dei primi film da co-protagonista, Regalo di Natale. E anche lì è stato un colpo di culo. Perché nella vita ci vuole talento, ma ci vuole anche culo.
Mi spieghi meglio.
Io camminavo, non lavoravo da un po’, ero a via Cola di Rienzo. Il colpo di culo è che una macchina si è spostata dal posteggio davanti allo studio di Pupi: io mi sono infilato. Se non ci fosse stata quella macchina, forse non avrei mai fatto Regalo di Natale. Il destino ha voluto che salissi su e gli dicessi: «Dici sempre che sono bravo, ma quando mi fai lavorare?». Mi ha guardato e, dopo una pausa, mi ha detto: «Sei nel mio prossimo film». Poi sono arrivati altri lavori con Pupi e ora dovrei fare un’altra cosa con lui, una serie lunga, a fine febbraio.
Leonardo Pieraccioni la cita spesso come un attore gigantesco.
Ho fatto forse il suo film più bello, più riuscito, che è piaciuto a sinistra e a destra, agli intellettuali e al popolo: Il ciclone, una pellicola perfetta. A me però personalmente piaceva di più I laureati. Leonardo è uno che fa sempre un po’ sé stesso. È rimasto quel ragazzo lì, è la sua prerogativa. Ha avuto molta fortuna per bravura e perché aveva accanto Giovanni Veronesi, che è uno sceneggiatore capace.
Un regista con cui vorrebbe un chiarimento o con il quale non ha mai lavorato?
Mi piacerebbe lavorare di nuovo con una persona che amo profondamente: Nanni Moretti, perché mi ha usato una volta sola in Sogni d’oro. Invece ha collaborato spesso con un altro grande attore che è Silvio Orlando.
Un regista con cui non ha mai lavorato?
Mi sarebbe piaciuto fare qualcosa con Scola. Anche Paolo Genovese mi piace. E amo lavorare con i giovani registi, per le opere prime.
Chi la convince tra le nuove leve?
Ho fatto due film da poco: uno con Christian Marazziti dove ci sono Marco Giallini, Fabio Volo e Claudia Gerini, e un altro con Leopoldo Pescatore dal titolo Cercatori d’angeli.
Prima ha dichiarato che avrebbe dovuto vincere altri tre David di Donatello. Per quali film?
In realtà sono stato candidato due o tre volte. Però per Regalo di Natale, ad esempio, avremmo dovuto vincere tutti e cinque la Coppa Volpi a Venezia, non solo Carlo Delle Piane. Qualche mese prima a Cannes avevano dato il Prix d’interprétation féminine ex aequo a Fernanda Torres per Eu sei que vou te amar e a Barbara Sukowa per Rosa L., mentre il Prix d’interprétation masculine ex aequo a Bob Hoskins per Mona Lisa e a Michel Blanc per Lui portava i tacchi a spillo. Invece per Regalo di Natale… ma non scherziamo. Questa gioia ce la meritiamo. Fa parte di questo gioco, di questo mondo.
Le faccio una domanda, ma può non rispondermi. Riguardo a quello che è successo a Bologna con Lucia Lavia, la figlia di Gabriele Lavia e Monica Guerritore, sulle accuse che le hanno fatto…
Non voglio parlarne, guarda, perché è una stronzata, una cosa vergognosa. Vergognosa.
Non ha avuto ripercussioni sul suo lavoro, mi sembra.
Ma no, hanno capito tutti quanti che avevo ragione io, ma stiamo scherzando? Non voglio neanche parlarne, mi disgusta questa cosa.
Cambiamo discorso. Lei hai fatto anche cose molto pop come la fiction Chiara e gli altri…
Era fatta molto bene. Era una serie curiosa, piacevole, con Ottavia Piccolo. L’ho fatta volentieri.
Negli anni ’80 la ricordiamo anche per Da grande con Renato Pozzetto.
Come no. Con Franco Amurri avevamo per le mani un’altra sceneggiatura sulla storia di due omosessuali di una bellezza, di una forza. Allora era anticipatrice.
E invece?
È andato in America (ha girato a Hollywood Flashback e Il mio amico Zampalesta, nda). Dopo tanti anni l’ho incontrato e gli ho chiesto perché era andato via e non avesse girato quel film. Lui ha sbagliato, l’ha ammesso.
Ultima domanda: chi è oggi Alessandro Haber?
Un uomo che ha giocato sempre in maniera corretta con sé stesso e gli altri, che si è dato in maniera incondizionata, cercando di regalare agli altri delle emozioni.








