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Alejandro G. Iñárritu, il re del dolore di Hollywood

Una lunga intervista esclusiva con il regista messicano che ha conquistato gli USA e che per due anni di fila ha vinto l'Oscar alla miglior regia
Alejandro Gonzalez Inarritu, foto di Mike Windle/Getty Images for LACMA

Alejandro Gonzalez Inarritu, foto di Mike Windle/Getty Images for LACMA

È un pomeriggio di novembre, due giorni dopo gli ultimi ritocchi di postproduzione al suo ultimo film, The Revenant, e Alejandro González Iñárritu sta entrando in una saletta di proiezione all’angolo di Alfred Hitchcock Drive, negli Universal Studios, in California.
Il regista è vestito di nero – il suo marchio di fabbrica (oggi, ha indosso jeans neri e una felpa di alta sartoria su cui spiccano soltanto le zip color argento). Saluta battendo il pugno con i suoi tecnici del suono e scusandosi per il ritardo.
Di solito, evita il traffico girando per la città con la sua Vespa. Oggi, purtroppo, ha guidato dal suo ufficio di produzione a Santa Monica, dove vive, ed è rimasto bloccato in un ingorgo. Qualcuno gli offre una Coca e iniziamo.
Iñárritu, che oggi ha 52 anni, si è trasferito a Los Angeles dalla nativa Città del Messico dopo il successo internazionale, assolutamente inaspettato, del suo lungometraggio d’esordio, Amores Perros (2000), un titolo che si può tradurre più o meno come «l’amore è una puttana» (i distributori statunitensi hanno deciso di lasciare il titolo spagnolo).
È stato questo film a convincerlo ad abbandonare la sicurezza della comunità cinematografica messicana, dove aveva passato anni di successo come regista pubblicitario, dando vita a una casa di produzione con più di cento dipendenti – a fare il salto verso Hollywood. E con che tempismo l’aveva fatto.
Il regista è atterrato a Los Angeles con la moglie e i due figli quattro giorni prima dell’11 settembre del 2001. «In tutti i quartieri sono subito cominciate a spuntare centinaia di bandiere,» dice Iñárritu in inglese, con una forte inflessione ispanica. In due occasioni, mentre portava il cane a spasso, è stato fermato da pattuglie di polizia. Tutte le volte, gli agenti dicevano a Iñárritu (la cui carnagione scura, in Messico, gli ha fatto guadagnare il nomignolo “El Negro”) di aver ricevuto chiamate su un sospetto in zona. Gli chiedevano, quindi, di mostrar loro la sua abitazione.

Oggi, Iñárritu è qui ad ascoltare un missaggio sonoro di The Revenant specificamente realizzato per cinema dotati di sistema Dolby Atmos. «Ogni volta si inventano un nuovo cazzo di sistema, e ogni volta dobbiamo testarlo», sospira il regista. «Tra un po’ ci installeranno un sistema nel culo che fa uscire il suono direttamente da lì.» Ieri, ha fatto un test simile per gli schermi IMAX. «Se ti siedi troppo vicino allo schermo, è da shock. Prima del film dovranno dare agli spettatori i sacchetti per il vomito.»
È bene sottolineare che Iñárritu espone queste osservazioni con gran brio. Dice parolacce in inglese con il piglio di uno che sperimenta una lingua poco familiare; tutti i suoi “fuck” li pronuncia con maggiore attenzione di altre parole, con un plateale compiacimento.
Quando sorride – probabilmente perché nel suo sorriso pare sempre di leggere una sottile vena ironica – il suo volto (magro, zigomi pronunciati, baffi, pizzetto spettinato) assume un aspetto malizioso, mefistofelico. Con un filo di trucco e poche aggiunte all’abbigliamento, potrebbe essere il protagonista di un programma per bambini sui pericoli del satanismo.

Siamo in un cinema di media grandezza: due tecnici del suono sono seduti di fronte a un mixer lungo quanto lo schermo. Martín Hernández, uno degli amici e collaboratori di vecchia data di Iñárritu, lavora su un computer portatile. Stiamo per guardare il quarto rullo di The Revenant.
Parzialmente ispirato alla vera avventura di Hugh Glass, un cacciatore di pelli americano del XIX Secolo, il film vede Leonardo DiCaprio e la sua barba prodigiosa diventare vittime del violento attacco di un’orso, venire traditi, per poi essere abbandonati in fin di vita dagli altri cacciatori.
Il resto del film, da una parte, è un esercizio di genere pienamente appagante: una fantasia di vendetta da inscriversi direttamente nella tradizione de Il giustiziere della notte o Kill Bill, in cui il pubblico vive le sofferenze del protagonista come preludio a una godibile serie di imprese impossibili che dimostrano la sua resistenza, la sua sopravvivenza e, infine, la sua vendetta violenta.
A livello visivo, il film è uno splendido ritorno al passato, una di quelle epopee che si vedono sempre meno, dai tempi di Lawrence d’Arabia. Non solo: è anche una meditazione spirituale, nonché un’implicita critica al capitalismo statunitense, raccontata tramite le prime incursioni nelle terre selvagge del Nuovo Mondo.

Questo film si aggira dalle parti dei dipinti, dei sogni, dove non sei tenuto a pensare o a parlare, ma soltanto a provare emozioni

Se Iñárritu vincerà agli Oscar come Miglior Regista – un fatto plausibile, almeno stando alle previsioni – sarà la sua seconda vittoria consecutiva dopo Birdman. Il che lo renderebbe uno degli unici tre casi, nella storia dell’Academy, di registi che abbiano ottenuto due Oscar di seguito.
È buffo, però, pensare che – nonostante tutti i riconoscimenti di Hollywood, a Iñárritu piaccia descriversi come un musicista fallito. Iñárritu e Hernández hanno cominciato a lavorare insieme al college, facendo i dj in una stazione radio di avanguardia a Città del Messico. Iñárritu suonava in un gruppo e faceva il promoter di concerti. Tutt’oggi, presta un’attenzione particolare – ossessiva, verrebbe da dire – al sonoro nei suoi film.
«Per Alejandro, il sonoro è spesso più importante dell’immagine» dice Hernández. «Ha un’incredibile memoria sonora. Se faccio cambiamenti, li sente subito.» Iñárritu aveva immaginato Birdman – girato come un unico, frenetico pianosequenza – come un brano jazz: si era infilato in uno studio di registrazione con Antonio Sánchez, percussionista jazz e, ancora prima che una singola inquadratura del film venisse girata, i due avevano registrato la colonna sonora (quasi interamente composta di percussioni), così che potesse abbinare il ritmo a specifiche battute della sceneggiatura, in modo da scandire, a detta di Iñárritu, «la cadenza del film».

Per The Revenant, il regista ha commissionato a Ryuichi Sakamoto e Alva Noto (compositori d’avanguardia che hanno collaborato con Carsten Nicolai a una serie di stupendi album di pianoforte minimalista), oltre che a Bryce Dessner dei The National, una colonna sonora elettronica molto rarefatta.
«Dove Birdman aveva più a che fare con il jazz e col teatro,» mi spiega Iñárritu, «questo film si aggira più dalle parti dei dipinti, dei sogni, dove non sei tenuto a pensare o a parlare, ma soltanto a provare emozioni. I silenzi e il suono della natura sono molto importanti per la storia.»
Il quarto rullo si apre con Hugh Glass, il personaggio interpretato da DiCaprio, sdraiato al suolo in una foresta nel ghiaccio invernale. Glass guarda le cime degli alberi che svettano intorno a lui come guardasse i soffitti di una cattedrale. Il rullo si conclude con un inseguimento alla fine del quale Glass si tuffa in un fiume per sfuggire a un gruppo di indiani Arikara. Di fronte ai nostri occhi scorrono le immagini di DiCaprio che grugnisce, sussulta, annaspa nella neve, succhia il midollo dall’osso di un bufalo morto.

Iñárritu se ne sta seduto a braccia incrociate. Ha l’aria seria. Quando le luci si riaccendono, gli sguardi di tutti, nella stanza, sono puntati su di lui, ansiosi. Dopo qualche momento di silenzio, proferisce un lunghissimo «Ummmm…» Poi, dice di non sentire rumore d’ambiente dagli altoparlanti sul soffitto. Non se ne sente abbastanza. «È come avere un cojone. Abbiamo bisogno di due cojones!» lamenta, in maniera finto-drammatica. «Voglio più crepitio di alberi. Gli uccelli si devono sentire di più! Se adesso sono al 30 percento, metteteli al 60! Poi magari dirò ‘Cazzo, troppo alto’ – a quel punto abbassiamo. Ma fatemi vedere i soldi, direbbe un produttore.»

Leonardo DiCaprio e Alejandro G. Inarritu ai BAFTA, foto di Niklas Halle N/AFP/Getty Images

Mentre i tecnici lavorano sui cambiamenti, Iñárritu si fa portare un’altra Coca e prende in mano una confezione di noccioline, piluccandone, metodicamente, una dopo l’altra, tenendole tra pollice e indice. Tra poco deve andare. Domani, prenderà un volo per andare a Austin con suo figlio, Eliseo, per fare un giro delle università organizzato da Richard Linklater, il regista di Boyhood, nativo di Austin, nonché rivale di Iñárritu agli Oscar del 2015. (Birdman ha battuto Boyhood sia nella categoria Miglior Regista sia come Miglior Film). Domando a Iñárritu se un tale coinvolgimento per il missaggio sonoro di un formato di distribuzione poco comune sia tipico, per un regista. Aggrotta la fronte e fa spallucce: «Chiedi a loro,» dice indicando i tecnici del suono. «Non credo. Sono io a essere un po’ folle. Nevrotico.» Pronuncia quest’ultima parola con un certo compiacimento, come fa quando impreca.

Una settimana dopo i test audio alla Universal, Iñárritu prendeva un aereo per New York e andava a una proiezione privata di The Revenant vicino al Lincoln Center. Alla fine del film, Martin Scorsese – moderatore del dibattito – definiva il film un capolavoro. Scorsese ha appena finito di girare la sua, di epopea storica, chiamata Silence, girata nella campagna di Taiwan. Più tardi, si lamentava con Iñárritu: «Sono un newyorkese, ho un’avversione per gli alberi. Non vado in campeggio, non mi piacciono i cavalli.» Iñárritu poteva capirlo benissimo. «Io sono uguale,» mi dice il giorno dopo. «Non siamo gente dei boschi.»
Siamo in un hotel vicino a Central Park, Iñárritu beve caffè ed è ancora vestito di nero. Suo figlio è nella stanza in fondo al corridoio. Una sovrapposizione nel calendario ha obbligato a posporre la visita ad Austin, ma i due andranno comunque a fare un giro alla New York University.
Da quando Parigi è stata colpita dagli attentati, il regista si tiene in costante contatto con sua figlia María, che va a scuola lì. «Sono preoccupato,» dice. «Ce ne siamo andati dal Messico per via della violenza. E adesso ho più paura a Parigi che in Messico. E dico, cazzo, il mondo sta diventando davvero spaventoso per i giovani. Dappertutto, ora, ci si sente come ci sentivamo noi in Messico.»

Ai tempi di Amores Perros, un gruppo di rapinatori aveva spaccato la mascella alla madre di Iñárritu. In un’altra occasione, suo padre era stato infilato nel bagagliaio di un auto e tenuto in ostaggio per dodici ore: i rapitori volevano un riscatto di cinquecento dollari. Allo stesso Iñárritu qualcuno aveva cercato di rubare l’auto; un’altra volta, i bagagli della sua famiglia erano stati rubati mentre erano in vacanza a San Miguel de Allende; pochi giorni più tardi, aveva dovuto andare a New York per ritirare un premio, e aveva preso in prestito “il vecchio gessato” di un amico. “Il completo più brutto che si possa immaginare – del 1948. Ero il regista peggio vestito nella storia dei fighetti di New York.” Quella è stata la prima volta che Iñárritu e Scorsese si sono incontrati: a Scorsese Amores Perros era piaciuto, e aveva chiesto a Iñárritu di andare a trovarlo nel suo ufficio. Iñárritu gli si era presentato in quel completo, sentendosi «come un cazzo di mafioso in un film di Scorsese».
La violenza dilagante nel suo Paese, in un momento in cui Iñárritu stava diventando sempre più famoso, ha giocato una carta importante nella decisione di trasferirsi a Los Angeles. Non solo, ha anche influenzato il suo modo di fare film. «La violenza era diventata una realtà sociale dolorosa, nel mio paese. Circondato da tutta quella sofferenza, ho iniziato a non trovarla divertente, nei film.»

Ce ne siamo andati dal Messico per via della violenza. E adesso ho più paura a Parigi che in Messico

Iñárritu è cresciuto a Narvarte, il quartiere borghese di Città del Messico in cui Che Guevara viveva negli anni Cinquanta mentre pianificava la Rivoluzione Cubana. Iñárritu descrive la sua come un’infanzia felice, attraversata da una fase da skateboarder e dall’amore per il prog-rock di band come Genesis e King Crimson. A diciassette anni, e poi, ancora, a diciannove, era saltato sui cargo ancorati a Vera Cruz e a Coatzacoalcos, facendo lavori umili per guadagnarsi da vivere a bordo. Poi, aveva trascorso un anno in Spagna a raccogliere uva e a fare lavori sporadici – anche in discoteca, come ballerino in costume da bagno. (quando gli chiedo se fosse come Magic Mike, mi risponde «Santo cielo, no! Non avevo certe qualità.»)
Tornato a Città del Messico, aveva cominciato a suonare la chitarra nella band synth-rock Noviembre Uno (quando gli chiedo se fosse la data di una rivoluzione, mi risponde «È la data in cui ho incontrato una ragazza. Cercavamo di riprodurre il sound di un certo periodo… Gli anni ’80 sono stati una tragedia musicale»). Poi, aveva lasciato il college senza completarlo, era diventato una celebrità radiofonica, e aveva cominciato a dirigere pubblicità.
«Ancora oggi, se parli con gente della mia età, si ricorderanno di noi per via della radio» mi racconta Hernández. «Io facevo la mattina, lui il pomeriggio. Lui era quello pigro.» Nel 1989, Iñárritu portava Rod Stewart a Querétaro per il primo concerto rock in Messico da anni. Con il numero di biglietti falsi che giravano, lo stadio sarebbe stato così pericolosamente pieno che un amico di Iñárritu gli aveva consigliato di prendere il primo volo per Miami. «Alejandro,» gli aveva detto «è una cosa seria! Qui ci scappa il morto.»
«C’è stato un momento in cui ho pensato che sarei finito in galera,» dice Iñárritu. «Solo una persona è morta.»

Amores Perros ha un grosso debito nei confronti di Quentin Tarantino: tre storie che si intrecciano, salti temporali, spaccati sugli ambienti della malavita. Ma, discostandosi dalla visceralità piacevole del film d’esordio, i suoi successori, pieni di morte e cupissimi, al confronto erano pesanti, inducendoci, in un certo senso, a sentire la mancanza dell’ironia e del senso dell’umorismo di Tarantino. 21 Grammi (2003) ha dalla sua le performance viscerali e indelebili di Sean Penn e Naomi Watts, oltre a un approccio alla linearità e alla narrativa ancora più discontinuo di quello di Amores Perros. Ma la sua sceneggiatura si basa un po’ troppo su coincidenze shakespeareane poco credibili. (Naomi Watts, vedova, si innamora di Sean Penn, un uomo a cui è stato trapiantato il cuore del marito morto – una premessa che non sarebbe ritenuta accettabile nemmeno in una rom-com anni Novanta con Drew Barrymore e Matthew McConaughey.)
Babel, del 2006, riceveva lodi in tutto il mondo proprio nello stesso momento in cui Guillermo del Toro e Alfonso Cuarón, vecchi amici di Iñárritu, se ne uscivano con i loro lavori più acclamati: Il labirinto di Pan e I figli degli uomini. I critici gridavano alla rinascita del cinema messicano, ma le sofferenze che Iñárritu infliggeva ai suoi personaggi iniziavano a sembrare non soltanto sadiche, ma false. Con tutto quello che vediamo succedere in Babel, una delle sue sottotrame, con la cameriera messicana (Adriana Barraza) che si trascina nel deserto con i tacchi alti e un abito da cocktail, è talmente esagerata da sembrare quasi camp.

Il film che seguì, Biutiful, non era certo meno tetro (il protagonista, interpretato da Javier Bardem, procura lavoro a immigrati clandestini, è sposato a un’alcolizzata e sta per morire di cancro). Sia a livello critico sia a livello commerciale, Biutiful è il film di Iñárritu peggio ricevuto.
Depresso, quasi cinquantenne, Iñárritu si trova in uno stato mentale «davvero difficile». Per uscirne, va per ventun giorni in un ritiro di meditazione nel sud della Francia. Ogni mattina, si mette a osservare le nuvole che cambiano forma e colore, e sente di non aver mai visto qualcosa di più spettacolare.
È a quel punto che arriva Birdman, con il suo radicale cambio di tono. Come in tutti i film di Iñárritu, il suo protagonista (l’attore Riggan Thompson, interpretato da Michael Keaton) subisce un colpo dietro l’altro – più o meno tutto quello che potrebbe andargli male, in due ore di film, gli va male. La differenza sta nel fatto che Iñárritu, ora, sembra aver capito che, quando nel tuo film non fai altro che punire il tuo personaggio, da una parte, con una certa recitazione, puoi uscirti Re Lear – dall’altra, Charlie Chaplin. Birdman fa davvero ridere – a tratti presenta addirittura venature di slapstick. È un film sostanzialmente radicale, se confrontato con ciò cui Iñárritu ci aveva abituati.
E lui lo ammette. Il suo amore per i film e i libri tristi gli è stato dato in eredità dalla madre. «Ho sempre pensato che la musica triste fosse molto meglio di tutto il resto,» dice. «Ma, allo stesso tempo, nella vita, sono un tipo felice. Ho senso dell’umorismo. Non sono il depresso che passa il tempo a rimuginare. No. Sono un entusiasta. Ed è per questo che Birdman, per me, è stata una liberazione – è l’atto di ridere della tragedia.» Sorride: «Perché riderne può essere ancora più triste, ma in senso positivo.»

Nell’ufficio di Santa Monica di Iñárritu c’è una fotografia incorniciata: ritrae un uomo che ci volge le spalle, seduto nel mezzo di un incredibile paesaggio invernale. Circondato dalle montagne, lontano da ogni traccia di civiltà. La sua solitudine è una provocazione epica, esistenziale. Ma c’è qualcosa di intrinsecamente comico nell’isolamento dell’uomo: sembra minuscolo – con quel giaccone imbottito, la sua presenza è assolutamente incongrua all’immensità della natura che lo circonda. È, in questo senso, a un passo da un fumetto del New Yorker.
La foto, scattata col cellulare, è stata regalata a Iñárritu dalla sua assistente al termine delle riprese di The Revenant. «Sono io?» le aveva chiesto il regista. Ed era lui! Durante una pausa pranzo. «È una bella foto,» dice ridendo. «Rappresenta come mi sentivo a dirigere il film.»
Girare nelle lande più remote del Canada, a temperature sotto lo zero, è già un’impresa difficile. Ma Iñárritu e il suo direttore della fotografia, il brillante Emmanuel Lubezki, avevano anche deciso di girare soltanto con luce naturale, il che significava che avrebbero avuto soltanto 90 minuti al giorno per riprendere la luce che cercavano.

»È stato pazzesco,» dice Iñárritu. Nella sua voce si percepisce un filo di orgoglio per essere sopravvissuto a un’impresa tanto incosciente. Parla nello stesso modo in cui un ex-alcolista sembra vantarsi delle sue vecchie storie di autolesionismo. «The Revenant è un incidente felice nato da una pessima decisione,» continua. «È il risultato di una mia decisione irresponsabile. Ma qualche volta ce n’è bisogno – c’è bisogno di essere naïf, di ignorare la realtà delle cose. Altrimenti non faremmo mai niente. E allora, va be’, vado a lavorare in ufficio, o che ne so. Non sono un idiota: sapevo quanto sarebbe stato difficile. Ma solo ora mi rendo conto di quanto fossi distaccato dalla realtà mentre decidevo come fare il film. Sono contento di aver preso quella decisione irresponsabile, ma so che avrebbe potuto andare davvero male. Capisci? Come quando scali l’Everest, e nessuno della tua compagnia muore. Ma c’eravamo vicini! È la stessa sensazione di sollievo.»

«Ho preso parte a molti progetti ambiziosi – e Titanic senz’altro ne fa parte – ma The Revenant era quasi assurdo, era un’avventura folle,» dice DiCaprio, ridendo «Credo che, sotto molti aspetti, Alejandro stesse cercando la sua esperienza à la Fitzcarraldo.» Sta parlando del film di Werner Herzog del 1982, famigerato per la sua realizzazione, girato in Amazzonia. Un film talmente folle che diventò il soggetto di un documentario. «Voleva trovare il cuore di tenebra,» dice DiCaprio, «non voleva filmare la natura e basta. Voleva immergersi in un’esperienza trasformativa.»
Le riprese di The Revenant sono cominciate a ottobre 2014 nell’Alberta, in un’area così isolata che, per raggiungerla, occorrevano due ore di viaggio sola andata da Calgary. Come è immaginabile, i costi sono andati presto alle stelle. La neve si scioglieva, o non cadeva abbastanza in fretta da accumularsi, e le riprese si dovevano interrompere. Ci volevano i camion che trasportassero altra neve. Poi arrivavano le inondazioni. Per una scena specifica, Iñárritu ha chiesto che venisse scatenata una valanga. Le riprese avrebbero dovuto concludersi nella primavera del 2015, ma sono andate avanti fino all’estate. Agli Oscar del 2015, Iñárritu celebrava il suo Birdman. «Ma durante la cerimonia continuavo a ricevere sms che mi dicevano che il nostro set si era allagato. Ero lì a farmi fare le foto con l’Oscar in mano e nel frattempo pensavo, cazzo, tra 36 ore devo girare.»

Il gossip di questi malumori era diventato così palpabile a Hollywood che i produttori di The Revenant, per attutire i danni, avevano fatto la mossa – anomala – di rendere Iñárritu disponibile per un’intervista con l’Hollywood Reporter ancora prima che le riprese fossero terminate. Eppure, il titolo dell’articolo è «Come l’ultimo film di DiCaprio è diventato ‘un inferno in terra’». L’articolo è pieno di racconti su dipendenti che si dimettono o vengono licenziati, su Iñárritu che avrebbe proibito l’accesso al set a uno dei produttori. Su «membri esperti della troupe» che sostenevano che «fare questo film è stata di gran lunga la peggiore esperienza della loro carriera.»

Trump non lo sa ancora, ma presto diventerà una delle persone che dice di odiare. Presto sarà un perdente

Anche se il successo del film lo fa sentire meglio, Iñárritu si infuria ancora quando sente i paragoni tra le riprese del suo film e Apocalypse Now. «Tutte le persone che hanno deciso di fare il film erano a conoscenza delle condizioni in cui avremmo girato. Non abbiamo mentito a nessuno. C’è chi si è lamentato, e lo capisco. È stata dura per tutti. Ma sai che c’è? Il 99,9% dei coinvolti ha deciso di rimanere e di fare il film, e ne siamo tutti orgogliosi. Questa notizia è gossip, come dire, ‘Oh, c’è qualcuno che è stato licenziato.’ Beh, a lavorare nella compagnia ci sono trecento persone! È ovvio che qualcuno verrà licenziato. Ma c’è chi rimane, e lo fa con passione. È davvero un aspetto su cui dobbiamo perdere tempo? Secondo me, no. Comunque, adesso abbiamo un film, e adesso tutti capiscono che ogni centesimo speso, ogni decisione presa, valeva la pena».

«La natura umana entra in gioco anche quando si fanno film,» dice Sean Penn. «C’è chi si stanca, si impigrisce, e comincia ad accettare cose che non accetterebbe. Alejandro non lo fa mai. Ha uno spirito guerriero ancora più vivo del mio. A troppi dei miei colleghi – attori e registi – piace di più il momento in cui si mettono il bel vestito e vanno a presentare il film, piuttosto che il momento in cui lo fanno.»

Di recente, Iñárritu ha preso parte a un dibattito insieme a Ridley Scott, che ha parlato di come abbia girato Il gladiatore a Londra, a due passi dall’aeroporto. «E mi ha guardato,» dice Iñárritu, «e con sguardo ironico mi ha detto, ‘Non è che devi sempre andare in un posto per far vedere che il film è ambientato lì.’ E non potrei essere meno d’accordo. Perché si nota. Gli spettatori sono sorpresi, quando guardano The Revenant. Mi dicono Santo cielo! Quel paesaggio! Quella luce!, e io rispondo che è luce naturale, non l’ho creata io! L’ho solo ripresa. E come avrei potuto farlo altrimenti? Ho piantato una camera lì, e ho passato undici mesi a gelarmi il culo per riprenderla, quella cazzo di luce. Non ho invaso il cazzo di schermo con pixel e roba digitale.»
Nella lista, ormai famigerata, di candidati bianchi agli Oscar, Iñárritu è l’unica persona di colore nelle categorie principali. Quando ci siamo incontrati, le nomination non erano ancora state annunciate, ma Iñárritu ha parlato comunque della rappresentazione delle minoranze a Hollywood. Ha ammirato, di recente, la complessità e le sfumature di Sicario e di Narcos, provando vergogna per «gli stereotipi dei messicani grassoni, cattivi, sempre ubriachi che ci sono nel cinema mainstream americano.»

Iñárritu, essendo Iñárritu, presta particolare attenzione agli sgarbi in senso sonoro. «Adoro Sam Mendes, ma sono andato con mio figlio a vedere Spectre, e il film si apre sul Diá de Muertos, e c’è questa specie di musica tropicale, a Città del Messico, con tutti che ballano come se fosse il Carnevale di Rio… Mi ha fatto ridere. Quando stavamo preparando il DVD statunitense di Amores Perros, nel menu avevano infilato un pezzo di flamenco! E ho dovuto dirgli ‘Dai ragazzi, per favore, questa è musica dell’Andalusia, del sud della Spagna. Non è messicana.’ ‘Oh, ma suona così latina…’ E io gli ho risposto ‘Fanculo voi e la vostra latina!’ è come se dicessi ‘Oh suona così Anglo…’ e mettessi su della musica tradizionale tedesca.»
Per la scalata al successo di Donald Trump, Iñárritu non prova altro che sgomento. Soprattutto per la maniera in cui, nonostante il suo razzismo, è stato trattato, da parte di show come il Saturday Night Live, come una figura di intrattenimento. «È un uomo molto povero, che non possiede altro che soldi,” dice Iñárritu, aggiungendo che solo una certezza gli dà conforto: «Trump non lo sa ancora, ma presto diventerà una delle persone che dice di odiare. Presto sarà un perdente.»

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