Ecco Bernardo Bertolucci, nella prima volta di Alberto Barbera alla Mostra di Venezia. «Avevo 26 anni, facevo il servizio militare ad Aosta, stavo in questa casermetta del Comando militare della scuola alpina a battere a macchina perché ero nell’ufficio segreteria, non in un battaglione… [sorride] All’epoca ero amico di Francesco Casetti, che aveva scritto il Castoro su Bertolucci. Era il ’76 e non c’era la Mostra, se non per qualche rassegna [la contestazione sessantottina portò alla sospensione del concorso dal 1969 al 1979, nda], però presentavano in anteprima italiana Novecento, che era stato in concorso a Cannes ma che qui non aveva ancora visto nessuno. Allora la Biennale decide di organizzare un seminario di due giorni invitando cento critici a dibattere sul cinema di Bertolucci. Io vengo invitato da Casetti a partecipare, per cui prendo la licenza, allora si poteva prendere una licenza di dieci giorni –, mi fiondo a Venezia e mi mettono a dormire all’Hotel des Bains. Dalla casermetta passo al des Bains, che all’epoca era ancora in attività, era bellissimo, era il centro del festival. Questo è stato il mio primo incontro con la Mostra del Cinema. E quindi vedo il film, assisto al seminario, passo questi giorni in compagnia di Fernaldo Di Giammatteo, di cui ero diventato amico perché mi aveva fatto fare il Castoro su Truffaut. Discutevamo di Novecento nel tragitto a piedi fra l’Hotel des Bains e il Palazzo del Cinema…». Intervallo.
«Poi sono tornato a Venezia nel ’79 come critico della Gazzetta del Popolo. Era il primo anno di Lizzani [Direttore della Mostra dal 1979 al 1982, nda], ed è stato il rilancio di Venezia, la reinvenzione della Mostra con l’introduzione di una serie di innovazioni che poi tutti gli altri avrebbero copiato. C’era Enzo Ungari che lavorava con Lizzani, la maggior parte dei delle idee innovative venivano da lui. Si era inventato questa sezione, “Mezzogiorno e Mezzanotte”, che ha fatto scalpore e ha avuto un enorme successo. A mezzogiorno passavano documentari strani, curiosi, a mezzanotte c’erano le grandi anteprime dei film americani. Mi ricordo, un paio d’anni dopo, quella dei Predatori dell’arca perduta, con l’arrembaggio degli spettatori che, appena hanno aperto le porte, si sono fiondati alla conquista di un posto. Io ero tra quelli, sono finito in prima fila sotto lo schermo, adesso devo andare nelle ultime file per riuscire a vedere…».
Andrebbe avanti a ricordare senza interruzione, Barbera, che parla di questo «festival che rinasceva dalle sue ceneri», quand’era ragazzo, di quella Mostra che «aveva imposto un altro passo, aveva inventato il festival moderno, come non c’era da nessun’altra parte» sapendo perché noi siamo qua: perché anche la sua è diventata, nei suoi a oggi tredici (più tre) anni da Direttore, una Mostra-fenice. La formula Barbera è diventata la formula Venezia. Un festival tornato di primo piano, rilevantissimo su scala globale e – ora uso una parolaccia – cool. Un direttore di festival da bambino non prova il discorso dell’Oscar davanti allo specchio come gli aspiranti attori, ma si sarà immaginato: se mai dovessi guidare Venezia, quello che farei è…
Joaquin Phoenix a Venezia. Foto: Matteo Chinellato/NurPhoto via Getty
«In realtà la prima volta ci sono arrivato da un altro mondo, da direttore del Festival di Torino, dunque inesperto, ignaro di cosa fosse la Biennale». Era il 1999, era il primo giro, erano quei primi tre anni messi fra parentesi qualche riga sopra. «Mi son trovato di colpo a fare un festival che si misurava con i più grandi autori e produttori del mondo. Una delle cose che mi impressionavano di più era tirare su il telefono, comporre un numero e chiamare direttamente la Warner Bros. a Los Angeles, o chiunque ti potesse rispondere e dare ascolto. Quella per me era una cosa senza precedenti».
Il modello era ancora la Mostra di Lizzani, «la scommessa era stare al passo con i tempi, con le trasformazioni continue, che da quel momento sono diventate molto repentine. Nel ’99 si cominciava a parlare di rivoluzione digitale, ricordo benissimo che uno dei primi temi sollevati in quella Mostra fu in un convegno organizzato dal Sole 24 Ore sull’arrivo del digitale tra lo scetticismo di tutti, distributori, esercenti, produttori, con tanti che dicevano “è solo uno strumento in più, non cambierà niente”. Invece poi abbiamo scoperto che nel cinema stava cambiando tutto…».
Dal 1999 ad oggi il cinema è cambiato ancora di più, e più velocemente, e Venezia non ha arrancato, non ha perso il passo. «Dopo il digitale, c’è stata la rivoluzione degli effetti speciali, e poi le piattaforme, la crisi del mercato distributivo, adesso l’Intelligenza Artificiale. Ogni anno facciamo i conti con qualcosa di nuovo che rischia di cambiare per sempre lo scenario che abbiamo davanti. E credo che Venezia, tra tutti i festival, sia quello che ha fatto più cambiamenti, cercando proprio di stare dietro alle trasformazioni all’interno dell’industria, ma anche del linguaggio estetico, introducendo ogni anno una serie di elementi in anticipo su tutti gli altri festival. Faccio un esempio banale ma che è sotto gli occhi di tutti: siamo stati il primo festival del mondo ad aggiungere una competizione dedicata alla realtà immersiva [Venice Immersive]. Abbiamo cominciato nel 2018, Cannes ci è arrivato quest’anno, quando Venezia era già riuscita a diventare il punto di riferimento per queste produzioni a livello mondiale. Ma così vale per tutto il resto: l’apertura alle piattaforme, la volontà di non distinguere più tra prodotti per il circuito tradizionale e i film dei grandi autori finanziati dagli streamer… Venezia è il festival che ha cambiato più volte faccia, che ha cercato di adattarsi quanto più possibile a tutti questi cambiamenti».
La formula Barbera, dicevo. È il 2013, è il secondo anno del secondo giro da Direttore, quello che dura ancora oggi. Il film d’apertura è un certo Gravity di un certo Alfonso Cuarón. Lì succede qualcosa. «Quello è stato simbolicamente l’inizio di un nuovo corso», riconosce anche lui. «Persino alla Warner, quando gli ho proposto l’apertura della Mostra, sono un po’ caduti dalle nuvole, erano stupiti che un film come quello fosse scelto per inaugurare la Mostra. Poi hanno accettato e da lì è partito tutto. Gravity è diventato un grande successo commerciale, è andato agli Oscar, li ha pure vinti [sette, tra cui quello a Cuarón per la regia, nda], e da lì, un po’ alla volta, gli americani sono tornati. Adesso non è che possiamo avere tutto quello che vogliamo, però se non altro abbiamo la possibilità di vedere praticamente tutto, il che ci consente di fare delle scelte le scelte. A volte sono più i film a cui rinunciamo di quelli che invitiamo».
Timothée Chalamet a Venezia. Foto: Rocco Spaziani/Archivio Spaziani/Mondadori Portfolio via Getty
Oggi vediamo la star Lady Gaga che is born in un vestito di piume rosa, e Timothée Chalamet a schiena nuda con le sue bones and all date in pasto alla folla, ma non è sempre stato così. «C’è stato un momento, diciamo nei primi anni 2000, in cui Venezia ha subìto un lentissimo ma progressivo, come dire…». Lo dico io: declino.«Per tanti motivi. Per la concorrenza di altri festival, prima Toronto, poi Telluride, persino Locarno in una certa misura. E perché la Mostra non sembrava più all’altezza di quella che era la storia, il prestigio di Venezia. C’era quest’erosione nei confronti di Venezia a vantaggio di altri festival che rischiava davvero di confinarla in un angolo. Venivano gli autori dei film invitati, sì, ma non c’era nessuno della produzione. E soprattutto non c’erano i compratori, che andavano direttamente a Toronto perché lì si facevano gli affari. Perciò di anno in anno, con la scusa che Venezia era troppo cara, i grandi titoli americani preferivano andare a New York o ad altri festival. Una parte importante del gioco» – della formula, penso io – «è stato tutto il sistema di ricostruzione dei rapporti. Dovevamo convincere gli americani a tornare a Venezia: se vengono loro, allora arrivano anche tutti gli altri più facilmente, perché gli americani fanno da volano per i media, per i giornali, per il pubblico. Tutti vogliono essere lì ad approfittare anche solo un po’ della luce che accendono. Ci siamo riusciti con un enorme lavoro dietro le quinte che si è basato anche sul rinnovamento di tutte le strutture, di tutte le sale cinematografiche, per ritrovare la qualità di proiezione indispensabile a un grande festival. C’è voluto un decennio, ma ce l’abbiamo fatta. Oggi abbiamo una quantità di elogi per il funzionamento della macchina che una volta erano assolutamente impensabili. Oggi a Venezia non solo la gente ci viene volentieri, ma fa pressioni per ottenere uno spazio di visibilità a cui prima magari avrebbe rinunciato».
Cuáron, che cinque anni dopo Gravity avrebbe vinto il Leone d’oro con Roma, ha simbolicamente inaugurato la generazione di autori che Venezia ha consacrato, e poi sempre coccolato. Alejandro González Iñárritu, Guillermo del Toro, Yorgos Lanthimos, tutti dalla periferia del cinema – inteso come mainstream dell’industria, dunque come Hollywood – alle statuette, passando quasi sempre per il Lido. Alcuni di loro ci tornano pure quest’anno. «La distinzione tra cinema d’autore e cinema commerciale oggi non vale più, come non vale più in politica la distinzione tra la destra e la sinistra. Sono categorie del passato. Oggi al cinema la distinzione tra alto e basso non spiega più niente, quindi va superata, anzi: va abbandonata. Il nostro è un lavoro difficile che ha bisogno di limature continue, di aggiustamenti incessanti sulla qualità. Bisogna chiedersi costantemente cos’è oggi un bel film, perché lo consideriamo tale o perché non ci piace un film che invece magari riesce a parlare a un sacco di spettatori, a sconvolgere l’immaginario collettivo quando a noi da un certo punto di vista non sembra adeguato, non sembra corrispondere alla nostra idea di cinema. Questa è l’altra anima di Venezia. L’assenza di pregiudizi, l’apertura totale e la capacità – no, lo sforzo – di intuire perché un film ci parla, ci interroga come critici e come spettatori». L’autore e il commerciale.
E qui arriviamo al secondo momento che, secondo la formula Barbera, cambia Venezia. «L’altra grande sorpresa per tutti è stato il Leone d’oro a Joker, che nessuno si aspettava, la gente era stupitissima già anche solo per il fatto che fosse in concorso, figuriamoci vincere. Poi anche quello è diventato un successo mondiale e ha vinto l’Oscar. E poi c’è quello che per me è stato il terzo momento» – fa una pausa – «che è il Covid, la pandemia, quel momento di rottura che è stato il 2020, quando tutti i festival del mondo hanno dovuto fermarsi. Venezia è stato il primo grande festival mondiale che si è potuto tenere, e da lì in poi si è avviata tutta una serie di cose nel cinema che Venezia ha accolto, come dicevamo prima. La rinuncia forzata di Cannes a mettere in concorso i film di Netflix e delle piattaforme è stato un altro booster per Venezia. Abbiamo avuto accesso a grandissimi film che non potevano fare la promozione a Cannes [in Francia il passaggio in sala è obbligatorio, nda]».
Questo vuole anche dire attrare un altro pubblico?, chiedo io. «Certamente. Negli ultimi anni il 70% del pubblico di Venezia è un pubblico nuovo, un pubblico giovane, di ragazzi di età molto bassa, tra i 18 e 30 anni. La cosa divertente è che hanno la stessa curiosità, la stessa passione, la stessa voglia di immergersi in questa maratona di film che avevamo noi quando andavamo ai primi festival che frequentavamo negli anni ’60, Pesaro, Torino, e anche Venezia… Non è vero che non c’è pubblico per il cinema, è solo disperso, bisogna andarlo a prendere. C’è meno pubblico nelle sale tradizionali, anche perché tante sale tradizionali sono rimaste ancorate a un modello legato al passato. Non basta più aprire un cinema e aspettare che la gente venga, bisogna diventare creativi, e difatti le sale che funzionano fanno esattamente questo. Puntano su film ragionati, sull’incontro con gli autori, sulla possibilità di andare al cinema e trovare un ristorante dove mangiare, addirittura in certi posti per gli studenti di andare lì e trovare un’aula studio dove socializzare. Se no oggi vedere un film è facilissimo, c’è la piattaforma, c’è la comodità del divano. Ma il desiderio di cinema c’è e va alimentato, intercettato, sollecitato».
Emma Stone a Venezia. Foto: Andreas Rents/Getty
Poi c’è l’annosa questione cinema italiano. Quest’anno apre Sorrentino, che a Venezia ha cominciato (con L’uomo in più), per poi tornarci con i due Papi e con È stata la mano di Dio, Leone d’argento. Anche lì, qualcosa è cambiato. «Oggi non c’è film italiano che non tenti la carta Venezia», e Barbera un po’ gongola, nel dirlo. «Abbiamo la possibilità di scegliere anche lì, e ammetto che non sempre abbiamo fatto le scelte giuste, perché di errori se ne fanno sempre. Però nell’insieme abbiamo ribaltato il rapporto negativo che storicamente c’era tra Venezia e il cinema italiano. Tutti sapevano che il cinema italiano a Venezia non aveva buona accoglienza, nessuno voleva venire a bruciarsi le penne con proiezioni a rischio. Al di là delle scelte più o meno sbagliate che abbiamo fatto, devo riconoscere però che la maggior parte dei film italiani che abbiamo presentato in questi anni è stata ben accolta, o se non altro con rispetto e con la dovuta attenzione, anche quando i film magari non piacevano».
Negli ultimi anni, però, s’è visto un filotto che è arrivato (o quasi) agli Oscar, se vogliamo sempre usarli come metro: Sorrentino, Garrone, Delpero. «Ne vado fiero perché quando sono arrivato a Venezia non voleva venirci nessuno, il rapporto era gravemente compromesso. Ora non è più così da un pezzo». Gli chiedo qual è stato il film, o l’autore, su cui da Direttore ha puntato e su cui è impuntato, e che è stato contento di avere nonostante i venti o i pareri contrari. «Ti dico i primi film di Guadagnino. Guadagnino era amato pochissimo dai critici, per non dire detestato, dai tempi di Io sono l’amore». Io ero in sala a Venezia alla infamous proiezione di quel film, ricordo bene i fischi di quelli che oggi lo supplicano per un’intervista. «C’era un pregiudizio negativo nei suoi confronti che è stato durissimo ribaltare. Oggi Guadagnino è considerato uno dei pochi registi italiani con un profilo internazionale, con un’attenzione critica ben diversa dall’inizio, e con un pubblico giovanissimo. Son felice di aver puntato i piedi e di aver preso uno dopo l’altro quasi tutti i film che Luca ha fatto, da A Bigger Splash a Suspiria a Bones and All, perché capivi che avevi davanti un autore destinato a crescere film dopo film, al punto che oggi è diventato uno dei nomi internazionali che sono più sotto i riflettori».
E, a chiudere, qual è l’autore che invece avrebbe voluto, e però niente? «C’è, e in realtà l’ho avuto. È stato a Venezia nel 2012, ha pure vinto premi importanti, però poi non è più tornato, e ultimamente non va più a nessun festival. L’autore che mi manca, e che manca a molti, è Paul Thomas Anderson. È uno dei maggiori cineasti americani in attività, e uno dei più grandi cineasti del mondo. Lasciamo perdere… Però, dopo quell’ultima volta a Venezia, mi scrisse una lettera che conservo gelosamente. Diceva che le due proiezioni migliori al mondo di The Master, sia in termini tecnici che di accoglienza, erano state quella di Los Angeles e quella veneziana. Quella lettera me la tengo da parte, quando sarò giù di morale andrò a rileggermela».
L’intervista ad Alberto Barbera è tratta dal nuovo numero speciale di Rolling Stone, Il Cinema, in edicola dal 25/08 e acquistabile nello store on-line.
