5 minuti su Zoom con Nicole Kidman (a parlare di ‘The Undoing’) | Rolling Stone Italia
Interviste

5 minuti su Zoom con Nicole Kidman (a parlare di ‘The Undoing’)

Cioè la sua nuova miniserie, in arrivo su Sky a dicembre. Ma anche di coraggio, vittimismo, canzoni, Jane Campion. E di ‘nicolekidmanness’: che per lei non esiste, e invece è la chiave di tutto

5 minuti su Zoom con Nicole Kidman (a parlare di ‘The Undoing’)

Nicole Kidman in ‘The Undoing’

Foto: Niko Tavernise/HBO

Ho capito che non siamo pronti per un nuovo lockdown quando Nicole Kidman mi ha concesso solo cinque minuti su Zoom. Sì, lo so, non è stata mica lei a decidere, lei con me avrebbe pure impastato la pizza a distanza, è la produzione, la promozione (della miniserie The Undoing, ci arriverò presto). I ritmi dell’attività stampa con la Serie A sono rimasti serratissimi anche ora che noi Cavalli e segugi siamo a casa in smart-tuta. Però, ecco, ho capito (o forse è autoconvincimento) che le lunghe conversazioni non ci piacciono più come una volta, che con le lunghe sessioni di aperitivi virtuali abbiamo già dato, adesso basta, la sola idea di ricominciare ci fa sudare freddo.

(Le interviste di questo tipo su Zoom – lo spiego ai nativi analogici come me – funzionano in questo modo. Sei dentro “una stanza”, si dice così, con gente a caso, tipo solito inizio di solita barzelletta. Io con una tizia collegata da Singapore e un’altra da Parigi. Quella da Singapore continua a sistemarsi la frangia – vuole forse competere con Nicole in fatto di capelli? – e quella da Parigi gioca col micino. Poi, a turno, veniamo risucchiati tipo Poltergeist e scaraventati dentro un’altra stanza – la stanza di Nicole – e allora devi fare tutto di corsa, prima di essere risucchiato di nuovo.)

Di Nicole si apprezza, da sempre, la spericolatezza con cui sceglie i ruoli. E, ovviamente, il talento incommensurabile, la pelle luminescente che – dal vivo si vede di più – pare c’abbia una lampadina dentro, lo snobismo pressoché nullo che la porta a seguire ora un Kubrick ora un cane (nel senso artistico-registico della parola), e insieme anche lo snobismo dell’essere così naturalmente poco hollywoodiana, intendo proprio nel gusto, nell’indirizzo della carriera. Si direbbe quasi europea, ora che abbiamo capito che l’America fa schifo e torniamo tutti eurocentrici, finalmente.

Di Nicole si apprezzano moltissimo (li apprezzo io) gli elegantissimi bacini che mi manda dallo schermo, quando le dico che vorrei molto più tempo con lei, e invece questo è una specie di speed date, per fare presto mi tocca buttarla sul questionario di Proust. (Anch’io cerco di posizionarmi da subito, non tricologicamente come la tizia di Singapore, ma facendo sfoggio di cultura middlebrow. In alternativa, avrei potuto dirle che anche per me – come per lei, come per tutti – Guerra e pace è uno dei libri della vita: ma avrei sprecato troppi preziosissimi secondi.)

Hugh Grant e Nicole Kidman in ‘The Undoing’. Foto: Niko Tavernise/HBO

Di Nicole si apprezza l’ultima serie, appunto The Undoing, appena partita negli Stati Uniti su HBO e da noi su Sky e Now TV a dicembre, principalmente perché è fatta come tutte le serie di quando eravamo tutti analogici – ah, no: si chiamavano telefilm. C’è un intrigo assai intrigante: David E. Kelley, cioè il signor Ally McBeal e Big Little Lies, l’ha preso dal romanzo Una famiglia felice di Jean Hanff Korelitz, è un giallo nell’alta borghesia newyorkese con la moglie (Kidman) che scopre che il marito (Hugh Grant) ha molte ombre, e dunque la loro vita apparentemente perfetta si sgretola, eccetera. E c’è la puntata settimanale col cliffhanger finale, che ne vuoi subito un’altra e invece ti tocca aspettare. Nel corso della settimana, puoi solo commentare con gli amici le duecento piste aperte in ogni episodio (è stato il marito? O è colpa di lei? Oddio, e se invece lo stronzo fosse… insomma, avete capito); insieme alla favolosa sfilata di favolose robe da ricchi, gli attici (design porn), i cappottini di velluto (wardrobe porn), i ricci della protagonista (Nicole-coi-capelli-rossi porn). Glielo dico, che mi manca solo l’ultimo episodio, e che non me lo mandano (la produzione, la promozione), e che mi sto struggendo da settimane. Ma lei può solo sorridere, che altro deve fare.

Quel suo sorriso spezzato è un’altra cosa che s’apprezza moltissimo, e che definisce quella che, almeno per me, è una qualità unica e sola, la butto lì per iniziare: è la nicolekidmanness, non c’è altro modo di definirla, e vorrei che mi fosse spiegata dalla sua tenutaria. Che però sorride ancora e fa “no no no” col dito: «La nicolekidmanness non esiste!». Io non lo accetto, e allora rilancio: cos’è questo tuo coraggio di cui sempre si parla, da dove viene quella tua spericolatezza? Qual è, insomma, l’essenza di Nicole Kidman? Nicole Kidman, professionalmente, risponde: «La passione. Amo il mio lavoro, e la mia vita. E cerco sempre nuovi modi per esplorare la condizione umana. Per indagare le persone, e come interagiscono tra loro. E che cos’è la vita, che cosa significa. È una ricerca che non si è ancora esaurita, continua. Sono curiosa, ottimista. E ormai ho maturato una certa esperienza, credo di poter condividere quello che ho scoperto finora, che ciò avvenga su un set, o a teatro, o in qualsiasi posto mi trovi a lavorare. Ed è un dono, poterlo fare».

Di The Undoing si apprezza anche che – in quest’epoca in cui contano sempre e solo le vittime – nessuno è davvero vittima, né la ragazza (Matilda De Angelis) che innesca il giallo né la povera moglie, o il marito che forse è innocente, o i poveri che devono competere con le vite apparecchiatissime dei ricchi (il patriarca è Donald Sutherland, per dire). Facciamo potenzialmente tutti schifo. «Sì, questo è vero. Ed è la cosa che mi ha convinta a raccontare questa storia (Kidman è anche produttrice esecutiva della serie, nda). Tutti sono coinvolti. Puoi vivere insieme a una persona per anni, e poi scoprire all’improvviso qualcosa della sua vita che fa cambiare tutto». Sottotesto: e allora la vittima chi è.

New York, gli appartamenti di lusso, la coppia, il sesso, i segreti: non si può non pensare a Eyes Wide Shut. Ma Nicole ha appena rivelato al New York Times Magazine che sul set passava il tempo con Stanley a guardare i video degli animali: non potrà dirmi nulla di meglio. Parliamo di qualcun altro. «Jane Campion mi diceva sempre: “Proteggi il tuo talento”». S’illumina più di quanto non sia già luminosa di suo. «Era l’inizio della mia carriera, avrò avuto ventun anni. Jane mi diceva: “Non regalare il tuo talento – e il tuo cuore – a nessuno. Abbine cura”. La cosa strana è che, mentre giravamo The Undoing, Susanne Bier (la regista danese premio Oscar per In un mondo migliore che ha diretto tutti gli episodi della serie, nda) mi ha detto: “Nicole, tu ti devi proteggere. Non puoi concederti così come fai. Finirà che qualcuno ti farà del male, che ne uscirai distrutta. Devi proteggere quello che hai”. E allora ho pensato: oddio, Jane mi ha detto la stessa cosa quando avevo vent’anni; ora che sono in una fase totalmente diversa della mia vita, ricevo lo stesso consiglio da parte di Susanne. Però, allo stesso tempo, sono felice di non essere la persona che va in giro così (si copre la faccia con le mani, come a proteggersi, nda). Sono felice di restare quella aperta a tutte le possibilità, quella che si butta dentro le cose, o che almeno ci prova. E se devo farmi male, allora mi farò male. Ma è così che voglio restare».

Ora la notizia (per me è una notizia) è ufficiale, ma, quando ho visto la serie, ancora non era stato comunicato che la voce che canta Dream a Little Dream of Me sui titoli di testa è quella di Nicole. Si capiva perché lo stile è lo stesso di Something Stupid con Robbie Williams, quel birignao come per dire “mica faccio sul serio”. Le dico che io invece voglio che faccia sul serio, io voglio un album di cover intero! Ancora “no no no” col dito. Insisto: eddai, hai pure chi ti può dare una mano dentro casa… «Sì, mi darebbe una grossissima mano, ma io resto una supporter. Sono un’attrice, se devo cantare lo faccio, ma mio marito (Keith Urban, nda) è il cantante e il performer di casa, e va bene così. Io mi metto dietro a fare i cori».

Il tempo sta per scadere, no, è già scaduto, cos’altro posso dire, oddio, la prima cosa che mi viene, ma cosa, ecco: il primo piano di Birth! Quei due implacabili minuti fissi sulla faccia di lei, seduta tra il pubblico di un concerto di musica sinfonica. Sono forse la scena con più nicolekidmanness nella storia di Nicole Kidman. Faccio appena in tempo a pronunciare il titolo del film che lo schermo va a nero, è finito tutto, resterò con quest’altro close up fuggito in chissà quale altra stanzetta. Poi, magia, Nicole ricompare: «Uh, sì, quel primo piano… Due riprese, e basta. Fatto. Grazie di avermelo ricordato». E poi viene risucchiata davvero, e non riesco a dire grazie a te, e a mandarle dei bacini ovviamente non eleganti come i suoi, e a spegnere tutto per sempre, costringetemi a qualsiasi altro lockdown, io comunque Zoom, dopo Nicole, non lo riaprirò più.

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