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Golden Globe 2021: il meglio e il peggio

Il red carpet senza red carpet, i (pochi) discorsi memorabili, i ‘pippotti’ sulla diversity, i pigiami che battono gli abiti da sera: le pagelle alla cerimonia in streaming. Momento ‘non classificabile’ compreso

Foto: Kevin Mazur/Getty Images for Hollywood Foreign Press Association

Meglio: I figli di

Dopo le polemiche per la mancanza di rappresentazione, la Hollywood Foreign Press Association le prova tutte per rimediare, a partire dalla scelta come ambassador dei figli del regista più black sulla piazza, Spike Lee: Satchel e Jackson. Fighissimi, fierissimi e giustissimi, come da tradizione paterna. Tra le best situazioni familiari c’è da segnalare casa Sorkin, dove Aaron ha il salotto invaso da uno squadrone di donne: il regista e sceneggiatore ringrazia Chloé Zhao, Emerald Fennell e Regina King, perché «mia figlia, che va ancora al college, vuole fare la filmmaker. Ed è colpa vostra». Sul divano di Kidman-Urban, la figlia della coppia aspetta il verdetto insieme a mamma Nicole e papà Keith, e la prole di Ruffalo salta nell’inquadratura all’annuncio del trionfo di Mark e non se va più. Ma la vincitrice assoluta è la figlia di Lee Isaac Chung, il regista di Minari, che si attacca al collo del padre urlando: «Ho pregato ed è successo!». E diventa la star dell’intervista post-vittoria, sparandosi le pose a fianco e interrompendolo mentre parla con i giornalisti. Piccoli “figli di” crescono.

Peggio: L’attesa senza red carpet

Non c’è il red carpet causa emergenza sanitaria? Benissimo, non fatelo. Perché le conduttrici del pre-show in abito da gran sera sullo sfondo della piscina dell’Hilton, live from tappeto rosso vuoto, anche no, che tristezza. E basta anche riempire quell’ora e mezza di attesa lanciando a nastro rvm (siamo vintage) di look degli anni passati (niente, giriamo il coltello nella piaga), interviste con i candidati che non dicono nulla su sfondi improbabili, opinionisti di cui non ci interessa l’opinione. Bla bla bla, cheppalle. La cerimonia inizia alle due ora italiana? Partite con la diretta a quell’ora e evitiamo di annoiarci prima, che la serata è lunga, please. Academy, segna. Nel caso.

Meglio: Le urla di Laura

«Porca miseriaaaaaaaaa!». Chi mai l’aveva pronunciato (urlando) dopo una vittoria ai Golden Globe? Nessuno, ci voleva la ragazza di Faenza a portare un po’ di fierezza – e, soprattutto, caciara – italiana a Hollywood. Dalla Solitudine a Io sì (Seen), la canzone scritta con Diane Warren e Niccolò Agliardi per La vita davanti a sé che si è portata a casa il trofeo (e che, a questo punto, corre dritta verso gli Oscar). Se il set tricolore del discorso ufficiale di ringraziamento – vestito rosso, pianoforte bianco, luci verdi – era un po’ troppo didascalico, diciamo così, il video postato dalla popstar su Twitter è travolgente. Io canto, ma soprattutto: io urlo. Ed è giusto così.

Peggio: Il pippotto di ‘mea culpa’

La bacchettata di Tina Fey e Amy Poehler (vedi più avanti) alla Hollywood Foreign Press Association per la mancanza di membri black ci stava: «Sono tutti comprensibilmente incavolati con la stampa straniera e le loro scelte: è stata nominata un sacco di spazzatura, ma quello capita, è un po’ il loro marchio di fabbrica. Un gran numero di attrici e progetti black però è stato ignorato», ha attaccato Poehler. Poi Fey: «Sappiamo tutti che gli Award show sono stupidi, sono truffe inventate dalla lobby dei red carpet per vedere più tappeti. Ma anche per le stupidaggini l’inclusione è importante e non ci sono membri black nell’Hollywood Foreign Press. Magari non avete ricevuto il memo perché il vostro ufficio è nel retro di un McDonald’s francese, ma dovete cambiare le cose». Fino a qui tutto bene. Il problema è il mea culpa da barzelletta che è arrivato dai membri della stampa straniera dopo. Tipo: c’erano una tedesca, un’indiana e un turco. La prima (la presidente Helen Hoehne) dice: «In questa serata in cui premiamo il lavoro di artisti da tutto il mondo, riconosciamo di avere del lavoro da fare. Come nel cinema e nella tv, la rappresentazione black è vitale, dobbiamo includere giornalisti neri nella nostra associazione». Poi attacca la vice Meher Tatna: «Dobbiamo anche assicurarci che tutti coloro che fanno parte di comunità poco rappresentate abbiano un posto nell’organizzazione. E faremo in modo che succeda». Chiude un terzo malcapitato: «Questo significa creare un ambiente in cui la diversity dei membri sia la norma, non l’eccezione. Guardiamo a un futuro più inclusivo». No comment perché, se nel 2021 dobbiamo sorbirci ancora questi pippotti ex-post, male male…

Meglio: Sacha che ci salva dalla noia

Meno male che Sacha Baron Cohen c’è, a salvare la patria e la serata da una rottura di coglioni che stava tra il livello otto e il nove nella scala di Rocco Schiavone. Vince (meritatissimamente) come miglior attore in una commedia e alé: «Fermi tutti, Donald Trump sta contestando il risultato: afferma che hanno votato un sacco di persone morte, ed è una cosa molto brutta da dire alla Hollywood Foreign Press». Arriva anche la statuetta per Borat – Seguito di film cinema come miglior comedy. E parte il secondo Sacha-show: «Non sarebbe stato possibile fare questo film senza la mia co-star, un talento freschissimo che viene dal nulla e si è rivelato un genio della commedia. Ovviamente sto parlando di Rudy Giuliani: chi altro è in grado di scatenare tante risate soltanto tirandosi giù una cerniera? Incredibile». Sacha Baron Cohen for president.

Peggio: I look ‘acchittati’ (meglio Jodie in pigiama)

Perché acchittarsi? Siamo tutti in lockdown (negli Stati Uniti ancora più che qua), tanto vale non sbattersi troppo. Karl Lagerfeld, Monsieur Anti-Tuta per eccellenza, inorridirebbe. Ma forse troverebbe inappropriati anche i soliti abitoni da sfilata di Beautiful sfoggiati, nel giardino di casa o in stanze d’albergo affittate per l’occasione, da candidate come Amanda Seyfried e Lily Collins. Se si vuole essere fashion, tanto vale farlo con ironia: vedi la coppia di The Crown Josh O’Connor e Emma Corrin, stilostissimi nel loro match black-and-white. Tra troppi lustrini (Regina King) e tailleur da sera punitivi (Laura Dern), tanto vale mettersi direttamente in tuta, appunto: vedi Jason “Ted Lasso” Sudeikis, subito in trending sui social, e il presenter Joaquin Phoenix, con felpona sopra la camicia. O ancora meglio in pigiama: la best è Jodie Foster, versione piumone (ma in preziosissima ed elegantissima seta) con la moglie Alexandra Hedison, a cui stampa un bacio sulle labbra dopo la vittoria a sorpresa come miglior attrice non protagonista per The Mauritanian. Pigiama party.

Meglio: Jane, who else?

E poi arriva Jane (Fonda: ne esiste un’altra?). Che, ricevendo il Cecil B. DeMille Award per la sterminata carriera, parla di diversity e inclusione con la tempra e la credibilità di chi ha sempre condotto battaglie non certo dal divano, come si fa oggi. E poi dice quali film l’hanno ispirata quest’anno, parla ai colleghi “storyteller” con la saggezza della maestra, continua ad essere la più diva delle diva anche ora che è una Calamity Granny. Come lei nessuna mai: prendete appunti, tutti.

Peggio: La mancanza di emozione

E di calore, applausi, partecipazione collettiva. Diciamolo: siamo stufi di fare (e provare) tutto “a distanza”. Collegarsi via Zoom dal divano di casa sarà anche più comodo, ma – e mai avremmo pensato di dirlo – ormai rimpiangiamo tutti le care vecchie standing ovation di una volta. Come quella che la platea avrebbe tributato al commovente discorso della moglie di Chadwick Boseman, che ha ricevuto la statuetta postuma per il film Ma Rainey’s Black Bottom. L’emozione si vive in solitaria: dall’incredula Emma “Lady D” Corrin, giustamente premiata per The Crown, alle lacrime scomposte in stile Miss Italia di Andra “Billie Holiday” Day, che ha battuto Carey Mulligan nella cinquina delle migliori attrici drammatiche. Torneremo ad abbracciarci: sì, ma quando?

Non classificabile: Il monologo di Tina e Amy

Compito arduo, quello di condurre una cerimonia di gala in tempo di pandemia. Ma ormai la pandemia va avanti da un anno, e qualcuno ce l’ha fatta egregiamente (anche solo la nostra Anna Ferzetti ai Nastri d’argento 2020). Le sodali Tina Fey e Amy Poehler, divise dallo split screen (la prima era a LA, l’altra a NY) mettono nel monologo d’apertura il solito campionario di pizzini e battutine: citano i grandi assenti, tirano le orecchie alla Hollywood Foreign Press Association per il flop sulla diversity, piazzano una satira divertente sui titoli delle serie viste in tempo di Covid. Tutto qua. Certo non era facile, ma le prime ad annoiarsi sembrano proprio loro. E non va affatto bene. Questi Globe (e la loro conduzione) erano dei veri e propri Hunger Games, come li ha definiti la stessa Amy: diciamo che loro per prime non sono state due ragazze di fuoco.

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