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‘Whitney’, we will always love you

'Una voce diventata leggenda', il biopic ufficiale sulla star morta a 48 anni, racconta i successi, gli alti e i bassi, ma in realtà vuole solo essere la più grande lettera d'amore che sia mai stata scritta a Houston

Foto: Emily Aragones/Sony Pictures

Non è necessario essere fanatici di Whitney Houston per avere un momento preferito: basta solo amare il suono di una voce umana che rasenta il divino. Qualcuno probabilmente citerebbe la sua apparizione al The Merv Griffin Show nel 1983 (dove ha cantato Home dalla commedia The Wiz), subito dopo che Clive Davis l’ha ingaggiata per Arista Records. Altri indicherebbero direttamente il video musicale di How Will I Know?, che l’ha aiutata a sfondare su MTV e quindi nelle classifiche pop. Gli houstoniani di ferro però sanno che, per risentire la best performance in assoluto, bisogna riascoltare il medley di I Loves You Porgy, And I Am Telling You e I Have Nothing, che Whitney ha eseguito agli American Music Award del 1994, un autentico triathlon vocale. E non parliamo nemmeno della sua interpretazione definitiva dell’inno nazionale al Super Bowl del 1991…

Whitney – Una voce diventata leggenda (molto meglio il titolo originale, Whitney Houston: I Wanna Dance with Somebody) ricrea ciascuno di quei momenti con quanta più fedeltà e ricordi autentici e precisi possibili; anche quando non passa dal footage reale all’attrice Naomi Ackie che interpreta Houston durante il suo periodo di massimo splendore, questo dramma sull’ascesa di Whitney da ragazza del coro di una chiesa nel Jersey a fuoriclasse spessa sfruttata suona come una compilation dei più grandi successi pensata meticolosamente. Autorizzato dalla famiglia e con tanto di trattamento biopic della regista Kasi Lemmons (La baia di Eva), questo sguardo alla vita di Whitney e, purtroppo, alla sua morte è arrivato per celebrarla, non certo per seppellirla una seconda volta. Il film è consapevole che ormai dei tragici scoop da tabloid che a volte hanno eclissato l’eredità di Whitney sappiamo tutto: ecco a cosa è servita la lunga serie dii documentari su Houston. Ora però l’obiettivo è quello di sottolinearne i trionfi.

Non che Whitney escluda le battaglie che la cantante di Greatest Love of All ha affrontato nei suoi 48 anni su questa Terra: i drammi a casa, il crossover tra blues e pop e le accuse di non essere abbastanza nera, i fischi ai Soul Train Award, la pressione che ha accompagnato la fama e i tour senza fine, le voci sulla sua relazione con Robyn Crawford (Nafessa Williams), la tensione con il padre (Clarke Peters) dopo che è diventato il suo manager, quasi tutto sul suo rapporto con Bobby Brown (Ashton Sanders). Semplicemente qui non c’è più interesse per la Via Crucis della superstar.

Il film lavora invece con grande determinazione per riportare l’attenzione sul suo talento. È quel talento esagerato che ha fatto sedere il fondatore di Arista Records, Clive Davis (Stanley Tucci, in parte casting acrobatico e in parte scelta ispirata) quando ha sentito la giovane Houston cantare in un minuscolo night club di New York e l’ha messa sotto contratto quasi subito. È sempre quello stesso talento che ha ispirato sua madre, Cissy (Tamara Tunie), anche lei una cantante rinomata e sempre in tournée, a sacrificare i riflettori in modo che sua figlia potesse brillare adeguatamente. (È Cissy che finge un colpo di tosse quando Davis si presenta al concerto di Sweetwater, è Cissy che inizia a dirigere l’orchestra del Merv Griffin Show quando il tempo rallenta durante l’apparizione di Whitney. Almeno stando al film.) Il talento è pure il motivo grazie a cui Whitney è passata dal fare dischi al battere ogni record.

E Ackie aiuta a identificare Houston come un talento unico anche quando non è lei a cantarne i brani leggendari con note da mezzosoprano. L’attrice britannica ha il compito di restituirci l’artista ambiziosa, la donna con l’orecchio d’oro per scorgere i successi futuri in demo ancora approssimative, la collaboratrice creativa che ha abbracciato il pop e che ha portato tanto R&B nella musica pop degli anni ’80. Non solo Ackie è abbastanza imparruccata e ingioiellata da assomigliare a Whitney nei suoi momenti più glamour o nel suo look più casual-chic anche quando l’abbigliamento è il messaggio (quella tuta bianca al Super Bowl non era una coincidenza). È che non sembra nemmeno un po’ frastornata dall’intepretare una leggenda. C’è la costante sensazione che molte mani stessero lottando per guidare questo biopic dietro le quinte, con varie parti che spingono la storia in un modo o nell’altro, anche con l’obiettivo comune di creare collettivamente la più grande lettera d’amore per Houston. Eppure Ackie è totalmente concentrata a impersonare una Whitney degna dello schermo, mentre colleziona hit su hit e si guadagna una stella nella Hall of Fame.

Il film mostra pure l’ego, la rabbia, il bisogno d’amore e accettazione, sprazzi di comportamento irregolare e di dipendenza da sostanze che hanno caratterizzato Whitney – non solo verso la fine, ma per tutta la sua carriera – anche se il film continua a mettere da parte gli aspetti negativi per accentuare quelli positivi. Sì, cantava come un angelo, ma Houston era umana, dice timidamente il biopic. Quindi fa un passo indietro per lasciare che l’attrice mostri anche gli aspetti meno edificanti, tanto fortemente rappresentati quanto poco riconosciuti. Funziona, anche quando il film non sembra funzionare del tutto. Che di solito è quando si scontra con la maledizione che affligge la maggior parte dei biopic musicali: cercare di rappresentare una vita complicata in poco più di due ore. Lo sceneggiatore Anthony McCarten, che ha scritto pure Bohemian Rhapsody, non cerca di mettere in secondo piano la relazione romantica di Houston con Crawford o di fingere che non esistesse. Non ci sono zone grigie nel loro amore, Houston dice persino a Davis che la canzone del titolo originale parla di “when you wanna dance with somebody…but you just can’t”. Messaggio ricevuto. Ma anche Crawford, assunta come “assistente creativa”, alla fine viene relegata a un’altra persona che sta lì per dire a Whitney “No”,”Stai attenta”, “Sei cambiata” o “Devi cambiarti” prima di lasciare il palco.

La Crawford di Williams prende il suo posto accanto al patriarca ipocrita di Peters, alla madre dura ma preoccupata di Tunie, alla versione volatile ma non minacciosa di Brown che interpreta Sanders (che ha la migliore battuta non pronunciata da Ackie, quando giustifica un suo tradimento dicendo: “È stato l’alcol… e parecchio!”), e il benevolo Papa Clive di Tucci come supporting nella sublimata Passione che si svolgeva sotto la celebrazione dei riflettori. I cliché abbondano, dai momenti di “eureka!” alle ironiche riprese di canzoni fino a parecchia preveggenza – ma, ehi, i biopic fanno i biopic. Nessuno può dire che Houston non meriti un film basato sulla sua storia, anche se qualcuno vorrebbe che superasse il solito modello. Non succede: resta una rivisitazione un po’ affrettata di una vita dove la parte del leone la fanno gli alti e i bassi sono quasi sotterranei, e riesce a stimolare la nostra memoria sui successi anziché sulle conseguenze. Chiude con quel medley pazzesco agli American Music Award del 1994, ricreato per intero. Anche un facsimile del momento più alto di Houston è sufficiente per farci tornare a casa dal cinema non ciò che abbiamo perso, ma con ciò che abbiamo guadagnato ascoltando quella voce.

Da Rolling Stone USA

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