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‘Volevo nascondermi’, Antonio Ligabue e l’emarginazione dell’arte

Il film di Giorgio Diritti è la sinfonia visiva perfetta per un Elio Germano strepitoso, che come mai prima ha stravolto, angustiato, oppresso il suo corpo per adattarlo a quello del pittore

Foto: Chico De Luigi

Sono passati più di cento anni, ma la storia personale di Antonio Ligabue è attualissima. La solitudine è la catena della sua esistenza fin da bambino, adottato da genitori che ben presto, per la sua lontananza dai canoni di normalità che un piccolo paese svizzero può sopportare all’inizio del ’900, inizieranno a odiarlo fino a cacciarlo di casa, e rispedirlo in Italia. Nel film di Giorgio Diritti Volevo nascondermi si racconta questa storia, quella di un ultimo fra gli ultimi, una storia che nemmeno il successo è riuscito ad aggiustare, a “normalizzare”. E non poteva trovare parole migliori Elio Germano quando, ritirando il meritato Orso d’argento a Berlino, ha detto: «Il premio voglio dedicarlo a tutti gli storti, gli sbagliati, gli emarginati e i fuori casta. E alla grande lezione che ci ha dato Antonio Ligabue, che è ancora con noi, che quello che facciamo in vita rimane». E dalla storia si evince quanto Ligabue fosse consapevole che il suo lavoro sarebbe rimasto, persino quando, rivolgendosi al suo autista, dice «di un artista come me resterà la mia arte, tu al massimo sarai cibo per i vermi», capace di una brutalità, di una cattiveria e di una freddezza cinica che solo chi è stato trattato da bestia è in grado di assumere.

Il film comincia con una scena che vuole dirci che c’è poco da girarci intorno, che il titolo del film è didascalico nel senso più alto del termine, quello della prima voce da consultare quando si guarda un’opera d’arte: una coperta nera sotto la quale Ligabue si nasconde nello studio dell’ennesimo medico che deve giudicare la sua follia, con il fare dei bambini che credono di non poter essere visti, se sono loro stessi a non vedere. Da quella scena, parte un viaggio disperato e struggente che mostra i maltrattamenti subiti per una vita: picchiato dai compagni di classe, internato in cliniche psichiatriche, cacciato dalla famiglia, costretto a vivere in una baracca in riva al Po. Fino all’incontro con Renato Mazzacurati, pittore della scuola romana originario di Gualtieri, dove Ligabue venne “esiliato”, che capisce dai disegni visti sui supporti più strani che quell’uomo era in realtà un visionario. Gli insegna a usare i colori a olio, tenta di inserirlo in quei sistemi dell’arte che persino adesso, a 55 anni dalla morte, lo rifiutano.

Volevo nascondermi ha una regia morbida e meticolosa, è un racconto dolce che ci restituisce la luce che solo i grandi fotografi emiliani hanno saputo intuire, diventando una delle poche categorie riconoscibili nella loro disciplina in Italia. Soprattutto, è la sinfonia visiva perfetta per un Elio Germano strepitoso, che come mai prima ha stravolto, angustiato, oppresso il suo corpo per adattarlo a quello del pittore, che era prima di ogni altra cosa un selvaggio. Non so se sia giusto dire che la pittura di Ligabue fosse istintiva, come è facile liquidarla, perché ha avuto una evoluzione nello stile dagli anni ’30 fino alla sua morte. Si è fatta più nitida con il passare degli anni, e nel film si può vedere il processo che lo portava a dipingere paesaggi e luoghi che spesso aveva visto solo sui libri o in televisione, soprattutto quelle tigri contro cui ringhiava, urlava, diventava bestia nel vero senso del termine.

Foto: Chico De Luigi

E nella storia sono tanti a dirgli che anche un bambino sa disegnare meglio e lui si imbufalisce, distrugge le sue opere, capisce che i passi che ha compiuto per farsi accettare dalla società non sono serviti a nulla. Quel “volere nascondersi”, infatti, è più semplice per chi ha una posizione e un ruolo sociale, perché gli ultimi, i reietti, i nullafacenti, i disperati sono sempre visibili e vessati. Essere uguali è il modo migliore per trovare l’intimità, perché l’anonimato è un lusso di pochi. Mi è venuto da pensare, guardando il film di Diritti, che cavalcare quelle motociclette che comprava a dozzine appena vendeva qualche quadro, per Ligabue altro non era che trasfigurare meccanicamente quelle tigri dipinte, che finalmente poteva domare. E allora da quella solitudine, da quel dolore che Ligabue sfogava contro se stesso prendendosi a pugni sul naso e sulle tempie perché «se scorre il sangue scorre anche il demonio che ho dentro», possiamo imparare l’emarginazione dell’arte, l’euforia violenta della creazione di chi non vuole o non si può allineare.

Ligabue ha prodotto tantissimo nella sua vita e ha anche venduto, abbastanza per poter trovare il coraggio di chiedere un bacio, “dam un bès”, alla figlia dell’oste del paese di cui era innamorato e che lo portava al tormento, perché non capiva come fosse possibile che i genitori gli vietassero di sposarla anche quando lui una posizione se l’era guadagnata eccome. È probabilmente morto così, non capendo cosa ci fosse di diverso in lui, cosa ci fosse di strano a indossare un pesante cappotto in luglio perché «io nella mia vita ho sofferto tanto freddo, il caldo non lo sento neanche».

Sappiamo che in questi giorni, è impossibile andare al cinema, ma vogliamo dirvi di andare a vedere questo film appena vi sarà possibile, perché ha avuto l’intelligenza di non voler spiegare un artista (l’arte va vissuta e non spiegata), ma di tenderci una mano che ci invita a un punto di vista più nitido, a guardarlo da vicino, oltre quel fenomeno di costume che ha soffocato la figura di Antonio Ligabue nei decenni, un artista che ha trasformato il ghetto della sua storia in un orto coltivato.

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