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‘Una battaglia dopo l’altra’ è il film dell’anno, anzi, forse del decennio

Paul Thomas Anderson firma un’opera incendiaria e irresistibile: tra rivoluzione e melodramma familiare, satira e tragedia, un film che spaventa e diverte, galvanizza e disarma. E trasforma il caos del presente in Cinema puro (feat. DiCaprio, Penn, del Toro e Taylor)

Foto: Warner Bros.

Ci sono tante, troppe cose da dire sul film dell’anno, anzi, probabilmente il film del decennio. Provo ad andare in ordine sparso: uno dei nomi più belli di sempre, Perfidia Beverly Hills (forse nom de guerre, ma certamente memorabile come il personaggio di Teyana Taylor); Leonardo DiCaprio in look total Drugo che urla “¡Viva la Revolución!” con il pugno alzato a Benicio del Toro alias un sensei messicano (!), fixer per quella stessa revolución; un’organizzazione segreta di nazionalisti bianchi che si chiama Christmas Adventurers Club (!); almeno un paio di erezioni a favore di camera di Sean Penn in modalità G.I. Joe alt-right quasi chapliniano; suore fiancheggiatrici dei rivoluzionari che coltivano (e fumano) marijuana; un finale (no spoiler) cla-mo-ro-so à la Punto zero, ma come se fosse stato girato da Antonioni (cit. Variety).

Ok, posso riprendere fiato, che è quello che non ho fatto (sì, è un’iperbole, but still) per tutti i 162 minuti di Una battaglia dopo l’altra. Un’invenzione cinematografica paulthomasandersoniana dopo l’altra, un grido di battaglia (pardon) d’auteur, una chiamata alle armi (“La violenza rivoluzionaria è l’unica via”, dice Perfidia) pacifica (?) capace di usare il Cinema per mettere in scena e far detonare le contraddizioni del nostro tempo. Il punto di partenza è il romanzo Vineland di Thomas Pynchon (e non è il primo adattamento by PTA, vedi Vizio di forma), certo, ma non c’è nessun riferimento storico reaganiano, siamo in un presente sospeso che ricorda in modo angosciantissimo l’America di oggi.

Make it big, make it bright”, raccomanda Perfidia al compagno di vita e d’armi, Ghetto Pat, aka Rocketman, e cioè DiCaprio (#tuttovero). Specialista in bombe e cotillon, guida insieme a lei i French 75, guerriglieri improvvisati e autoproclamatisi combattenti per la libertà che vogliono sovvertire il regime con azioni casuali. Il loro obiettivo: un centro di detenzione per immigrati a San Diego, sperando che sia il primo boom di una rivoluzione.

E “make it big, make it bright” è quello che fa anche Paul Thomas Anderson in questi primi 10 minuti, che poi diventano 20, 30, 40… insomma, avete capito. Entering il colonnello militare Steven J. Lockjaw di Sean Penn con undercut neo-nazi ed espressione di disgusto perenne, responsabile del centro e caricatura vivente del macho suprematista. Ha un debole per Perfidia, che Anderson scolpisce come ribelle nella ribellione, erede di una lunga stirpe di barricaderi neri, amante, miccia politica, incarnazione di una femminilità bellica e senza compromessi: “La fica è per la guerra, è un’arma”. Una frase che è già slogan, disturbante e profetico, che sintetizza corpo e rivoluzione, sesso e violenza, amore e distruzione. Tra Perfidia, Lockjaw e Pat nasce così un triangolo amoroso tra fazioni politiche che più opposte, e più inquietantemente e pericolosamente intrecciate, non potrebbero essere: “Le rivoluzioni iniziano sempre per combattere dei demoni, poi succede che quei demoni combattano loro stessi”, altra cit., altra profezia. Intanto quella stessa rivoluzione donchisciottesca non russa, e continua a colpire tra attentati e rapine in banca: PTA li segue senza giudizio, in un ritmo che cresce fino all’inevitabile esplosione. Ok, è il momento di fare tutti quanti un bel respiro.

Teyana Taylor in ‘Una battaglia dopo l’altra’. Foto: Warner Bros.

E quando pensi che la traiettoria sia segnata, Anderson rimescola le carte e porta la storia altrove. All’improvviso il film diventa anche un dramma familiare, tenero e devastante: perché il politico è personale, e il personale non è mai stato così politico. DiCaprio è vulnerabilità nel caos, scalda la parte forse più cerebrale del film, pare quasi liberato da una comicità e uno sconvolgimento che lo umanizzano. È l’omaggio del regista (che ha ben tre figlie, e si sente) a un padre imperfetto che cerca disperatamente di non trasmettere il fallimento a chi viene dopo di lui. Il momento in cui non ricorda la risposta in codice alla domanda “Che ore sono?” (nessuno spoiler, è nel trailer) per comunicare con gli amici ribelli è già cult: un dettaglio comico che diventa critica feroce al linguaggio sterile di un certo liberalismo incapace di parlare a chi vorrebbe difendere.

Dall’altra parte della barricata, Sean Penn incarna una satira agghiacciante e insieme irresistibile dell’action man razzista e misogino: un gioco di rimandi e deformazioni che tocca l’apice della sua carriera e lo fa entrare per direttissima nella galleria dei personaggi indimenticabili di Paul Thomas Anderson. Il suo colonnello Lockjaw è al tempo stesso parodia e minaccia, clown tragico e mostro politico. E poi Benicio (basta il nome), che Anderson immagina come un santo protettore di migranti, braccio armato e spirituale di una rivoluzione che forse non è mai davvero cominciata. L’uomo che conosce il confine con il Messico e i suoi segreti, che ha visto troppa violenza per credere ancora nella purezza di una causa. Del Toro si muove lento, parla poco, osserva tutto: un personaggio da antologia, costruito più sui silenzi che sulle parole.

Teyana Taylor e Sean Penn in ‘Una battaglia dopo l’altra’. Foto: Warner Bros.

E proprio dai silenzi parte Jonny Greenwood, per riempirli o spezzarli: archi che graffiano, chitarre che esplodono, vuoti improvvisi che diventano assordanti, o una singola, insistente nota di pianoforte che restituisce tutta la tensione, narrativa e umana. Greenwood non accompagna: scrive a sua volta battaglie interiori, un controcanto che amplifica ogni gesto, ogni urlo, ogni smorfia dei protagonisti.

Una battaglia dopo l’altra spaventa e diverte, galvanizza e disarma. Ha fatto impazzire Spielberg, che l’ha visto tre volte e l’ha paragonato al Dottor Stranamore: “Arrivi a un punto dove vuoi ridere, perché se non ti metti a ridere inizi ad urlare”, ha detto. “È tutto troppo reale”. Troppo vicino, troppo adesso. È un nuovo classico: un film d’Autore che diventa un blockbuster ineluttabile. È il lavoro di un Cineasta al massimo della forma, capace di raccogliere il delirio dell’attualità e di farne – lo dico? Sì, lo dico – un capolavoro contemporaneo.

Leonardo DiCaprio e Benicio del Toro in ‘Una battaglia dopo l’altra’. Foto: Warner Bros.

Politicamente affilato senza mai essere moralista, Anderson costruisce un racconto ricco di azione che una volta ingranata la marcia non si ferma più, e che sa alternare l’epica incendiaria a momenti di comicità folgorante. È un film che ha la forza delle proprie convinzioni: ride, sì, ma ride con i denti stretti, perché dietro la risata c’è la vertigine dell’analisi spietata sugli Stati Uniti che non sono mai stati tanto sull’orlo del collasso. Eppure PTA non cede mai alla tentazione del pamphlet: i suoi personaggi restano al centro, con le loro fragilità, i loro fallimenti, le loro ombre. La rivoluzione resta sempre e comunque un fatto umano, prima che politico.

E proprio per questo Una battaglia dopo l’altra è forse il film più radicale della sua filmografia: se Il petroliere era una tragedia americana, se The Master era un duello filosofico, se Licorice Pizza era una lettera d’amore adolescenziale, qui c’è tutto, tutto insieme: manifesto, farsa, melodramma, satira, epopea familiare, tragedia contemporanea. È l’atto con cui Anderson accetta il caos del presente e lo trasforma in Cinema purissimo. Esattamente quel tipo di ossessione che sogniamo di poter chiamare “film dell’anno”. O forse del decennio.

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